I was so high I did not recognize
The fire burning in her eyes
The chaos that controlled my mind.
Whispered goodbye and she got on a plane,
Never to return again,
But always in my heart.
(This Love – Maroon 5)
Toronto era una distesa d’acqua, edifici, grattacieli,
case e luci. Ero lontano; mai come in quel momento mi ero sentito lontano. Così
tanto, anni luce. Erano ormai quasi otto anni che non tornavo ad Amburgo, otto
anni che non sentivo più cantare Bill, suonare Gustav, sbraitare Tom. Ero
partito con l’intenzione di tornare, ma non l’avevo fatto. E ora il brusio
delle acque dell’Ontario mi ricordava il brusio di una sera che ormai era
lontana tanto quanto me. Quella sera Bill aveva aperto gli occhi, avvolgendo
l’infinita platea che si stagliava davanti a noi in uno sguardo vellutato. Poi,
di colpo, lucido. Era rimasto in silenzio. I suoi respiri emozionati erano
diventati percepibili nel microfono; la folla, a poco a poco, aveva affievolito
i suoi schiamazzi, gridando, urlando, scrosciando, borbottando, bisbigliando,
infine sussurrando. La distesa umana davanti a noi si era fatta pian piano più
silenziosa. Inverosimile. Poi Bill aveva intrecciato le dita sul microfono, aveva
fatto aderire il suo corpo all’asta e si era inclinato leggermente in avanti,
poggiando il mento sul dorso delle mani. Aveva messo su quel suo sorriso
imbarazzato, mostrava i denti mordendo il labbro inferiore, e si guardava
intorno con quegli occhioni grandi da cerbiatto.
Però non guardava me, Bill. Non
mi guardò mai, quella sera. A dire il vero, quella sera, era già da tanto che
non mi guardava più; era un sacco che i suoi occhi non si specchiavano nei
miei. Poi ero andato via. Lontano. Era finito tutto, di nuovo. Era finita anche
la sabbia grigia che scivolava nel mio pugno. Era finito il boato del motore di
una barca che fendeva l’acqua davanti a me.
Seduto su una spiaggia di Toronto, un po’ lontano da casa mia, fissavo la
superficie liscia del lago. Pensavo, ricordavo, riflettevo. Cercavo, inutilmente,
di trovare una giustificazione a quella mia assenza così prolungata. “Questa… questa è la nostra ultima
canzone, stanotte.”, diceva Bill davanti ad almeno un milione di fan
stranamente silenziosi, e credetemi, la sua voce tremava. Ma non tremava, come
al solito, di sforzo, stanchezza, o eccitazione. Tremava di malinconia precoce,
ecco cosa. E di emozione, e commozione.
Quando i Tokio Hotel si erano sciolti, avevo deciso di partire per un viaggio.
Per pensare, star da solo. Forse per permettere a Bill di sentire la mia mancanza;
per sperare che chiamasse. Ma non per qualcosa di preciso, solo così, per
sapere come stavo.
Bill non chiamò mai. Io non tornai più.
“Credo… di aver perso il conto delle volte in cui ho ripetuto questa frase,
in questi dodici anni.”, aveva abbozzato una risata leggera, vaga. “Ma stasera,
stasera lo dirò per l’ultima volta. Vedete… quasi 15 anni fa, qui, a
Magdeburgo, quattro ragazzini misero su una band con pessime canzoni e pessimi
vestiti. E…iniziarono a cantare, e a suonare, quello che avevano dentro. Undici
anni fa, per la prima volta i Tokio Hotel calcavano questo stesso palco. E voi
eravate sempre gli stessi, meravigliosi.”, un urlo costellato da battiti di
mani si era levato dalla folla. “Qui, a Magdeburgo, è dove è iniziato tutto… e
qui, stasera, con voi, per voi ci esibiremo per… oh, dannazione, non riesco
neanche a dirlo!”, fece di nuovo quella risata malinconica, e guardò Tom, che
sorrise incoraggiante. “Ci esibiremo per l’ultima volta.”
Fu, appunto, l’ultima volta che ci esibimmo, quella sera. Fu una delle ultime
volte che vidi Bill, Tom, Gustav, Alice, David e tutti gli altri. L’ultima sera
da Georg Listing. Il giorno dopo, ero
solo Georg.
Era stata l’ultima sera per sedermi sulla poltroncina bianca del backstage, per
asciugarmi il collo sudato con l’asciugamano soffice del mio staff.
Fu l’ultima volta per un sacco di cose, quella. L’ultima volta che, alzando gli
occhi, avevo mormorato un “Domani parto”. L’ultima volta, eppure la prima dopo
tanto tempo, che Bill mi guardava con interesse; l’ultima volta in cui i suoi
occhi tradirono una qualche emozione nei miei confronti. Se fosse stato
stupore, rabbia, dolore, non seppi dirlo, perché durò un attimo solo. Avrei
voluto durasse di più. Tom aveva increspato le sopracciglia. Gustav aveva
sorriso, pacato.
“E dove vai?”, mi aveva chiesto. Avevo scrollato le spalle e intrecciato le
mani in grembo.
“Toronto, Canada.”, mi avevano guardato privi di espressione, tradendo un muto
“Tornerai presto?”. “Tornerò presto, promesso.”, mi avevano creduto, i gemelli.
Ma lui no. Gustav no.
Mi aveva afferrato per un braccio, appena fuori dal palazzetto, e trascinato
delicatamente verso di lui. Poi, mi aveva penetrato con uno sguardo serio,
morbido, però severo. “Vorrei che tu fossi qui, quando nascerà Alain.”, Alice
era incinta di appena tre mesi, quella sera. Avevo riso con superficialità,
ignorando quella frase.
“Non starò via così a lungo.”, non mi aveva creduto di nuovo, Gustav,
eclissandomi dietro al suo sguardo muto. Avevo scollato piano la sua mano dal
mio braccio e gli avevo sorriso rassicurante. “Tornerò presto, sta tranquillo.
Te lo prometto”. Non mi aveva risposto, aveva finto di fidarsi. Ma mi conosceva
troppo bene per sapere che avevo bisogno di scappare. Di andare il più lontano
possibile.
Sapeva che io non ero come lui, Bill e Tom. Non mi sarebbe bastato ritirarmi
dalla scena come loro, sparire l’attimo dopo. Io dovevo ritirarmi da me,
staccarmi da Georg Listing, ucciderlo. E tornare a vivere Georg.
Alain adesso dovrebbe avere all’incirca 7 o 8 anni. Io non tornai, non lo vidi
nascere, non sapevo se avesse gli occhi di Gustav o quelli di Alice, i capelli
di sua madre o le labbra di suo padre. Non seppi nulla di lui. Immaginai solo
lo sguardo ombrato di Gustav, e mi bastò per trovare una sciocca giustificazione
per non tornare più.
Toronto era una distesa d’acqua, edifici, grattacieli, case e luci. Sdraiato
sulla schiena sulla sabbia umida, guardavo quel cielo troppo azzurro. E con
claustrofobia, sentii la mancanza di quello troppo grigio di una Germania e di
una vita che sentivo non appartenermi più.
Eccomi
qui dopo un pochino di tempo J
Ho scritto questo capitolo
molto molto breve dopo aver fatto anche io un viaggetto come il nostro Georg (al
mare xD) durante il ponte del 2 Giugno. Mi ha dato molta ispirazione e modo di
riflettere e pensare, dopodiché, di ritorno, ho scritto di getto questo
capitolo ed ora eccolo qui.
Avevo scritto anche un’altra scena in cui però c’erano Cassandra e Tom, ma
questo capitolo era di Georg. Non lo so, ma la parte che avevo scritto “in più”
mi sembrava imbrattarlo, e sinceramente sono molto orgogliosa e mi ha
emozionato un sacco scrivere questo pezzo. Quindi ho deciso di pubblicarlo
così, breve, però sentito. Anche questo spazio autrice è scritto di getto, una
marea di giustificazioni, saluti, spiegazioni inutili come al solito, ma che mi
sento in dovere di scrivere.
Quindi, a questo punto, spero che abbiate passato un buon 2 Giugno anche voi, e
che vi siate divertiti, e spero che vi piaccia anche il capitolo.
Ovviamente nemmeno questo è chiarissimo (credo), ma penso che quello che è
successo (in passato) nella storia, sia abbastanza comprensibile. Ad ogni modo,
per capire, basterà che continuiate a leggere.
Detto questo, enjoy J
=Alice=
PS. Grazie davvero alla dolcissima ed onnipresente (xD) memy881 per le recensioni
costanti J
Un bacio.