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Autore: KymLYCANTHROPE    06/06/2011    2 recensioni
“Ciao.”, la sua voce, improvvisamente vicina, mi fece sobbalzare nonostante sapessi che stesse per arrivare. […]
“Ciao.”, risposi, pacata e nervosa allo stesso tempo.[…] “E’ libero qui?”, aggiunse, forse si corresse, dopo un istante, ed indicò con il mento la poltroncina accanto alla mia.
“Sì. Certo, sì, è libero.” […]
Si mise comodo sulla poltroncina e intrecciò le dita in grembo, allargò le gambe e mi fissò con un sorriso obliquo e il suo imbarazzo sembrò svanire. Sul suo viso da pseudo ventenne comparve un’aria sicura.
“Come mai qui?”, mi chiese, spostando gli occhi dal mio viso alle mie scarpe.
“Sono ad una festa.”, risposi. “Un compleanno. E tu?”
“Un addio al celibato.”, scrollò appena le spalle larghe. Restammo in silenzio per alcuni attimi. “Cassandra, giusto?”
“Cassandra? Cosa? Ah, il mio nome. Sì, sì mi chiamo Cassandra.”
C’era qualcosa, nel modo di guardarmi che quell’uomo aveva, che mi lasciava perplessa. Non riuscivo a capirlo. Come se lo conoscessi; come se in passato, o forse in un’altra vita, avessimo avuto qualcosa a che vedere l’uno con l’altra.
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bill Kaulitz, Georg Listing, Gustav Schäfer, Tom Kaulitz, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I was so high I did not recognize
The fire burning in her eyes
The chaos that controlled my mind
Whispered goodbye and she got on a plane
Never to return again
But always in my heart

This love has taken its toll on me
She said Goodbye too many times before
And her heart is breaking in front of me
I have no choice cause I won't say goodbye anymore

I tried my best to feed her appetite
Keep her coming every night
So hard to keep her satisfied
Kept playing love like it was just a game
Pretending to feel the same
Then turn around and leave again

This love has taken its toll on me
She said Goodbye too many times before
And her heart is breaking in front of me
I have no choice cause I won't say goodbye anymore

I'll fix these broken things
Repair your broken wings
And make sure everything's alright
My pressure on her hips
Sinking my fingertips
Into every inch of you
Cause I know that's what you want me to do

I was so high I did not recognize
The fire burning in her eyes
The chaos that controlled my mind.
Whispered goodbye and she got on a plane,
Never to return again,
But always in my heart.
(This Love – Maroon 5)

 

Toronto era una distesa d’acqua, edifici, grattacieli, case e luci. Ero lontano; mai come in quel momento mi ero sentito lontano. Così tanto, anni luce. Erano ormai quasi otto anni che non tornavo ad Amburgo, otto anni che non sentivo più cantare Bill, suonare Gustav, sbraitare Tom. Ero partito con l’intenzione di tornare, ma non l’avevo fatto. E ora il brusio delle acque dell’Ontario mi ricordava il brusio di una sera che ormai era lontana tanto quanto me. Quella sera Bill aveva aperto gli occhi, avvolgendo l’infinita platea che si stagliava davanti a noi in uno sguardo vellutato. Poi, di colpo, lucido. Era rimasto in silenzio. I suoi respiri emozionati erano diventati percepibili nel microfono; la folla, a poco a poco, aveva affievolito i suoi schiamazzi, gridando, urlando, scrosciando, borbottando, bisbigliando, infine sussurrando. La distesa umana davanti a noi si era fatta pian piano più silenziosa. Inverosimile. Poi Bill aveva intrecciato le dita sul microfono, aveva fatto aderire il suo corpo all’asta e si era inclinato leggermente in avanti, poggiando il mento sul dorso delle mani. Aveva messo su quel suo sorriso imbarazzato, mostrava i denti mordendo il labbro inferiore, e si guardava intorno con quegli occhioni grandi da cerbiatto.
Però non guardava me, Bill. Non mi guardò mai, quella sera. A dire il vero, quella sera, era già da tanto che non mi guardava più; era un sacco che i suoi occhi non si specchiavano nei miei. Poi ero andato via. Lontano. Era finito tutto, di nuovo. Era finita anche la sabbia grigia che scivolava nel mio pugno. Era finito il boato del motore di una barca che fendeva l’acqua davanti a me.
Seduto su una spiaggia di Toronto, un po’ lontano da casa mia, fissavo la superficie liscia del lago. Pensavo, ricordavo, riflettevo. Cercavo, inutilmente, di trovare una giustificazione a quella mia assenza così prolungata. “Questa… questa è la nostra ultima canzone, stanotte.”, diceva Bill davanti ad almeno un milione di fan stranamente silenziosi, e credetemi, la sua voce tremava. Ma non tremava, come al solito, di sforzo, stanchezza, o eccitazione. Tremava di malinconia precoce, ecco cosa. E di emozione, e commozione.
Quando i Tokio Hotel si erano sciolti, avevo deciso di partire per un viaggio. Per pensare, star da solo. Forse per permettere a Bill di sentire la mia mancanza; per sperare che chiamasse. Ma non per qualcosa di preciso, solo così, per sapere come stavo.
Bill non chiamò mai. Io non tornai più.
“Credo… di aver perso il conto delle volte in cui ho ripetuto questa frase, in questi dodici anni.”, aveva abbozzato una risata leggera, vaga. “Ma stasera, stasera lo dirò per l’ultima volta. Vedete… quasi 15 anni fa, qui, a Magdeburgo, quattro ragazzini misero su una band con pessime canzoni e pessimi vestiti. E…iniziarono a cantare, e a suonare, quello che avevano dentro. Undici anni fa, per la prima volta i Tokio Hotel calcavano questo stesso palco. E voi eravate sempre gli stessi, meravigliosi.”, un urlo costellato da battiti di mani si era levato dalla folla. “Qui, a Magdeburgo, è dove è iniziato tutto… e qui, stasera, con voi, per voi ci esibiremo per… oh, dannazione, non riesco neanche a dirlo!”, fece di nuovo quella risata malinconica, e guardò Tom, che sorrise incoraggiante. “Ci esibiremo per l’ultima volta.”
Fu, appunto, l’ultima volta che ci esibimmo, quella sera. Fu una delle ultime volte che vidi Bill, Tom, Gustav, Alice, David e tutti gli altri. L’ultima sera da Georg Listing. Il giorno dopo, ero solo Georg.
Era stata l’ultima sera per sedermi sulla poltroncina bianca del backstage, per asciugarmi il collo sudato con l’asciugamano soffice del mio staff.
Fu l’ultima volta per un sacco di cose, quella. L’ultima volta che, alzando gli occhi, avevo mormorato un “Domani parto”. L’ultima volta, eppure la prima dopo tanto tempo, che Bill mi guardava con interesse; l’ultima volta in cui i suoi occhi tradirono una qualche emozione nei miei confronti. Se fosse stato stupore, rabbia, dolore, non seppi dirlo, perché durò un attimo solo. Avrei voluto durasse di più. Tom aveva increspato le sopracciglia. Gustav aveva sorriso, pacato.
“E dove vai?”, mi aveva chiesto. Avevo scrollato le spalle e intrecciato le mani in grembo.
“Toronto, Canada.”, mi avevano guardato privi di espressione, tradendo un muto “Tornerai presto?”. “Tornerò presto, promesso.”, mi avevano creduto, i gemelli. Ma lui no. Gustav no.
Mi aveva afferrato per un braccio, appena fuori dal palazzetto, e trascinato delicatamente verso di lui. Poi, mi aveva penetrato con uno sguardo serio, morbido, però severo. “Vorrei che tu fossi qui, quando nascerà Alain.”, Alice era incinta di appena tre mesi, quella sera. Avevo riso con superficialità, ignorando quella frase.
“Non starò via così a lungo.”, non mi aveva creduto di nuovo, Gustav, eclissandomi dietro al suo sguardo muto. Avevo scollato piano la sua mano dal mio braccio e gli avevo sorriso rassicurante. “Tornerò presto, sta tranquillo. Te lo prometto”. Non mi aveva risposto, aveva finto di fidarsi. Ma mi conosceva troppo bene per sapere che avevo bisogno di scappare. Di andare il più lontano possibile.
Sapeva che io non ero come lui, Bill e Tom. Non mi sarebbe bastato ritirarmi dalla scena come loro, sparire l’attimo dopo. Io dovevo ritirarmi da me, staccarmi da Georg Listing, ucciderlo. E tornare a vivere Georg.
Alain adesso dovrebbe avere all’incirca 7 o 8 anni. Io non tornai, non lo vidi nascere, non sapevo se avesse gli occhi di Gustav o quelli di Alice, i capelli di sua madre o le labbra di suo padre. Non seppi nulla di lui. Immaginai solo lo sguardo ombrato di Gustav, e mi bastò per trovare una sciocca giustificazione per non tornare più.
Toronto era una distesa d’acqua, edifici, grattacieli, case e luci. Sdraiato sulla schiena sulla sabbia umida, guardavo quel cielo troppo azzurro. E con claustrofobia, sentii la mancanza di quello troppo grigio di una Germania e di una vita che sentivo non appartenermi più.

 

 

Eccomi qui dopo un pochino di tempo J
Ho scritto questo capitolo molto molto breve dopo aver fatto anche io un viaggetto come il nostro Georg (al mare xD) durante il ponte del 2 Giugno. Mi ha dato molta ispirazione e modo di riflettere e pensare, dopodiché, di ritorno, ho scritto di getto questo capitolo ed ora eccolo qui.
Avevo scritto anche un’altra scena in cui però c’erano Cassandra e Tom, ma questo capitolo era di Georg. Non lo so, ma la parte che avevo scritto “in più” mi sembrava imbrattarlo, e sinceramente sono molto orgogliosa e mi ha emozionato un sacco scrivere questo pezzo. Quindi ho deciso di pubblicarlo così, breve, però sentito. Anche questo spazio autrice è scritto di getto, una marea di giustificazioni, saluti, spiegazioni inutili come al solito, ma che mi sento in dovere di scrivere.
Quindi, a questo punto, spero che abbiate passato un buon 2 Giugno anche voi, e che vi siate divertiti, e spero che vi piaccia anche il capitolo.
Ovviamente nemmeno questo è chiarissimo (credo), ma penso che quello che è successo (in passato) nella storia, sia abbastanza comprensibile. Ad ogni modo, per capire, basterà che continuiate a leggere.

Detto questo, enjoy
J

=Alice=

PS. Grazie davvero alla dolcissima ed onnipresente (xD) memy881 per le recensioni costanti
J
Un bacio.

  
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