Storie originali > Fantasy
Ricorda la storia  |      
Autore: Bellis    07/06/2011    1 recensioni
Il giovane e solitario Jolaj incontra la bella Imril, che saprà trasportarlo nel mondo fatato delle sue fantasìe, alla ricerca di coloro che, perduti, stanno provocando la sua disfatta.
One-Shot Terza Classificata al contest "La Sombra del Viento" indetto da Laudica_2204 e valutato da NonnaPapera.
Genere: Fantasy, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Dedicata a
Evangeline, ed alla forza della sua lealtà,
Korinne, ed alla saggezza delle sue fiabe,
Sir Bell, ed alla sua bontà di guaritore.
Hold fast to dreams. Always believe in fairies.



Il Cielo, il Viaggio e il Destino

I - La Partenza

Ero poco più che un ragazzino, figlio del Mondo, legato alla Terra, quando il Vento, presomi per le spalle con l'affettuosa fermezza di un padre, mi sospinse verso la magica porta che mi avrebbe condotto alla più grande avventura della mia vita.

Vivevo alla giornata; lo scorrere inesorabile del tempo vedeva i miei occhi rivolti alla terra bruna che le mie mani alacremente lavoravano, instancabili. La serenità permeava la mia esistenza; non conoscevo altra via che quella che mi sarei tracciato da solo, con gli strumenti del lavoro e con la tenacia della volontà. Eppure, nessuna delle ore che trascorrevo mi pareva eguale a quelle che l'avevano preceduta, perché sapevo che, levando lo sguardo al Cielo azzurro, avrei potuto vedere forme che si stagliavano all'orizzonte... figure adesso arcane, adesso familiari... prima nitide, poi confuse in un velo di nebbia... ma sempre differenti, sempre intriganti... sì, le Nuvole.

Esse pigramente vagavano nell'immensità dell'aria seguendo a tratti il loro pastore, il Vento: quella stessa immateriale presenza che aveva scompigliato i miei capelli con gentilezza, sussurrandomi all'orecchio parole di conforto; quando mi sentivo solo, vuoto e sperduto in un mondo ancora più vuoto, esso portava il mio mento verso l'alto perché le mie iridi si confondessero coi colori del Tramonto. In quei momenti di tristezza, le tenui dita aranciate del crepuscolo mi sfioravano il viso, ed il sibilo che si faceva più costante mormorava al mio cuore la promessa che, anche dopo la notte più buia, il Sole sarebbe riapparso all'orizzonte per portar sollievo al mio spirito afflitto.

Un giorno, mentre raccoglievo dai rami di un frondoso melo i frutti che mi avrebbero nutrito, un fruscìo mi chiamo, dicendomi, "Ascolta!"
Ed io ascoltai.
Un turbinìo di foglie lasciò che alcune gocce di luce filtrassero, tra le foglie, e mi colpissero gli occhi, scintillando. "Guarda!" sibilò il Vento.
Ed io guardai.

Sulla linea verdeggiante delle colline galleggiava una forma bianca e vaporosa, intessuta dalla pioggia, che, per l'occasione, aveva preso in prestito dall'Alba qualcuno dei suoi fili rosati.
Aveva le ali, ed io pensai che fosse un angelo. Sorrisi e ripresi la mia attività con un gran tepore nell'animo, come se i miei occhi avessero raccolto un po' di quel rosa pastello perché ravvivasse il colore delle mie speranze.
Ringraziai il mio mondo dei suoi doni e mi assopii.

Il giorno dopo mi destai sotto quello stesso albero, e sbirciai di lontano la mia casa di legno, come a sincerarmi che fosse ancora là. Incespicai in qualcosa e sobbalzai, attonito: era una piuma, gigantesca, soffice, chiara, ma dallo stelo solido e bruno. Mi chinai e la raccolsi, fantasticando: quale uccello avrebbe potuto perdere una penna così voluminosa? Nessuno di quelli che io conoscevo, certo. Ragionai, ed un'idea improvvisa mi empì di paura. Un volatile di quelle dimensioni avrebbe potuto facilmente ingoiarmi in un sol boccone.
Deglutii, spaventato, e corsi via, verso la mia amata dimora, meditando di armarmi di forcone e di non uscire sino a che non avessi compreso quale animale mi avesse lasciato un così evidente segno della sua presenza.

Qualcuno, però, si trovava di fronte alla porta di assi scure. Qualcuno che quasi mi sovrastava in statura, e mi guardava dall'alto di due iridi chiare, luminose e ardenti.
No, non si trattava del gran volatile che mi aveva spinto ad una ritirata improvvisa, ma di una donna. Una fanciulla dalla veste lunga e dai capelli color dell'oro. La fissai, impietrito ed atterrito, ed ella mi sorrise.
"Non temere!" mi disse, ed io non avvertii più paura.

"Chi sei?" la domanda sorse spontanea alle mie labbra.

"Sono Imril, la viandante," rispose quella, "Giunsi al Sud, ma non trovai che sabbia e rocce. Attraversai l'Ovest e vidi le grandi città. Ma cercavo i preziosi metalli, non la desolazione. Volevo veder le laboriose industrie, non veleggiare tra i palazzi di cemento."

"Di tesori e di industrie non so nulla. Qui non v'è che feconda terra coltivata. Io vivo grazie ad essa, e non mi importa del resto."

"Eppure, ier sera," disse Imril, facendo un passo verso di me, "Ti ho veduto scrutare il cielo con la medesima curiosità con la quale io scrutavo il suolo."

"Mi vedesti e non dicesti nulla?" indietreggiai, "E dov'eri nascosta? Ero certo d'esser solo. I rami scricchiolando m'avrebbero avvertito, se ci fosse stato un altro nella foresta. Le foglie avrebbero frusciato sulla tua veste ed il movimento improvviso d'uno scoiattolo ti avrebbe strappato un leggero sospiro di spavento. Ed io avrei capito ch'eri là."

"Fosti avvertito, ma non mi potesti vedere, anche se mi specchiavo nelle tue iridi buone. Mi confondevo tra le nubi, e tu mi credesti una di esse."

Fu allora - solo allora - che notai un possente destriero al fianco della donna, col muso fiero e candido proteso verso di me ed una vena d'impazienza nel modo in cui, con gli zoccoli, batteva sul sentiero, sollevando lievi sbuffi di polvere e paglia. Sgomento lo fissai, mentre esso fissava me... e proprio in quell'istante, lo vidi spiegare due ampie, solide ali, come a volerle sgranchire, scrollando la criniera chiara.

"Quelenon è il mio compagno di viaggio, ed io sono la sua guida. Ma l'ho condotto assai male: non trovammo le gemme del Sud nè le industriose civiltà dell'Ovest. Rimangono l'Est e il Nord, ma saremmo affranti di dover andare là prima d'aver completato la nostra missione qui."

Ancora sbalordito osservavo l'animale che leggiadro trottava verso una macchia di dolci arbusti, adocchiandoli con famelico desiderio. Non potei risponder nulla, né qualcosa volli chiedere. Mi limitai a riportar lo sguardo su di lei, affascinato.

"Mi dispiace di non potervi aiutare. Sono ignorante, e non lessi mai altro fuorchè il cuore dei viaggiatori che chiedevano di sostare qui. Lo trovai sempre chiaro e nitido, perché i viaggiatori son persone avvezze alla carità. Sfogliai le pagine della natura, certo: esse spesso mi dicono quando la grandine si abbatterà sul mio raccolto e mi avvisano se una tempesta minaccia la mia vita. Ed una volta intagliai un pezzo di legno, incidendovi sopra le linee d'una nuvola chiara. Guarda!"

Cavai di tasca il piccolo manufatto e glie lo porsi. Lei lo prese con dita lunghe ed aggraziate, i begli occhi commossi e raggianti.
"Tu hai veduto coloro che io cerco con tanto accoramento, e per i quali ho percorso il Sud e l'Ovest invano. I tuoi occhi sono sinceri ed acuti, quelli d'un bambino. Dimmi, giovane contadino, hai più veduto queste ignote forme librarsi nell'aria?"

"In fede mia, da molte lune il Vento non dipinge che case, alberi e frutta. Ma ieri ha dipinto te, ed il tuo amico Quelenon, e glie ne sono molto grato, soprattutto perché poi vi ha resi solidi e veri. E' bello sapere che la solitudine non è genitrice di tutte le follie."
Ed accompagnando queste parole tesi una mano e sfiorai la sua veste, sorridendo, per sincerarmi di non stare sognando.

"Se deciderai di seguirmi, scoprirai che anche colei che hai voluto raffigurare qui è vera, e che il Vento è fautore di molti presagi."

"Seguirti?" esclamai, ammaliato. "E vedere vive le immagini cristalline dei miei sogni?"

"Sì," rispose solamente lei, restituendomi la scultura.

"Il tuo destriero non può portare tutt'e due insieme," protestai, scrutando Quelenon di sottecchi.

"Esso non avvertirà neppure il tuo peso, perché il mondo da cui esso viene è avvezzo a portare il grave pondo della realtà sulle sue spalle: vi si rifugiano solamente quelli che son stanchi, e vogliono trarre un poco di ristoro dalla fatica di dover portare il fardello dei ricordi."

Abbassai lo sguardo sul frammento di legno vellutato, carezzando il viso infantile e la graziosa aria sbarazzina d'una Fata: un sembiante impresso per sempre in quel blocchetto di materia grezza plasmata dalla mano dell'uomo.
Riportai sulla donna un sorriso colmo di gratitudine.
"Ti seguirò e ti aiuterò, dovessi tu sorvolare l'intero Globo!"


II - La Ricerca

Salii sulla groppa di Quelenon, innanzi alla figura aggraziata di Imril, e fui sorpreso dalla leggiadrìa con la quale il destriero, dopo una folle corsa che mi mozzò il fiato, si librò nell'aria tersa, dispiegando le sue possenti ali che vibravano e fremevano.
Spiccammo il volo - oh, io, proprio io, fui benedetto dalla possibilità di toccare quelle nuvole che prima avevo potuto solamente ammirare da lontano! Ero colmo di felicità a tal punto da percepire solo distrattamente il movimento ritmico dell'animale, che di tanto in tanto agitava le ali per prendere maggiore quota, mantenendosi alto al di sopra della distesa di prati e colline.

Rammento ogni istante di quel meraviglioso viaggio: esso è impresso a fuoco nella mia memoria; il ricordo non mi abbandonerà mai, sino a che sarò in vita.

Ritornammo all'Ovest, ov'ella diceva d'essere già stata, scivolando rapidi sull'aria, e ci posammo su di una grande prateria attraversata da una strada di ferro, per godere di un poco di ristoro e lasciare che Quelenon si rifocillasse. Intorno a noi si stendevano massicci ed altipiani di pietra, modellati dalle forze della natura. Alcuni parevano torri pericolanti, altri erano sottili ponti miracolosamente sospesi al di sopra delle nostre teste, affusolati e snelliti dal tempo.

Imril mi prese per mano e mi condusse verso una roccia alta ed irregolare, poggiando i suoi piccoli piedi sulle sporgenze taglienti ed arrampicandosi sempre più in alto. La sua lunga tunica non si lacerava, ma accarezzava quella superficie irta di spigoli come se si beasse della sua presenza.

"Fai attenzione!" gridai ad un certo punto, quando ella sdrucciolò e mi parve che dovesse cadere. Fui sconvolto dalla subitaneità con la quale il mio cuore rimbombò, turbato, saltando un battito.
"Non ho paura!" tintinnò la sua voce.

Mi rasserenai. Ella era più vecchia eppur più giovane di me. Era più saggia e più agile insieme, perché era avvezza a vagabondare nei reami del Mondo e della Fantasìa, ed in entrambi i casi aveva dovuto prendersi cura di se stessa.

"Jolaj," mi chiamò, ed io, che mi ero perso nelle cogitazioni che mi avevano assalito, sollevai lo sguardo su di lei.

Era ritta, sulla sommità della roccia la cui altezza aveva finalmente guadagnato. Vorrei rammentarla sempre così, trionfante, lieta, rosea in viso, coi capelli che le circondavano gli occhi sorridenti come raggi di un Sole interiore, che superava in luminosità qualsiasi altra stella del Cielo. Aveva steso le braccia intorno a sè, e cercava con lo sguardo la Luce Polare, nel crepuscolo che avanzava.

"Ah, Jolaj, da qui posso veder tutto l'Ovest! Mi dissero ch'era grande. E' grande, è vasto, ma io da qui posso vedere tutto, tutto ciò che voglio! Guarda!"

Seguii il suo cenno e rimasi, ammutolito ed affascinato, ad ascoltarla.

"Ecco, se guardo a Nord, vedo le palpebre del Tramonto calare più pesanti, ed il buio offuscare lentamente le terre sconfinate e quiete. Vedo la strada ferrata procedere verso le Città ed i loro alti palazzi. Ne vedo alcuni, di cemento, ed altri, di pietra, ed altri ancora, più deboli, quasi fatiscenti, di legno. Vedo gli Uomini che abitano lì, sono così diversi da te e me, essi si combattono, si odiano, continuamente competono per le più insignificanti questioni. Io vivo d'aria, tu di terra, essi vivono non degli elementi, ma della capacità di piegarli al loro volere, per sostituire al loro saggio consiglio la loro parola crudele. Jolaj, guarda!

"Ecco a Sud. Oh, il Sud, dove il Sole è più caldo ed il tepore irradia le terre, facendone germogliare spighe e piante e arbusti. Oh, Quelenon, non ameresti forse vivere lì, dove la natura è abbondante? Oh, Jolaj, tu, che hai sempre onorato la terra e goduto dei suoi frutti, non vorresti averne ancora? Ma vedo che il calore si fa sempre più forte. Brucia, assale la terra, la schiaccia tra i suoi raggi implacabili, la rende polvere e roccia. Gli animali fuggono di fronte ad esso, si nascondono sottoterra, chiudono gli occhi, accecati.

"Oh, amico mio," concluse, in un sussurro, "Perché andare a Nord oppure a Sud? Rimanere nell'Ovest, ecco, questo avrebbero dovuto fare, coloro che io cerco."

Si era accasciata sulla pietra riarsa, e temevo che ella precipitasse dal suo precario piedistallo, cosicchè, con grande fatica, mi inerpicai anch'io su di esso e mi accoccolai accanto a lei. Avevo le mani rosse e graffiate, i piedi doloranti: lei era bianca ed esile come sempre.

"Chi cerchi nell'Ovest, bella Imril?" le domandai, con gentilezza.

Ella mi guardò con grande malinconia. "Nel mio paese v'è una grande Biblioteca. E' attorniata da alberi e rami, che proteggono con la loro ombra centinaia e centinaia di libri racchiusi in uno stanzino dagli Anziani. Cerco gli scaltri Gnomi, che si affannarono a scorrerne le pagine per scoprire come sfruttare con l'astuzia i doni del Mondo. Trovarono che all'Ovest gli Uomini si affannano a raggiunger lo stesso scopo, e partirono per unire i loro sforzi. La Foresta perse vita, giacchè i vivaci e giocondi Gnomi l'avevano abbandonata, ed in un giorno di pioggia la Grande Madre mi disse: Piango per loro, perché non li rivedrò mai più."

Era una storia molto triste, ed io ero commosso. Abbracciai quella che in quel momento mi sembrava solo una bambina smarrita e le dissi che mi dispiaceva molto per gli Gnomi, e che da molti anni io non ne vedevo uno, preso com'ero dal mio lavoro nella campagna, ma che presto li avremmo ritrovati.

"Sono minuti," le feci notare, "E si celano bene tra il muschio e l'erba, ma nelle Città degli Uomini queste cose non ci sono, e li riconosceremo senza fatica."

Lei annuì e mi sorrise, e le pesanti coltri che avevano avvolto il mio animo si diradarono, mentre essa si addormentava col capo biondo sulla polvere intatta.

Il giorno dopo partimmo per l'Est. Chiesi alla mia guida perché non seguissimo la strada ferrata verso le Città, ed ella mi rispose che il nostro cammino non era scritto nel ferro.
"Ho udito l'affannoso respiro che giace sepolto nella pietra. Risuonava privo di speranza, come un cupo avvertimento: è il presagio di una notte senza fine. Dobbiamo cercare l'Alba, perché, se gli Gnomi esistono ancora, avranno certo fatto lo stesso."

Non sapevo come si potesse smettere di esistere, e glie lo chiesi.

"Rifiutando se stessi si smette di essere ciò che si è." mi disse Imril; io le credetti e mi affidai alle forti ali di Quelenon.

Sorvolammo le pianure sino a giungere all'Oceano, e superammo la gran distesa ondulata di acqua celeste ed azzurra, e a volte talmente scura da farmi credere che non avesse fine, e che il buio in quelle profondità fosse dato dal fatto che la Notte traspariva, dall'altro lato del Globo, attraverso le maree.

Giungemmo infine a rivedere la Terra, ed i suoi alberi mediterranei, inclinati verso la luce del Sole, protesi coi loro rami verso la loro fonte di vita. Il nostro destriero planò al di sopra di infinite catene montuose orlate di ghiaccio e nebbia, in serpentine strette che fiancheggiavano le dorsali e tingevano di pallore le nerastre cime dagli anelli verdi di foreste e rossi di brulla terra. Infine, un tappeto erboso che si stendeva infinito tra ruscelletti e piccoli ponti invitò Quelenon a poggiare gli zoccoli sul suolo. Pareva galleggiare sul sottobosco: le sue orme non esistevano; il muso si immerse subito in una cascatella, godendo del fresco ristoro.

"Questo è un Tempio," mi spiegò Imril, "Ma senza sacerdoti." e si beava di quella vista sublime, respirando a pieni polmoni l'aria umida, la veste nitida che si gonfiava all'unisono col suo respiro.
"Jolaj," mi chiamò. "Ecco là un ballatoio. Ti prego, sali su di esso e dimmi quel che vedi."

La accontentai con piacere e sbirciai al di sopra dei tetti, oltre le colline, giacchè mi pareva d'essere ad una eccezionale altezza, nonostante il fatto che avessi salito con ben poca fatica un numero esiguo di gradini.

"Vedo le Città dell'Est, saggia Imril, ed il loro sfavillare nel buio come diamanti. Vedo grandi torri d'avorio, ed al di là di esse altre guglie, più alte, rivestite d'oro lucido. Vedo palazzi incantati, uomini con grandi turbanti e sguardi fugaci al di sopra di veli multicolore, dai quali pendono le perle più preziose. Vedo le fiaccole ardenti di una lunga processione, i pennacchi ritti e gli stendardi, vedo gli onori rivolti ai defunti ed ai vivi, vedo una civiltà fiera e la sua bandiera gitana. Vedo i balli antichi, solenni e folli insieme, aver luogo tra le mura delle città, gialle di sabbia e bianche di polvere.

"Ma lascia che io guardi meglio: vedo il deserto, il verde e la steppa mai separati da altro che da fiumi. Grandi mari interni colmi d'acqua dolce. Vedo persone che scavano nella neve ed altre che scavano nelle sabbie. Vedo garrire ovunque lo stemma della Civiltà: v'è sempre una fiamma, ad Est, v'è sempre l'Alba, esiste sempre una luce accesa che rammenti al Mondo la presenza dell'Uomo."

"Oh, allora debbono essere qui!" m'assalì la donna, danzando, "Se tu hai veduto tutto ciò, debbono essere proprio qui coloro che io cerco nell'Est!" e mi stringeva, felice, gli occhi colmi di gaiezza.

"Chi cerchi nell'Est, saggia Imril?" chiesi pianamente, sorridendo, perché era radiosa come non mai.

Ella si fece più triste e mi prese le mani. "Quando gli Gnomi uscirono dall'antica Biblioteca, essi avevano rovistato dappertutto, e ridotto quello stanzino scavato nel legno ad un gran turbinìo di libri, pagine ed illustrazioni. Non era che una saletta con scaffali e scale e piccole panchine perché ciascuno potesse avere un cantuccio dove sedere ed immergersi nella lettura. Le Fate, leggiadre e spensierate, non vi si erano mai avventurate, ma una di esse sbirciò da una finestra, e scorse il disegno d'una città lontana, con lanterne rosseggianti dai colori vivaci. Raccontò alle altre sue compagne la sua improvvisa scoperta, e tutte iniziarono a fantasticare su quel che avrebbero veduto se si fossero spinte all'Est. Com'era gioiosa la Foresta, col loro cinguettare ed il loro ronzare lieto tutt'intorno! Ma esse decisero di partire, ed il Bosco si oscurò, senza la loro luce. Nella notte, la Madre mia mi sussurrò, affranta: Chiudo gli occhi per rivedere il loro fievole, magico lume. Se li riaprissi, non saprei dove cercarlo."

Quella storia era straziante, e lacrime presto solcarono le mie gote, come quelle della bella fanciulla che mi stava di fronte. Strinsi le sue mani nelle mie e le dissi che presto avremmo ritrovato le Fate.

"Essi emanano una luce fioca, è vero," la rassicurai, "Ma riconosceremmo ovunque la loro risata di bambine. E poi, ne vidi una che galleggiava nel Cielo non più di pochi mesi addietro, dipinta dal Vento, rammenti? Debbono essere ancora molto vicine."

Si passò una mano sugli occhi e mi guardò con affetto, appoggiandosi alla balaustrata e lasciando che l'aria le scompigliasse i lunghi capelli. Quelenon premette il muso contro la mia spalla, ed io l'accarezzai, pensieroso.

Il giorno dopo, Imril mi disse che saremmo andati a Sud.
"Il Sole m'ha accecata, questa mattina," singhiozzò, "E terribili immagini mi sono comparse nella mente."

"Quali orrori ha mai potuto suggerirti, il Sole?" le domandai, atterrito.

"Esso brucia chi troppo s'avvicina, abbacinato dalle gemme che occhieggiano dagli alti palazzi." fece in tempo a dire, prima di piangere ancora, più forte. Il suo destriero, inquieto, scrollava il capo, muovendo le orecchie, nervoso. Sostenni la giovane Imril sino a che le sue mani non trovarono i crini dell'animale, ed ella si acquietò un poco.

"Andremo a Sud, se questo ti può portare conforto." le dissi, e spronai il forte Quelenon.

Il Vento sostenne le sue ali, mentre esso ci trasportava verso il limitare estremo del Globo, sempre più giù, sempre più innanzi, con la pura e leale perseveranza che brillava nelle sue iridi piene, sincere, ferme. Al di sopra della sua groppa, guardando in basso, verso la terra ed oltre il lieve velo delle nubi, scorgemmo gli alberi trasformarsi in deserto, e poi nuovamente in una folta coltre verdeggiante, per poi diventare ghiaccio e terra fusi insieme.

"No, Quelenon," esclamò Imril, "Non troppo a Sud. Coloro che io voglio trovare qui hanno scavato le miniere nel profondo dei deserti e nelle cavità delle rocce."

Il destriero flettè le sue ali, e presto ci ritrovammo sul freddo e sinuoso viottolo di una montagna; la valle si stendeva intorno a noi, silenziosa, inerte, austera. Imril spiccò una corsa lungo la viuzza fangosa, emettendo di tanto in tanto qualche curioso strillo e lasciando che l'eco l'amplificasse in vece sua. Non avevo mai udito un fenomeno simile, ed anch'io lo provai, sorridendo divertito.

"Guarda, Jolaj!" mi chiamò, le guance rosse per l'aria frizzante, "Quanti anfratti, quanti nascondigli! E quanta pace e solitudine! Ivi riposano certo i tesori di tutto il Mondo! Seguimi, amico caro, seguimi, presto! Se vuoi spinger la tua mente più lontano, dobbiamo scalare questa montagna e raggiungerne la vetta."

Corremmo ancora e ancora, sino che il fiato ci mancò e dovemmo fermarci, lasciandoci cadere al suolo, ansanti, la schiena sullo sterrato indurito dal freddo, i nostri respiri che si condensavano in deboli sbuffi di brina. Poi ci rialzammo e di nuovo facemmo a gara, urlando i nostri nomi in una tacita promessa d'arrivar primi sulla cima di quel monte. Ci aggrappavamo alle rocce, agli arbusti che svettavano protendendo i loro rami verso il Cielo con la tacita consapevolezza che le loro richieste sarebbero state esaudite, ed eravamo certi che nessuno dei nostri appigli avrebbe ceduto, perché il nostro cuore era sincero ed il nostro intento era innocente. Giunto all'orlo della vittoria, mi voltai e vidi Imril, sorridente, ansiosa di raggiungermi, e m'incantai ad osservare la sua bellezza incontaminata, dolce, animata da una lieta determinazione.
Le porsi le mani, e compimmo insieme l'ultimo passo. I suoi occhi traboccavano di fiducia colmandomi di gioia.

"Oh, Jolaj, gl'imponenti monti non sembrano forse rocciose cassaforti, scrigni sobri e discreti che racchiudano, celati agli occhi degli avidi, i tesori di tutte le civiltà, le gemme più preziose ed i metalli più lucenti? Se guardo in basso, posso vedere l'ingresso di una miniera, che l'opera degli Uomini ha reso solido con molteplici puntelli di legno scuro conficcati e oramai saldati alla roccia. Vedo i minatori, che circospetti ne escono coi loro asini gravidi di gerle pesanti.

"Riesco a incontrare le loro iridi attonite, al pensiero che qualcuno, intorno a loro, possa derubarli di ciò che loro, con grande fatica, hanno dissepolto dalle viscere della Terra. Alcuni hanno figli, moglie, una famiglia. Altri hanno solamente il germe della cupidigia dentro di sè. Altri ancora hanno il terrore che quello a cui hanno diritto sia loro tolto per intero dalla mano degli sfruttatori. Questi luoghi sono molto bui, Jolaj, e colmi delle più cupe passioni. Ma di certo si trovano qui, coloro che voglio ritrovare: questo posto sembra proprio fatto per loro."

"Chi cerchi nel Sud, graziosa Imril?" domandai, frapponendomi tra il Vento tagliente e la sua esile forma.

Ella posò il capo sul ramo di un folto pino, le gemme morbide che non le ferivano il viso.
"Prima di lasciarci, le Fate incontrarono i forti Nani, solerti lavoratori. Essi non erano mai entrati nell'antica Biblioteca, perché reputavano l'esperienza della loro stirpe più solida di qualsiasi altra, e nessuno dei loro Antenati aveva mai perduto tempo a vergare fogli bianchi con fitto inchiostro per tramandare ciò che poteva essere insegnato direttamente da padre a figlio. Ma le Fate, vantandosi della loro intraprendenza, dissero ai Nani che sarebbero andate in un posto dove i palazzi erano adornati delle gemme che i minatori del Sud vendevano ai grandi signori dell'Est, e dove l'argento e l'oro scintillavano, perché i tenaci Uomini delle Montagne li utilizzavano come merce di scambio, avendone in grande abbondanza.
"I Nani rifletterono a lungo, ma il loro cuore è duro e caldo come la roccia fusa, e presto, agendo d'istinto e con irremovibile decisione, anch'essi decisero di partire verso il Sud, dove avrebbero potuto coronare i loro sogni di ricchezza. Le mura delle nostre case si frantumarono, perché i Nani non erano più lì a costruirle con perizia. I ponti crollarono, quando la Terra vibrante si rivoltò contro tanta ingratitudine. Un giorno la Madre mi fece inginocchiare. Tremo perché le colonne portanti del nostro Mondo non son più qui a sorreggerlo, mi disse."

Si trattava di un terribile ricordo, ed io temevo che la cara Imril avesse il cuore spezzato. La guardai negli occhi e vidi che, in effetti, era così. Non avevo mai veduto un Nano, ma ero sicuro che presto ne avremmo incontrato qualcuno.

"Se sono come tu li descrivi, si saranno fermati di certo qui. Scaveremo anche noi come loro, se necessario, e ci inoltreremo nelle più profonde cavità del sottosuolo, pur di riuscire a riportarli a casa. Saranno lieti di ritornare al loro vecchio lavoro, sapendo quali terribili eventi la loro partenza ha provocato."

Ella mi guardò e mi sorrise.
"Ah, Jolaj," mi sussurrò, "Il tuo cuore è giovane e pieno di buona volontà. Riposa, ora, e domani li cercheremo insieme."

Chiusi gli occhi ed un sopore invase immediatamente il mio animo esausto, conducendolo per mano sino alle porte del Sogno. Immaginai di avere innanzi a me una figura imponente, ritta all'orizzonte, con le mani protese verso il Cielo. Quando le mie palpebre si risollevarono improvvisamente, come per un subitaneo ed inaspettato rumore, vidi che quella forma nobile e spavalda esisteva davvero: era quella di Imril, che si stagliava contro l'orizzonte ora denso di scure e minacciose nubi. Alti cumulonembi turbinavano incessantemente, scuotendo le chiome degli alberi, spazzando gli altipiani e modellando le montagne in aguzzi e taglienti profili.

"Dobbiamo andare!" gridò lei, raggiungendomi e stringendomi a sè, spaventata. "Dobbiamo andare al Nord. I Nani son perduti nelle loro immense caverne, e non riusciremo a trovarli. Ma il Vento mi ha parlato questa notte." mi disse, le belle iridi velate dalle lacrime, "Ha preannunziato che, se mi seguirai, conoscerai il dolore più straziante, insieme a me."

Io rabbrividii, poichè sapevo che la voce del Vento era priva di menzogna. Sibilando nelle mie orecchie essa mi avvertì di ritornare alla mia dimora: ma il viso triste di colei che mi aveva distaccato da essa mi convinse ancora una volta a non cedere alla codardia.

"Ti seguirò, dolce Imril," le risposi, levandomi in piedi, "Per condividere il fardello del tuo dolore e rendertelo più leggero."

"Non sarà questo l'effetto della tua permanenza."

Il suo bisbiglio mi giunse a malapena, mentre ella si issava sulla groppa del possente Quelenon e mi tendeva una mano.

"No, Jolaj: i tuoi pensieri sono nobili, ma è il Fato a scrivere le nostre storie, ed esso, dettando le parole all'unisono con l'implacabile scorrere del tempo, vuole che il dolore raggiunga il cuore di chi mi seguirà: ma se ritornerai a casa, potrai bearti delle strane forme delle nubi, e dimenticare le amare vicende che ti ho narrato."

"Oh, Imril!" mi avvicinai a lei, e presi la sua mano nelle mie, "E chiuder gli occhi del ricordo per riaprire quelli che vacui scrutano la Realtà? Non sarei più io, dopo: non sentirei più il suono melodioso del Vento che stormisce tra le foglie; la foresta che imperitura sorge accanto alla mia dimora non sarebbe colma d'incanto, ma solamente dell'eco della banalità, io lo so. Forse sarei salvo, forse il mio nascondiglio sarebbe il più sicuro e terrebbe rinchiuso il mio animo in una dorata gabbia, ma, ahimè! La Terra non mi donerebbe più i suoi frutti, e, privo di ali, ciò che resta del mio ingegno morrebbe. E poi, bella Imril," le sorrisi, "Vorrei tanto vedere com'è il Nord, e le distese immense di ghiacci a non finire."

Imril mi fissò a lungo, una tacita ombra di commozione a velarle i begli occhi chiari. Spronò Quelenon, ed infine partimmo, il muso dell'animale contratto e spavaldamente contrapposto all'aria che lo sferzava, incostante e brusca.

Come fu differente dagli altri, quell'ultimo viaggio! Eravamo in balìa degli elementi, squassati dalle raffiche di vento gelido che portavano la neve tra i nostri capelli. In capo a pochi, brevi minuti, sentimmo ogni parte del nostro corpo fredda e rigida, e la nostra pelle era biancastra, quasi come il pelo del destriero che ci portava. Ci stringevamo l'uno all'altra, cercando di mantenere la veglia dei nostri sensi e almeno un poco di speranza nel nostro animo inquieto.

D'un tratto, Quelenon planò verso l'Oceano che si stendeva, turbinoso e scuro, sotto di noi, volando più basso, gli zoccoli bruniti quasi a contatto con la spuma che le onde trasportavano, incessantemente, dall'acqua alla riva e dalla riva all'acqua, nel loro implacabile, lungo movimento.

"Forza, amico mio!" lo incitò Imril, "Thàlassa non vuole che rimaniamo qui a lungo: un ultimo sforzo, mio antico compagno!"

Con un disperato battito d'ali, quello riguadagnò una certa altezza, gemendo un nitrito debole che sùbito si perse nell'eco di mille tuoni, mentre una saetta tagliava il Cielo a pochi metri da noi. Io tremavo, e la dolce creatura che tanto aveva avuto il potere di cambiare nella mia vita rabbrividì, sospirando.

Ma quale sgomento assalì la mia persona quando scorsi il luogo che avevamo scelto per nostra destinazione: erano ghiacci, e gelo a non finire, ed anche le poche alture che si vedevano in quella landa priva di sole e liscia come l'avorio erano ricoperte di neve. Continuamente l'aria raffreddava il posto, come se volesse preservarlo immutato per i secoli a venire, come se non volesse che alcuno lo toccasse, e mantenesse solitario e ramingo chiunque vi avventurasse, senza cibo, né acqua che si potesse bere senza soffrire, né compagnìa per rifocillare anche il cuore.

Quelenon scalpitò, rattrappito, cercando di galoppare in tondo intorno a noi, e scrollando la criniera e il dorso nel patetico ed inutile tentativo di spazzar via un poco di ghiaccio dal suo manto già candido. Guardai Imril, e mi accorsi, con grande stupore, che sorrideva di nuovo, lieta.

"Questo è il posto che cercavo, senza dubbio! Qui ogni cosa è in ritiro: lo spirito della Terra è sopito, sotto la coltre di ghiaccio che la ricopre. Gli animali sono zitti e timorosi, vivono in queste acque gelide e ben poco ne fanno capolino. Gli uomini stanno ai confini di questa landa, e vi si avventurano poche volte all'anno, per pescare o catturare quelle poche prede che hanno il coraggio di uscire dai loro nascondigli. Qui v'è la pace dei sensi ed il tumulto della Natura: qui sono coloro che io cerco!"

"Chi cerchi al Nord, cara Imril?" chiesi, cercando di sovrastare l'ululato della tesa brezza.

Ella melanconica mi guardò e si avvicinò a me, parlando in un bisbiglio di bambina, "Quando anche i Nani ebbero abbandonato la mia Città, i Saggi, che abitavano nella grande Biblioteca, dissero che il destino del nostro popolo era segnato. Mostrarono i libri, accatastati, disordinati, appoggiati dappertutto in quella stanza piena di scalette e sedie e tavoli. Le loro pergamene, che rappresentavano i loro studi, erano state scorse con avidità dagli Gnomi, spezzettate dalle dispettose Fate e quindi rinchiuse in scrigni dai Nani, come se fossero state oro. I Saggi dissero che, per comprendere come salvare la nostra civiltà morente, avrebbero dovuto ritirarsi in un luogo dove nessuna presenza, mortale o divina, potesse distrarli. Così partirono, e si diressero al Nord, portando con loro gran parte dei tomi che per tanti anni avevano letto e riletto, cercandone la Verità. La Madre mia, in un giorno di Sole, fremette d'impotenza e mi sussurrò: Ho irradiato la nostra Terra con la più grande luce che possiedo, ma solo i Saggi possono veramente illuminarla."

"Oh, bella Imril!" singhiozzai, affranto, "E rimanesti da sola? Oh, quale immeritato destino!"

"Rimasi sola cento giorni e cento notti," rispose lei, il dolce viso colmo di rassegnazione, "E per tre giorni e notti di fila riflettei. Sedetti accanto alla mia cara Madre e le dissi che le avrei riportato gli Gnomi, le Fate ed i Nani, e che avrei chiesto consiglio ai Saggi, se non avessi saputo trovarli. Lei mi congedò con un caldo abbraccio e pose fiori nella mia chioma, come se me ne andassi per sempre."

"Troveremo i Saggi!" esclamai, determinato, "Li troveremo, essi son di certo qui. E una volta che avremo il loro parere, potremo ritornare nel Mondo, prima ad Ovest per gli Gnomi, poi ad Est per le Fate, e quindi nuovamente a Sud, per i tenaci Nani. Non è possibile che siano scomparsi..."

Il mio concitato discorso fu interrotto da un possente schianto, come se una grande porzione della Terra, con un urlo di dolore, si fosse distaccata dal resto. Imril ed io ci voltammo d'improvviso verso ciò che l'aveva provocato; entrambi, ne sono certo, desiderammo di non essere lì, di non vedere che cosa stava accadendo.

I ghiacci si erano spezzati sotto gli zoccoli di Quelenon, e separandosi l'avevano fatto sprofondare nell'acqua gelata. Il destriero, con un nitrito di spavento, affondava, sbattendo freneticamente le ali, dimenando le zampe nel liquido che non sapeva dargli appoggio alcuno. Perdeva centimetro dopo centimetro, il muso proteso verso l'alto nel tentativo di rimanere al di sopra della letale superficie di quel piccolo, infido mare.

Non mi sarà mai concesso di dimenticare il grido di orrore che affiorò dalle labbra della buona Imril, mentre ella correva, scivolando e rimettendosi in piedi, le mani ora tra i lunghi capelli, ora sulle labbra tremanti, ora sulle gote cineree, verso il suo più vecchio amico, chiamando a gran voce il suo nome più e più volte, ed infine cadendo, senza speranza, in ginocchio, al limitare del gran squarcio che si era aperto nella coltre di ghiaccio e nel suo cuore, all'unisono.
Ma Quelenon era scomparso.

Mi lanciai verso di lei, ancora inebetito, ma ella levò una mano, solenne. Parve al mio spirito attonito così imponente e così maestosa, che mi arrestai d'un tratto, gli occhi sbarrati che la fissavano, colmi di lacrime al pari dei suoi.

"Non un passo di più, Jolaj!" intimò, la voce straziata e spezzata dai singulti, "Non un passo di più. la Terra non ci è più amica, la Natura non ci sorregge più, da quando gli Gnomi, le Fate e i Nani l'hanno abbandonata. Essa si ribella a tanti animi ingrati. Prima la Vivacità si è tramutata in Malizia. Poi la Leggiadrìa ha lasciato il posto alla Vanità. Ed infine l'Industria... si è trasformata in Danaro. Ahimè, Jolaj, il tuo cuore è ancora quello d'un fanciullo, e vede Gnomi, Fate e Nani... ma la verità è che essi non esistono più. Ecco perché non li abbiamo veduti, ecco perché il Vento, che tutto conosce, non dipinge più le loro forme nelle nubi... I Saggi vennero qui per conoscere se stessi, ma la Terra si è separata sotto di loro, inghiottendo la loro Disciplina, giacchè essa non è più condivisa da alcuno.

"Ora è tempo che gli Innocenti soffrano, e Quelenon è stato il primo. Presto le profondità del Suolo si apriranno e le Città degli Uomini saranno inghiottite al loro interno, soccombendo al Caos, per poi rinascere in un Mondo rinnovato. Ah, Jolaj, se solo il Sapere che era custodito nella nostra Biblioteca fosse stato utilizzato per il Bene, e non per l'Interesse! Ora saremmo salvi e felici!"

Si era levata in piedi, e mi guardò come una madre osserverebbe il figlio.
"Cosa posso fare per te?" le domandai, affranto, "Qualunque cosa. Dimmelo, te ne prego!"

"Prendi la penna di Quelenon." mi rispose, a voce bassa.

Poi, il ghiaccio cedette sotto i suoi piedi, ed ella precipitò nell'interminabile, freddo Mare.

Mi gettai in avanti, cercando di afferrarla, boccheggiando come se nell'acqua gelida vi fossi stato io, con un nuovo, immenso terrore che stringeva il mio petto in una crudele morsa di ferro: il timore di perderla, di vedere l'ultimo dei miei sogni svanire, che anche Imril, la bella, dolce, eterea Imril si dissolvesse in mille fili di vapore, come una delle nubi che il lunatico Vento plasmava e poi disfaceva, secondo il suo vezzo.

Tuffai le mani, poi le braccia, nel gelo del Nord, pregando di riuscire a toccare le sue prima che ella svanisse, nuovamente sola, nelle tenebre. Ma Imril sembrava non voler neppure tentare di aver salva la vita, e l'Oceano dovette udire questa determinazione rimbombare dai battiti sempre più lenti del suo cuore: la superficie gelida, sotto il vento tagliente, iniziò a ricomporsi, e mi levai in ginocchio con un fremito di spavento quando si ricompose in uno specchio magico, che lasciava vedere oltre il vetro. Cercai il suo sguardo, attraverso il lucido e trasparente ghiaccio, e lo trovai, implorandola, senza necessità di parole, di ritornar da me.

Non staccò mai gli occhi dai miei. Appoggiò la mano sul ghiaccio e sorrise. Le ultime bolle d'aria le sfuggivano ormai dalle labbra e le sue pupille si dilatarono per l'ultima volta. Un secondo dopo, lentamente, cominciò ad affondare per sempre nell'oscurità.

Non so dire per quanto tempo piansi, rannicchiato accanto al frammento di gelo sul quale, sino a poco tempo prima, ella era in piedi, e mi parlava. Stringevo la testa tra le braccia, come un bambino, e pregavo qualsiasi forza esistesse, sulla Terra od in Cielo, che le mie lacrime potessero far breccia nel ghiaccio perché imprigionasse anche me nel suo eterno isolamento.
Piansi di sconforto, piansi di dolore, piansi per la perdita di un pezzetto di me stesso, che se n'era andato insieme al sorriso di Imril, alla sua bontà, a tutto ciò che ella rappresentava.
Piansi per ciò che aveva detto, perché era la Verità.

Dopo molte ore riuscii ad obbedire all'ultimo suo volere; mi levai dal mio improvvisato, duro giaciglio, e m'incamminai, allontanandomi, colmo dell'orribile consapevolezza che la Natura non mi avrebbe ridato ciò che si era preso.
Molte volte mi voltai indietro, e non potei rivederla che nella mia mente.

Il mio peregrinare durò innumerevoli giorni, ma ritrovai la via di casa, ed ebbi la tentazione di bussare alla mia stessa porta, tanto mi sentivo mutato. Si trattava di certo della dimora di un altro Jolaj, quello che era disperso tra i ghiacci.
Poi, vidi la penna di Quelenon risplendere come un bianco gioiello, vicino all'albero sotto il quale, tanto tempo addietro, l'avevo lasciata cadere: era bellissima, soffice, e candida, ma dal robustissimo stelo.
La raccolsi. Sapevo cosa farne.


---

Questa storia è stata scritta per il contest La Sombra del Viento, indetto da Laudica_2204 e gentilmente valutato dalla eccellentissima NonnaPapera (che ringrazio ancora) dopo che la prima Giudice è scomparsa nel nulla. La fiaba si è classificata Terza.
La citazione di Zafòn utilizzata come prompt è segnalata in corsivo.
L'immagine associata ad esso si può trovare qui.
Se hai letto e questa storia ti è piaciuta, ringrazia i tre nomi apposti in dedica. Eis debeo omnia.
Miss Bellis



   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: Bellis