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Autore: GurenSuzuki    06/06/2011    8 recensioni
Aveva circa otto anni e quindi si può intuire che non sapesse cosa fossero avvenimenti effimeri come la vita e la morte, giusto?
Errore.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Gackt, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Redemption.
Dedicata a chiunque si senta inadeguato
e porti il peso di colpe inesistenti.

Immaginatevi una struttura bianca, dai muri perfetti -la cui candidezza è interrotta ogni tanto da qualche cartello rappezzato- che si erge in tutta la propria imponenza, stagliandosi contro un cielo plumbeo e minaccioso.
E dentro questa struttura bianca immaginatevi infinite stanze, con tante persone quante ne può vantare un formicaio, intervallate da corridoi lunghi, larghi e dal caratteristico odore di disinfettante, che pare iniettarvisi tra le pieghe della pelle da quanto è pungente.
In una di queste stanze, piazzateci un bambino.
Aveva circa otto anni e quindi si può intuire che non sapesse cosa fossero avvenimenti effimeri come la vita e la morte, giusto?
Giusto.
Nonostante avesse rischiato la vita poco tempo addietro, non aveva ancora distinto la linea sottile che la separava dalla pace eterna.
Questo bambino fissava un foglio bianco, una matita stretta tra le pallide mani, gli occhi oscurati dalla frangia corvina che gli ricadeva scomposta e disordinata sulla fronte increspata da rughe di pura concentrazione.
Mordicchiava il retro della mina con fare pensieroso, perso nei propri ragionamenti.
I piedini si muovevano leggermente, uno sopra, uno sotto alle coperte. Si stringeva nel pigiama grigio, timidamente.
"Ciao."
Alzò la testa di scatto, con lo sguardo incuriosito: un bambino. L'ennesimo. Si aggrappava a una lunga asta con delle rotelle, una sacca contenente del liquido trasparente era agganciata ad un'estremità e un lungo tubicino -anch'esso decolorato- andava ad unirsi alla sua pelle.
Aveva occhi cerchiati, capo perfettamente raso, fisico gracile infagottatato in un ampio pigiama blu e una vestaglia riccamente decorata. Si reggeva a stento, sorreggendosi all'asta della flebo.
Lo osservava impassibile, non un alito di emozione trapelava da quegli occhi verdi di taglio indiscutibilmente occidentale.
La pelle diafana era resa ancor più fragile dal contrasto che esercitava il colore scuro del corredo.
Aveva un'aria indifesa, spaurita... sola.
Si chiamava Daniel. Aveva nove anni, ma ne dimostrava sei. Il bambino non sapeva altro. Non aveva idea del perchè Daniel fosse lì con lui, vicino di stanza. Non aveva idea del perchè avesse un ago piantato nel braccio. E a dire il vero non se lo chiedeva neppure.
Non pensate che fosse per egoismo o chissà...
... era un bambino. Per lui non esisteva nulla al di fuori delle proprie conoscenze.
E forse era un bene. Neppure Daniel pareva conoscere il male da cui era afflitto, ed entrambi si astenevano dal parlarne, come anche non discorrevano del perché il corvino si trovasse in quella stanza.
L'occidentale non lo sapeva. L'orientale sì.
Oh, lui l'aveva capito benissimo perché era lì dentro. Sapeva a cosa servivano i complicati macchinari e congegni che utilizzavano per frugargli nel cervello e che l'avevano tenuto sveglio notti intere a lambiccarsi.
Aveva smesso da settimane di porsi quella fatidica quanto stupida domanda: perché?
I perché non funzionavano, l'aveva capito.
I perché facevano male, scavavano una ferita molto profonda.
I perché non avevano mai una risposta, ma facevano battere forte il cuore punto di sofferenza.
Le cose capitavano e basta. Forse scoprirlo a otto anni lo avrebbe risparmiato da immani sofferenze... o forse no.
"Ciao." rispose celermente, ritornando con una punta di rammarico a concentrarsi sul foglio immacolato.
Sentì lo strusciare delle rotelle sulle piastrelle fredde e piedi infagottati in pantofole di pelo arrancare verso il letto sul quale era seduto.
Non distolse lo sguardo dalla pagina bianca.
"Cosa fai?" domandò Daniel osservando che l'amico non aveva tracciato neppure un puntino.
"Scrivo."
"... che cosa?"
"Un finale allegro per una storia triste."
Il biondo rimuginò un poco sulle parole del compagno, per poi sorridere "Se ha un finale felice è tutto a posto allora... puoi sorridere."
"E invece no." ribattè seccato l'altro, ancora col capo chino.
Daniel si espresse in una muta richiesta di spiegazioni, piegando lievemente la testa di lato.
L'altro lo guardò spazientito e parlò dopo aver sospirato "Anche se ha una fine felice prima ci sono tante cose brutte da passare."
"E ti spaventano?" domandò con una naturalezza che poteva essere propria solo di un bambino.
Si prese alcuni secondi per rispondere e quando lo fece parlò in modo amareggiato, quasi gli costasse parecchio ammettere quel particolare "... molto."
Percepì una tiepida mano posarsi sulla sua. Alzò il capo inciampando negli occhi smeraldini dell'altro.
Si scostò con poca grazia, mugugnando, tornando a nascondersi dietro le ciocche seriche.
"La mia mamma dice sempre che non bisogna aver paura." disse infine Daniel, dopo lunghi minuti di leggero silenzio.
"Lo dice perchè è stupida." rispose con ben poca delicatezza l'altro.
L'amico non raccolse la provocazione, continuando ad elargire le proprie personali perle di vita "Se una cosa deve succede, succede. La paura ti fa solamente passare male il tempo felice che hai."
Il corvino si immobilizzò. Quelle parole l'avevano colpito, in profondità. Gli si erano rannicchiate nel petto o in qualunque altro posto contenesse le emozioni.
Non rispose, celandosi dietro il mordicchiare inquieto della matita.
Rimasero infiniti attimi così: Daniel che puntava lo sguardo sul capo chino dell'altro, che dal canto suo non desiderava assolutamente incontrare la potenza di quegli occhi abbaglianti.
"Anche i tuoi genitori ti vogliono bene."
Un sussulto.
Daniel aveva parlato quasi in tralice, fissandosi i piedini con naturalezza paranormale.
Il corvino strinse il foglio fino a strapparlo.
"Tu non sai niente." scandì con una rabbia che andava acuendosi ogni secondo che passava.
"Anche se ti hanno messo qui dentro ti vogliono bene." proseguì Daniel.
"Ti ho detto di smetterla!"
"... tutti i genitori vogliono bene ai propri figli."
Sciaff!
Il biondo capitolò a terra, fissando negli occhi il corvino con uno stupore disarmante.
L'altro si guardò la mano che aveva colpito l'amico, e poi il profilo rossastro che andava sempre più scurendosi sulla guancia dell'altro.
Chinò il capo, l'arto che tremava lievemente.
Rimasero lunghi minuti così, uno a terra e l'altro con la rabbia che scemava sempre più.
"I miei genitori non sanno niente. Come i tuoi. Come tutti qui dentro. Credi che ci abbiano messo qui a fare una vacanza? Sei malato. Sono malato. Stanno cercando di curarci. Ma non ci riescono e forse mai ci riusciranno per quello che ne sappiamo." il corvino parlò con voce bassa e calma, nonostante le dure parole vendute.
Daniel si alzò a fatica, gli occhi smeraldini che si velavano di lacrime.
"Questo io lo so. Non c'è bisogno che me lo ricordi." e detto ciò uscì dalla stanza, passandosi uno scheletrico braccino infagottato sulle palpebre chiuse.

I giorni passavano e Daniel non tornava. Il corvino era sinceramente pentito del gesto compiuto e voleva avere l'opportunità di scusarsi. Peccato che fosse provvisto di un non indifferente orgoglio, che non gli facilitava assolutamente il compito. Una parte di lui voleva alzarsi e andare nella camera attigua alla propria, fissare negli occhi il bambino biondo e recitare una piccola promessa di pace, sincera.
Eppure non ci riusciva. Ammettere in quel modo di aver sbagliato era un colpo troppo duro da impartire al proprio subconscio, e lui era abbastanza piccolo per non rendersene conto.Tra lui e Daniel, in tutti quei mesi che avevano condiviso alla Clinica, si era cucito poco a poco un rapporto intenso di amicizia, che li aveva uniti indissolubilmente, contro un destino che pareva essergli avverso.
Il biondo aveva preso l'abitudine di far visita all'amico almeno un paio di volte al giorno, per giocare, chiaccherare o semplicemente farsi compagnia vicendevolmente.
Non percepire la sua presenza era davvero un peso tremendo, quasi il freddo dell'inverno si fosse acuito e fosse riuscito a penetrare le finestre sigillate della camera.

Passarono più o meno cinque giorni prima che il corvino si decidesse ad abbattere il proprio smisurato orgoglio.
Era una fresca mattinata, il cielo minacciava pioggia da un momento all'altro e nella Clinica regnava una pace e una quiete quasi paranormale, dato il significante vociare che solitamente la riempiva.
Era inquieto da quando si era svegliato. Non riusciva a stare fermo un attimo. Si contenne appena per la visita settimanale dei suoi genitori e quando vide la chioma abboccolata di sua madre sparire dietro la porta bianca -come tutto il resto- scostò le calde coperte azzurrine e scese dal letto, prendendo tra le piccole mani un fagotto avvolto in una carta leggera, un tovagliolo forse.
Un piccolo dono per suggellare la ritrovata amicizia. Una fetta di torta gelosamente conservata dalla sera prima sotto il cuscino.
Aveva fretta nelle ossa, però il proprio corpo sembrava di tutt'altro parere. Si sentiva gli arti pesanti come piombo e faticò non poco a trovare il coraggio sufficiente per giungere alla maniglia, abbassarla e far capolino sul corridoio immacolato e deserto. Si avvicinò in punta di piedi alla camera dell'amico.
Trovò una porta socchiusa e una flebile luce mattutina rischiarare il poco che si scorgeva.
Prese un profondo respiro e poggiò una piccola mano sulla lastra di plastica.
Gli si mozzò il fiato: Daniel era steso sul letto, che pareva inghiottirlo. Un incessante bip intervallato da pesanti secondi di pausa proveniva da una macchina lì vicino. Aveva gli occhi chiusi, ancor più cerchiati del solito. Era talmente pallido che pareva una luna ammalata, adagiato tra i marmorei cuscini.
Mosse qualche piccolo passettino avvolto dalla candida pantofola azzurra verso l'amico che sembrò percepire la sua presenza, aprendo gli occhi faticosamente.
Sorrise nel vederlo, nonostante paresse in punto di morte.
Era peggiorato, si vedeva.
"Ciao." questa volta fu il corvino a salutare, subito ricambiato debolmente. Poggiò il dolce sul comodino al suo fianco con delicatezza e poi si accucciò accanto al letto dell'amico e lì rimase per lunghi minuti, tenendogli la mano pallida e scarna che spuntava dall'ammasso di pail e lenzuoli.
Non sapeva come dirglielo.
Era tentato di ripercorrere la strada appena fatta a ritroso e tornare a imbacuccarsi nel piumone della propria camera austera e incolore.
Ma non lo fece.
Rimase lì per almeno dieci minuti buoni.
Poi, spinto da chissà cosa, aprì bocca e fece per parlare.
"Daniel io.."
Bi-bip. Bi-bip- Bi-bi-bi-bi-bi-bi.
La strana e rumorosa macchina collegata all'amico prese a dare di matto, suonando a intervalli irregolari e protraendosi celermente.
Daniel si contrasse, tra le coperte, e gli strinse spasmodicamente una mano.
Si stupì di quanta forza possedesse.
Una nicchia esigua di infermiere irruppe nella stanza, con gridolini isterici e poco consoni, armeggiando con siringhe e quant'altro, sotto gli occhi spalancati del corvino.
Fu allora che Daniel gli sorrise. Un sorriso sincero.
E in quel momento capì di aver ottenuto la propria redenzione.
Mentre le infermiere chiamavano a gran voce i dottori in camice lindo, dall'aria sacra, che si atteggiavano a semi-dio, Daniel continuò a sorridere, emanando una flebile luce, proprio come una timida luna.
Il bambino rimase impalato di fianco al letto dell'amico, le lacrime che gli scendevano dagli occhi spalancati e morivano sulla bocca dischiusa.
A poco a poco Daniel si spense, con gli occhi aperti a fissarlo, la smeraldina intesa che moriva nel tiepido abbraccio della nocciola del compagno.
E il corvino rimase lì. Il fischio prolungato della macchina del battito cardiaco gli giunse ovattato, così come le frasi sconnesse di dottori e infermiere, che a poco a poco si fermarono e uscirono.
Rimase lì.
Le lacrime che poco a poco gli si seccarono sul volto, evaporando e fermandosi.
Aveva circa otto anni e quindi si può intuire che non sapesse cosa fossero avvenimenti effimeri come la vita e la morte, giusto?
Errore.
Satoru Okabe conobbe la morte nel giorno stesso in cui vide il suo migliore amico perire per mano di un male incurabile, che l'aveva portato via pezzo per pezzo, lontano da lui.
Aveva otto anni.

Note.
Il congiuntivo inesistente, ogni errore nei dialoghi di Gackt e Daniel, è assolutamente voluto, essendo loro dei bambini. Comunque, allora, non voglio dare una versione veritiera del periodo passato in ospedale di Gackt, ne insinuare nulla ovviamente. Lui sa, io no, quindi questa è da prendere solo come una fanfiction (e che altro?).  L'ho ripescata dopo due anni dalla prima stesura e l'ho lasciata com'era. Non ho cambiato una virgola, quindi lo stile è ancora immaturo (come se ora fosse meglio) e probabilmente abbastanza sciatto. Grazie per l'attenzione, lasciatemi un pensierino :)
guren.

   
 
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