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Autore: My Pride    07/06/2011    7 recensioni
«Por favor, chica, segui il consiglio che ti ho dato e lascia perdere», la sua voce suonò stanca e pacata, come se tutta la sua solita vitalità fosse d’improvviso scomparsa. «L’ultima persona di cui hai bisogno è proprio quel hijo de puta di Dante».
«Miguel... che cosa sai che io non so? Cosa mi stai nascondendo?»
«Te ne parlerò se mai riuscirai a restare viva, chica»
[ Lewis Ride Point Of View ]
[ Spin off della storia «Under a bloody sky» ]
[ Sesta classificata al contest «Femslash: Titoli per l’amore» indetto da Signorino_ ]
Genere: Mistero, Sovrannaturale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, FemSlash
Note: Lemon, Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti
- Questa storia fa parte della serie 'St. Louis ~ Bloody Nights'
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Si Deus me relinquit _1
[ Sesta classificata al contest «Femslash: Titoli per l’amore» indetto da Signorino_ ]

Autore:
My Pride
Titolo: Si Deus me relinquit
Fandom: Originali › Sovrannaturale › Vampiri
Tipologia: One-shot [ 7200 parole ]
Genere: Generale, Vagamente Introspettivo, Drammatico, Accenni Lemon, Vagamente Thriller, Sovrannaturale
Rating: Giallo / Arancione
Personaggi principali: Lewis Ride, Giselle Storr, Nathan Doe, Lieve partecipazione di Miguel Rodriguez
Nota: Questa storia è uno spin off di Under a bloody sky e fa parte della serie St. Louis ~ Bloody Nights
Avvertimenti: Femslash, Linguaggio a tratti un po’ colorito
Note dell’autore: Note presenti alla fine della fanfiction

 
DISCLAIMER:
All rights reserved © I personaggi presenti in questa storia sono tutti maggiorenni e mi appartengono, dal primo all'ultimo. Sono comunque frutto di pura immaginazione. Ogni riferimento a cose e persone realmente esistite e/o esistenti è puramente casuale.
This work is licensed under a Creative Commons Attribution-Noncommercial-No Derivative Works 3.0 License.



SI DEUS ME RELINQUIT [1]
 
Si deus me relinquit, ego deum relinquo. Solus oppressus nigram clavem habere potest.
Omnias ianuas praecludo, sic omnias precationes obsigno.
Sed, qui me defendet ab me terribilissimo ipse? [2]
 
    La vita dopo la morte esisteva, dai miei genitori mi era stato ripetuto questo in continuazione. Però ero sicura che ciò che loro avevano sempre voluto intendere era ben diverso da ciò che era capitato a me più di settecento anni addietro.
    A quel tempo non avrei mai creduto possibile che le loro parole potessero rivelarsi così veritiere. Per vita dopo la morte avevano di certo inteso un’eternità nella beatitudine eterna, fra le braccia di Dio... non una falsa immortalità imprigionata in un inferno in terra. Credenti fino all’osso, i miei genitori non si erano mai lamentati della vita che avevano sempre condotto: facenti parte di una piccola comunità nomade legata fortemente alle vecchie tradizioni, avevano viaggiato in lungo e in largo sostenuti dalla fede che riponevano nell’Onnipotente. Quand’ero nata io mi avevano considerata un miracolo. Mia madre, sebbene lo desiderasse, non avrebbe mai potuto avere figli; sentendo crescere dentro di sé quella piccola vita che altro non era che io, aveva ringraziato il Signore per averle concesso quella grazia. Mi avevano poi cresciuta all’insegna di quella loro ardente fede, e probabilmente avrei continuato a crederci davvero se una notte non mi fosse crollato il mondo addosso.
    Non avevo creduto a nient’altro di mistico, sovrannaturale o onnipotente all’infuori di Dio, almeno fino alla mia ventiquattresima estate. Avevamo trovato rifugio presso un piccolo villaggio in mezzo al nulla, dove la popolazione ci aveva accolti in modo piuttosto ospitale. L’unica cosa che ci aveva insospettiti era stato il loro continuo raccomandarci di non uscire la notte, però credemmo semplicemente che l’avessero fatto a causa delle bestie che girovagavano nei boschi presenti nei dintorni. Beh, non era mai stato per quello. Se adesso continuassi a raccontare, molto probabilmente verrei considerata pazza, ma il mio trovarmi seduta su una vecchia sedia in un bel soggiorno ombreggiato smentirebbe questa credenza.
    Insomma, ciò che sto cercando di dire è che quella stessa notte venni aggredita da un vampiro. Aye, avete capito bene. Un vampiro. Tutta la mia fede non era servita ad un bel niente contro quella creatura, che aveva ammazzato i miei genitori e mi aveva rapita, portandomi con sé senza che io potessi oppormi in nessun modo. Non seppi mai il perché, ma mi rese una di loro. Fu straziante sentire tutto il mio essere morire mentre dinanzi agli occhi dardeggiava l’immagine di quel mostro sanguinario, che aveva osservato tutta la mia trasformazione con le labbra ritratte e i canini scoperti, gli occhi scuri che promettevano dolore e sofferenza eterna. In preda agli spasmi non avevo fatto altro che invocare Dio, implorandolo di venire a salvarmi e di porre fine a quel mio immane dolore chiamandomi a sé, fra le schiere dei beati.
    Quella mia supplica non venne mai accolta. Passai giorni e giorni distesa sulla schiena a fissare il soffitto, avvertendo intorno a me e dentro me stessa cambiamenti sempre più palpabili. Il vampiro che mi aveva catturata mi nutriva con il suo stesso sangue, mormorandomi dolci parole di conforto e rassicurandomi che presto sarei stata bene. E in effetti aveva ragione. Quando una settimana dopo, esattamente al calar della notte, riaprii gli occhi, mi sentii rinata. Avevo acquisito una forza e una resistenza che mai avrei creduto esistessero, e indovinate la prima cosa che feci? Se avete pensato a quello che sto per dirvi, allora avete indovinato. Altrimenti lasciate che vi illumini io: lo ammazzai. Io, che non ero mai stata in grado di nuocere a niente e a nessuno, avevo ucciso quel mostro a sangue freddo. Ciò che mi spaventò non fu l’atto in sé, però, bensì il fatto che non avessi provato orrore, rimorso, disgusto... ma solo un’inarrestabile frenesia, come se farlo mi fosse piaciuto immensamente. Solo in seguito, con l’avvicinarsi ormai prossimo dell’alba, mi ero resa davvero conto di ciò che avevo fatto e perché, rannicchiandomi in me stessa e cominciando a piangere lacrime che scoprii essere di sangue. Quella fu l’ultima volta che lo feci.
    «Quindi sei decisa ad indagare?» la voce di Giselle, la cugina del mio vecchio amico Nathan, fu capace di ridestarmi dai miei pensieri. Mi guardai intorno frastornata, forse domandandomi quando avessi esattamente cominciato ad immergermi nel mio passato. Quanto tempo ero rimasta con lo sguardo perso nel vuoto, a ricordare avvenimenti accaduti secoli addietro? Non lo sapevo, e con molta probabilità non avrei nemmeno voluto saperlo. Ciò su cui avrei dovuto concentrarmi era il presente e la situazione in cui mi ero invischiata.
    Scossi il capo per schiarirmi la mente, alzando lo sguardo sul bel volto di Giselle. I suoi occhi, dorati a causa del sempre più presente influsso della luna piena, mi squadravano severi e austeri, quasi stessero cercando di scrutare nella mia anima. Beh, perdeva tempo. Probabilmente non l’avevo più un’anima, dunque tanti cari saluti alla sua ascesa in cielo quando sarei stata ridotta in cenere. «Ci sono dentro fino al collo, ormai», risposi sarcastica, nonostante non fosse poi una così gran bella cosa. «Se mi tirassi indietro adesso, chissà cosa potrebbe succedere».
    E in effetti avevo ragione. Sebbene non mi importasse poi più di tanto se qualche umano veniva ammazzato - ero una vampira e anche piuttosto stronza, dunque per me erano per lo più simili ad una succulenta bistecca al sangue -, non potevo permettere che l’assassino girovagasse indisturbato per le vie di St. Louis. Già faticavamo a restare nell’ombra, quella cattiva pubblicità era proprio l’ultima cosa di cui avevamo bisogno. E forse era stato proprio per quel motivo che, quando si era presentato al Bloody Nights - la tavola calda gestita da Harry, un altro vampiro e mio vecchissimo conoscente -, avevo accettato il caso propostomi da quel ragazzo, Jackson Winchester. Un tempo avrei detto «Che Dio me la mandi buona», ma proprio non ci tenevo a fare affidamento al suo scarso potere divino. Se Dio mi aveva abbandonata, secoli addietro, perché io avrei dovuto essergli fedele? Bella domanda, specialmente sapendo cos’ero diventata. Dovevo essere un’umile vampira che pregava l’Onnipotente e andava in Chiesa? Ma fatemi il piacere! I tempi erano cambiati e anche io, la discussione si poteva quindi ritenere chiusa. Come cambiavano i punti di vista in seguito ad un avvenimento a dir poco traumatico, eh?
    Giselle trasse un lungo sospiro e, scostando la sedia dal tavolo, si alzò, andando a riempirsi un’altra tazza di caffè prima di gettare uno sguardo all’orologio appeso al muro. Erano le sei e mezza del pomeriggio e Nathan era ancora fuori alla ricerca di informazioni. Ci sarei andata da sola, se avessi potuto. Ma, sebbene il mio riposo diurno si fosse ormai concluso più di venti minuti prima, c’era ancora abbastanza luce da impedirmi di uscire di casa. E se potevo evitare di incenerirmi lo facevo.
    «Non hai pensato che così potresti mettere in pericolo la tua incolumità, vero?» Giselle mi guardò intensamente, affrontando i miei occhi senza nessun timore. Essendo un licantropo, era immune ai poteri ipnotici di noi vampiri. O almeno parzialmente. «Non ti è minimamente passato per la testa».
    La sua collera era palpabile e si poteva fiutare nell’aria, ma cosa avrei mai potuto dirle? Forse era vero che non ci avevo pensato per niente, e la cosa mi metteva un pochino a disagio. Sbuffai, cercando di scacciare quella sensazione. «Non farmi la ramanzina, Giselle. Ci basta già quel sacco di pulci di tuo cugino».
    «Non vuoi starci a sentire perché sai che io e Nathan abbiamo ragione, non è così?» ribatté però lei, senza darsi per vinta e sfidandomi a controbattere ancora.
    Le gettai appena una rapida occhiata prima di poggiare una mano sul bordo del tavolo dietro il quale ero seduta, e le fui dinanzi così rapidamente che lei, presa alla sprovvista, sussultò e quasi fece un piccolo salto indietro, come se fosse stata appena morsa da un serpente. Ma si trattenne, dimostrando di essere coraggiosa quanto stupida. Licantropo o no, se un vampiro ti si avvicina così silenziosamente, la prima cosa da fare è scappare o almeno provarci. «La mia vita non è affar vostro».
    Sostenne il mio sguardo con fermezza, almeno finché non le sembrò più saggio abbassare gli occhi per guardare la mia spalla destra. Ma non l’aveva di certo fatto per codardia. La conoscevo da troppo tempo per credere che fosse così. «Che ti piaccia o no, sei nostra amica», ribatté poi, concentrata sulle rifiniture della maglietta che indossavo. «Anche se in quanto vampiro sei già morta - perdona la franchezza -, sapere che potresti diventarlo davvero è una cosa che ci spaventa».
    Diamine, vedere quei due così preoccupati sembrava così sbagliato! «E’ da prima ancora che nasceste che me la cavo da sola», cercai di rassicurarla, ma alzai ben presto lo sguardo al soffitto non appena le vidi in viso un’espressione addolorata. «Per l’amor del cielo, Giselle, controllati!» esclamai esasperata, dandole le spalle prima di dirigermi alla finestra. Non osai scostare i pesanti tendaggi che la nascondevano, limitandomi solo a sfiorarli appena con la punta delle dita. Sentivo la pesantezza del sole opprimere la stoffa, sebbene stesse man mano scemando. Ancora poco e sarei potuta uscire da quella casa, finalmente.
    Il rumore dei tacchi di Giselle sul parquet mi costrinse a voltarmi ancora, e la vidi radunare alcuni giornali e la tazza che aveva usato, nonostante non avesse bevuto neanche un sorso di caffè. La guardai, osservando ogni suo minimo movimento come se fosse la prima volta che la vedevo.
    Era strano come mi fossi interessata a lei, da un po’ di tempo a quella parte. Non mi era mai importato di intrattenere una relazione con qualcuno, né essere umano o vampiro che fosse, dunque anche solo pensare di farlo con un licantropo era alquanto bizzarro. Come potevo mai credere che tra due creature così diverse potesse nascere qualcosa?
    «E va bene, vediamo di fare il punto della situazione», mi riscosse d’un tratto la voce di Giselle, richiamandomi alla realtà ancora una volta. Aveva recuperato un fermaglio a clip e aveva raccolto i lunghi capelli scuri in una crocchia, senza curarsi dei ciuffi ondulati e ribelli che le ricadevano a incorniciarle il bel viso da bambolina. «Oltre al fatto che sono state uccise ben quindici persone in così poco tempo, cos’altro sappiamo?»
    Arricciai di poco le labbra, come spesso mi capitava di fare quando assumevo un’aria pensosa. Beh, aye, anche i vampiri hanno i loro tic nervosi. «Mi è giunta voce che due poliziotti che avevano appena cominciato a lavorare al caso sono misteriosamente scomparsi».
    «E tu credi che possa essere coinvolto questo vampiro, o qualunque altra cosa esso sia?» domandò ancora Giselle, sinceramente interessata. E di certo non potevo darle torto. Non aveva mai preso parte ad una cosa del genere, tentando di nascondere il più possibile la sua licantropia. Quanto a me, in settecento anni era la prima volta che mi immischiavo in indagini della polizia. In fin dei conti avevo anch’io il mio bel da fare.
    Non sapendo però come rispondere con esattezza alla domanda, mi limitai a stringermi appena nelle spalle. «Non lo so», replicai in tono sincero, incrociando le braccia al petto e cominciando a guardarmi distrattamente intorno. «I segni dei morsi che ho visto sulle prime vittime sono senza dubbio quelli di un vampiro, ma l’aggressione di sei agenti e di un medico legale conduce tutte le piste ad una creatura più simile ad un licantropo».
    «Sono stati trovati cadaveri mutilati?»
    «Per niente. Solo grosse ferite da artiglio».
    Si portò un dito alle labbra, cominciando a picchiettare quello inferiore con un’unghia curata e perfettamente laccata. La posizione che aveva assunto la faceva stranamente apparire più giovane di quanto non fosse in realtà, e mi accorsi che la stavo osservando con bramosia solo quando mi soffermai sulla vena pulsante del suo collo. Fortunatamente lei non se ne rese conto, inclinando infantilmente la testa di lato mentre tornava a fissarmi. «Non dev’essere stato necessariamente un licantropo, a ben pensarci», rimbeccò, e nei suoi occhi sembrò comparire un lampo di accusa che non riuscii ad identificare. «Tu stessa hai ammesso che anche i vampiri possono compiere stragi del genere per il semplice gusto di farlo».
    Un punto per lei. Aveva tremendamente ragione. «Qualunque cosa sia, ci conviene togliercela di torno il più in fretta possibile», tagliai corto, stufa di quella discussione e di tutta quella dannata storia. Maledizione a me e a quando avevo accettato. Forse avrei fatto meglio a dare ascolto a Miguel; il consiglio che mi aveva dato era stato chiaro, semplice e conciso. Avrei dovuto lasciare che chiunque fosse coinvolto se la sbrogliasse da solo, poiché come Miguel aveva puntualizzato io non avevo nulla a che fare con tutta quella merda. Era cieco ma vedeva più lontano di me, certe volte. Però ormai le danze si erano aperte, e a me non toccava altro da fare che ballare.
    Senza prestare più attenzione a Giselle, volsi lo sguardo verso le finestre ancora una volta. Era sopraggiunto un fresco crepuscolo che rendeva quel soggiorno molto più simile ad una cripta, dove solo poche lampade erano accese sulla mobilia. Scorsi persino una piccola lanterna ad olio, utilizzata probabilmente più per abbellimento che per il reale uso per cui era stata creata. Non avrei mai creduto che Nathan fosse un collezionista di cimeli antichi.
    Scossi il capo. Non avevo abbastanza tempo per pensare a simili sciocchezze. «Quando rientra, di’ a Nathan che lo saluto», esordii d’un tratto, forse neanche io conscia d’aver aperto bocca, incamminandomi in direzione della porta d’ingresso. Ormai il sole non avrebbe più potuto nuocermi, e io non sarei riuscita ad attendere il ritorno di quel sacco di pulci un attimo di più.
    Udii un rumore alle mie spalle, intuendo che si trattava dei piedi di una sedia che venivano strascicati all’indietro sul pavimento. «Vuoi andare da sola?» mi chiese Giselle con una punta d’isteria fin troppo marcata. Se stava cercando di apparire tranquilla, beh, non ci riusciva per niente.
    Con la mano sul pomello della porta, mi ritrovai a gettare appena una rapida occhiata verso di lei, distendendo le labbra in una linea sottile. Avevo l’irrefrenabile voglia di tornare sui miei passi per andarle vicino e confortarla, rassicurandola che sarebbe andato tutto bene e che non avrebbe dovuto preoccuparsi di nulla, nemmeno della mia incolumità. Se si fosse ritenuto necessario, avrei fatto appello a tutte le mie forze per uscire da un qualsiasi pericolo si fosse presentato. Oltre ad aver barattato la mia anima, dicendo addio a quel Dio che mi aveva abbandonata e lasciata nelle mani di quel vampiro che mi aveva resa ciò che ero, avevo ottenuto una forza che mai avevo sfruttato, se non si teneva conto di quel giorno in cui avevo ucciso il mio carceriere. 
    «Per favore, Giselle, non ricominciamo con questa storia», ribattei pacatamente, e avrebbe dovuto capire quanto fossi stanca proprio dalla mia richiesta. Non sprecavo mai un «Per favore»; anzi, non lo dicevo quasi mai se potevo evitarlo. Perché chiedere per favore quando potevo usare metodi ben più diretti come la minaccia?
    Sentii Giselle avvicinarsi ancora di qualche passo, senza accostarsi troppo a me, ma abbastanza affinché avvertissi distintamente la pulsazione agitata del suo cuore, come se fosse una piccola farfalla imprigionata nelle mie mani che batteva freneticamente le ali. «Aspetta almeno il ritorno di Nathan», mi supplicò, o almeno sembrò farlo. Se non fosse stata davvero preoccupata non avrebbe mai dato alla sua voce quella cadenza.
    «Devo nutrirmi, non posso aspettare ancora quel sacco di pulci».
    «Posso offrirti io il mio sangue».
    Lei voleva fare cosa? Lasciai così bruscamente il pomello della porta che quasi mi sembrò di strapparlo dal legno in cui era incastonato con tutta la serratura, voltandomi a guardare Giselle con un’espressione stralunata. La prospettiva di morderla e sentire la forza del suo sangue scorrere nelle mie vene era allettante: avrei potuto stringerla fra le mie braccia e baciarle dolcemente il collo prima di affondare le zanne nella carne sopra l’arteria, succhiando e deglutendo quel caldo liquido rosso e vischioso, godendomi i gemiti a cui le avrebbe dato vita. Ma... c’era sempre un ma, dannazione. Non potevo farlo. E non perché non volessi, nay, non era affatto per quel motivo. Se avessi cominciato non mi sarei più fermata, lo sentivo fin dentro alle viscere. Il sentimento che provavo nei confronti di Giselle era inspiegabile e troppo forte persino per me - non avevo provato niente del genere nemmeno per Miguel, eppure eravamo stati a lungo amanti -, e nulla era più pericoloso di una cosa simile per il malcapitato donatore. Come potevo, quindi, anche solo pensare di lacerare la pelle di Giselle per nutrirmi di lei? Semplice: non potevo.
    Scossi dunque il capo molto lentamente, quasi con circospezione, alzando lo sguardo per osservarla con attenzione. «Non posso accettarlo, Giselle», esordii piano, vedendo i suoi begl’occhi diventare d’un dorato quasi brillante per un qualcosa di molto simile alla rabbia.
    «Nathan l’hai morso, però», replicò scorbutica, aggrottando la fronte.
    «Nathan è un caso a parte», ribattei, e sul viso di Giselle comparve una smorfia che le deturpò il bel viso perfetto da bambola di porcellana. Fino a quel momento non le avevo mai visto un’espressione simile dipinta in volto, e non capii nemmeno cosa avessi fatto per far sì che essa comparisse.
    Giselle, però, non mi diede nessuna spiegazione, ritraendo un po’ il labbro inferiore prima di raschiarselo con i denti, dandomi indispettita le spalle per allontanarsi in direzione del corridoio, diretta probabilmente nella sua stanza per starsene da sola.
    Sospirai pesantemente e mi detestai per averla ferita in quel modo - qualsiasi cosa io avessi mai fatto -, ma purtroppo non c’era tempo per quel tipo di sentimentalismi. Avevo un lavoro da portare a termine.

 

    Nathan si ripresentò solo dopo le otto e quarantacinque di quella stessa sera, scosso e spossato come non l’avevo mai visto. I capelli, che persino quando era a casa in pigiama teneva sempre in ordine, erano una massa informe sulla sua testa, come se fosse stato investito da folate di vento che gli avevano sferzato la chioma senza pietà. Gli occhi erano cerchiati di rosso a causa del poco sonno che si era concesso, e scintillavano sinistramente di un colore simile al miele dorato alle calde luci dell’ingresso.
    Seduta sul divano nel soggiorno, dal quale si poteva avere la vista panoramica di gran parte della casa - ingresso incluso, quindi -, lo salutai appena con un cenno del capo, guadagnandoci un’occhiata distratta e un’alzata di mano in risposta.
    Non sembrava per nulla sorpreso di trovarmi ancora lì; io invece lo ero. Anziché andarmene come avevo deciso di fare al principio, avevo atteso che Nathan tornasse, poiché non avevo avuto il coraggio di lasciare da sola Giselle. Per quanto potesse essere forte, se mai si fosse presentato qualcuno a casa non sarebbe riuscita a fare poi molto. E io non volevo che lei si trovasse in pericolo a causa mia.
    Sgranchendosi il collo e sbadigliando, Nathan si liberò della giacca leggera che indossava e si diresse verso di me, lasciandosi cadere pesantemente sul lato libero del divano. Io attesi che mi raccontasse ciò che aveva scoperto, fissandolo con attenzione in viso, ma lui non sembrò accennare ad aprir bocca, anzi, sbadigliò ancora una volta e si adagiò meglio contro lo schienale, voltandosi solo di pochissimo nella mia direzione.
    Continuò però a star zitto e io mi innervosii. «Sputa il rospo, Nathan, cos’hai scoperto?» sbottai, incrociando le braccia al petto. Un rumore dall’altra parte della casa ruppe di poco il sottile silenzio che si era venuto a creare, ma non osai voltarmi in quella direzione. Per affrontare Giselle era ancora un po’ troppo presto.
    Un grugnito soffocato si levò dalla gola di Nathan. «Dammi tregua, sanguisuga, sono appena tornato da un giro di cinque ore», replicò, massaggiandosi una tempia con la punta dei polpastrelli della destra. Sbuffai pesantemente, agitando appena una mano senza sciogliere le braccia, lasciando che si prendesse il tempo di cui necessitava. In realtà avrei voluto che mi mettesse subito al corrente delle informazioni ottenute - se mai ne aveva ottenuta qualcuna, c’era da aggiungere -, però non potevo proprio pretendere di torchiarlo dopo tutto il tempo che aveva passato in giro a raccogliere indizi per me. Non ero poi così bastarda.
    Infine, dopo aver fatto scroccare le nocche di entrambe le mani ed essersi massaggiato una spalla, Nathan  riportò la sua attenzione su di me, raccontandomi con gran dovizia di particolari come aveva passato quelle cinque ore mentre io ero stata confinata nel mio riposo diurno. Mi disse che aveva sentito da un suo vecchio amico licantropo - tale James Kirkland, che tempo addietro aveva lavorato nella polizia di St. Louis prima di andare in pensione - che negli ultimi periodi il via vai di creature sovrannaturali era notevolmente aumentato e divenuto piuttosto sospettoso, e non solo fra i bassi fondi della città. Lì a St. Louis stava succedendo qualcosa di strano, aveva detto, e di certo non si riferiva soltanto agli omicidi che erano stati commessi. Si vociferava che anche il Bloody Nights, la bettola di Harry, stesse facendo affari d’oro e incassi record, e la cosa sarebbe apparsa del tutto normale se la maggior parte dei clienti non fossero stati proprio dei vampiri. Era alquanto raro che così tanti succhiasangue come me frequentassero quel posto, per di più ogni notte. Quel piccolo e insignificante dettaglio aveva di sicuro la sua parte in quel grande mosaico che stava venendo a crearsi.
    Ascoltai con circospezione il restante racconto di Nathan, scoprendo così che non erano state poi molte le informazioni racimolate. Ma cosa potevo pretendere in un paio d’ore? Il nome che era comparso più di tutti gli altri, però, era stato quello che avrei preferito udire di meno o per nulla: quello di Dante. Possibile che, per quanto tentassi di restare il più possibile lontana dalla sua casata, mi toccasse sempre avere a che fare con lui? Avrei dovuto fargli nuovamente visita e farlo parlare chiaro, stavolta, sebbene non avessi la benché minima intenzione di incontrarlo dopo così poco tempo. E non potevo nemmeno pretendere che Nathan mi accompagnasse ancora una volta nella sua tana. Se le cose si fossero messe male, non volevo che lui restasse coinvolto. Forse avrei potuto chiedere anche a Miguel di farci da scorta, ma... chi mi assicurava che avrebbe accettato? Non dovevo poi dimenticarmi che lui, per quanto fosse un vampiro, era cieco. Dubitavo però che, se glielo avessi chiesto, si sarebbe buttato a capofitto in quell’impresa, giacché era stato proprio lui a consigliarmi di tirarmene fuori finché potevo.
    Proprio in quel mentre, ad interrompere i miei pensieri e il nostro discorso fu l’arrivo di Giselle, che salutò distrattamente Nathan senza degnare me di uno sguardo. Lui se ne accorse, chiedendomi spiegazioni con gli occhi, ma io non gli prestai alcuna attenzione, tenendo per me ogni particolare. Era una cosa che riguardava solo me e Giselle. Per quanto fosse suo cugino, non era necessario che Nathan sapesse. Non c’entrava niente.
    Nathan continuò però a squadrarmi con quei suoi occhi dalle sfumature dorate, mormorando fugacemente un «Roba da femmine?» e venendo ammonito da Giselle stessa prima che potessi farlo io. Aggrottò la fronte e fece per aprire nuovamente bocca, ma lo zittimmo prontamente entrambe come se gli avessimo letto nel pensiero, e per quanto mi riguardava avrei anche potuto farlo, se solo avessi avuto il potere di sondare la mente altrui. Di certo non ne sentivo la mancanza: con le poche persone con cui avevo a che fare a che cosa sarebbe servito? Che mi chiamassero pure sociopatica. In fin dei conti lo ero davvero.
    «Lo vuoi un caffè?» si sentì dire da Giselle, che interruppe il flusso di quei pensieri e spezzò quel breve silenzio che si era creato fra noi. Non per dire, adesso, ma non stava bevendo un po’ troppo caffè? Già era nervosa di suo; quella bevanda era proprio l’ultima cosa che le serviva.
    Gettando un’occhiata a me e poi agitando una mano in segno di negazione, Nathan si alzò con un unico gesto fluido dal divano, stiracchiandosi come un grosso gatto - pardon, un grosso lupo - prima di portare la propria attenzione sulla cugina. «Mettimene un po’ da parte per dopo», asserì infine. «Credo proprio che andrò a farmi prima una doccia».
    «Come preferisci», ribatté semplicemente Giselle, aprendo l’anta di un mobiletto per tirar fuori la macchinetta. A me come al solito non chiese nulla, e stavolta ero certa che ci fosse un motivo in più. Ma non vi diedi peso, accennando un saluto a Nathan e borbottandogli un «Dopo chiamerò Miguel per informarlo di questa storia e vedere se è disposto ad aiutarci» prima che lui annuisse e si dirigesse verso il corridoio, diretto probabilmente in camera sua e poi dritto in bagno. Io riportai lo sguardo sulla schiena di Giselle, che fece praticamente finta d’esser sola. Che cosa diavolo le avevo fatto? Avrei dato chissà cosa per saper davvero leggere nella sua mente e capirlo, adesso.
    Osservai ogni suo minimo movimento senza che lei mi dicesse di smetterla di farlo, comportandosi sul serio come se in quella specie di cucina non ci fosse nessun altro oltre a lei. Si alzò un po’ in punta di piedi per cercare il caffè nella credenza, prendendo anche lo zucchero e una tazzina prima di arraffare nuovamente la macchinetta per aprirla e prepararla.
    Sbuffai. Quanto tempo ancora aveva intenzione di andare avanti in quel modo? «Giselle», la chiamai, decisa più che mai ad interrompere quell’ostilità e quel suo freddo silenzio. Lei però continuò a far finta di nulla, senza prestarmi il benché minimo ascolto. Fui così costretta ad alzarmi per raggiungerla, obbligandola a guardarmi dopo averle poggiato una mano su una spalla. «Si può sapere che cos’hai?» le chiesi una volta ottenuta la sua attenzione.
    Giselle aggrottò le sopracciglia e gonfiò di poco le guance, dimostrando così meno dell’età che aveva. Sembrava quasi che fosse ancora indispettita, ma il punto era... perché? «Tu non te ne sei proprio resa conto, vero?» mi domandò in risposta, e l’espressione ferita che le si dipinse in viso riuscì quasi a farmi sentire in colpa. Ma in colpa per cosa? Avevo troppe domande e nessuna risposta, purtroppo, e la cosa mi mandava su tutte le furie. Avrei voluto chiederle cosa non andava, ma temevo che Giselle reagisse peggio di quanto non stesse già facendo.
    Alzò la testa per potermi osservare negli occhi, fregandosene delle possibili conseguenze che l’incontrare il mio sguardo avrebbero potuto comportare. Gli attimi che si susseguirono, però, furono rapidi e incerti persino per me, tanto che restai brevemente interdetta: un momento prima Giselle mi stava fissando, e quello dopo si era avvicinata così velocemente che avevo quasi stentato a vederla, probabilmente a causa del gesto che aveva compiuto pochi attimi dopo. Aveva poggiato delicatamente le sue labbra sulle mie, e ci trovavamo ancora così senza approfondire per niente quel minimo contatto.
    Fui la prima a riprendermi, allontanandomi di scatto come se mi fossi appena ustionata. E il paragone non era poi così lontano dal vero, date le labbra bollenti e morbide di Giselle. «Che cosa fai?» domandai incredula, sgranando di poco gli occhi.
    Sicuramente meno isterica di quanto non apparissi io, lei si leccò il labbro inferiore, osservandomi poi con gli occhi scintillanti di ironia e di un qualcosa che non riuscii a definire. «Ti bacio, non è ovvio?» rimbeccò, facendo appena un passo indietro quasi volesse ristabilire le distanze. E dovetti ammetterlo: un po’ me ne rammaricai.
    «Mi risultava tu odiassi i vampiri», replicai sarcastica. «E non credevo ti piacessero le donne».
    «Forse è il mio modo per dirti di non gettarti oltre in quest’impresa, non ci hai pensato?»
    «Ma perché dovrebbe importartene?»
    La vidi mordicchiarsi il labbro inferiore e distogliere lo sguardo, pensando probabilmente che sarebbe stato più saggio fissare qualcos’altro anziché i miei occhi. Stavolta sembrava tormentata, e fu quasi con una certa riluttanza che infine si decise ad aprire nuovamente bocca. «Perché ti amo».
    Quella sì che sarebbe stata una notizia che avrebbe lasciato interdetto chiunque, e io non facevo di certo eccezione. Nessuno mi aveva mai detto una cosa del genere, nemmeno Miguel, che aveva sempre avuto il brutto vizio di idolatrare qualsiasi uomo o donna che avesse avuto la sfortuna di finire nel suo letto dalle belle lenzuola di seta. Insomma, dire che ero rimasta spiazzata - forse più del bacio, chi poteva dirlo -, sarebbe stato soltanto un eufemismo.
    Senza volerlo mi ritrovai ad obnubilare la mente di Giselle, cosicché non mi vedesse mentre mi allontanavo. Era un trucchetto che si imparava dopo mezzo secolo e che, in situazioni come quella, appariva piuttosto utile. Giselle nemmeno se ne accorse. Sbatté solo velocemente le palpebre, confusa, cercandomi con lo sguardo e trovandomi accanto alla piccola libreria addossata alla parete. Sembrava sorpresa, ma non avrebbe dovuto esserlo; sapeva chi e che cosa ero, quello di sparire come nebbia ed apparire altrove era solo un semplice gioco di prestigio, per quelli della mia specie.
    Dalla posizione in cui mi trovavo squadrai Giselle, aggrottando lievemente le sopracciglia come in preda alla preoccupazione. «Non prendermi per il culo con queste stronzate, Giselle», replicai, lasciando che dalla mia voce trapelasse la serietà e qualcosa di simile alla rabbia. Aveva forse fiutato il mio desiderio e, con la speranza di preservare la mia cosiddetta vita, aveva deciso di prendermi in giro in quel modo? Se avessi potuto assaporare le menzogne mi sarei risposta da sola.
    Giselle fece qualche breve passo verso di me senza sfruttare la sua velocità di licantropo, apparendo più umana di quanto non fosse. «Credi che stia scherzando?» mi domandò, estremamente seria a sua volta. Aveva abbandonato le braccia lungo i fianchi e mi fissava il petto, attenta a non incrociare il mio sguardo per evitare che potessi manipolare ancora una volta la sua mente e sparire del tutto.
    Annuii. «Non lo credo, ne sono certa», ribattei fermamente, ma lei si ritrovò a sospirare.
    «Non direi mai una cosa del genere se non fosse vera, dovresti conoscermi».
    «È proprio perché ti conosco che non riesco a credere a ciò che dici».
    «Eppure è la verità».
    La fermezza con cui lo disse mi fece montare una rabbia così cieca che, lanciando un grido smorzato in preda alla frustrazione, sentii i vetri delle finestre tremare come se fossero sul punto di andare in frantumi. Giselle aveva invece sussultato, investita e colta alla sprovvista dal soffio del mio potere. «Mi rifiuto di credere che tu ti sia innamorata di un cadavere ambulante, Giselle, perché, sai, se non te ne fossi accorta è quello che sono», sibilai in tono sprezzante, facendo ancora una volta per andarmene.
    Lei però mi fu accanto e mi bloccò, come se volesse impedirmi di muovermi. Si rendeva conto che, se l’avessi voluto, avrei potuto strapparle il braccio dall’articolazione? Probabilmente non ci aveva nemmeno pensato. «Mi stupisce sentirti parlare così di te stessa, Lewis», il modo in cui pronunciò il mio pseudonimo sembrò quasi derisorio. «Perché non vuoi accettare il semplice fatto che qualcuno possa essersi innamorato di te?»
    Le allontanai di scatto la mano per costringerla a lasciarmi, sibilando come avrebbe fatto un serpente infastidito e snudando le zanne, pronta all’attacco. Con Giselle non l’avevo mai fatto, e la cosa spaventò sia me che lei. Sgranò difatti gli occhi e abbassò il braccio, le pupille ingigantite dalla confusione. Reagire in quel modo non era mai stata mia intenzione, ma le sue parole mi avevano indispettita a tal punto che non avevo potuto controllarmi. Purtroppo Giselle aveva colto nel segno e io ne ero rimasta turbata; avevo sofferto così tanto, dal momento in cui ero stata trasformata nel mostro che ero, che pensare che qualcuno potesse affezionarsi a me in quel determinato modo era inconcepibile.
    Ritrassi le zanne e mi portai entrambe le mani a coprirmi il volto, sentendolo scarno sotto le dita. Giselle aveva per caso intravisto il mio vero aspetto, il mostro che si nascondeva sotto la maschera di una donna da più di settecento anni? Qualcosa mi fece pregare che non fosse così, ma soffocai ben presto quella preghiera per ricacciarla nei meandri della mia anima dai quali era riuscita a riemergere. Pregare non sarebbe servito a nulla, lo sapevo fin troppo bene.
    Mi lasciai scivolare lentamente sul pavimento, stringendomi subito dopo le gambe al petto e raggomitolandomi in me stessa in un gesto dolorosamente umano. Non volevo vedere l’espressione di Giselle né tanto meno sapere cosa stesse pensando nel vedermi così vulnerabile. «Scusa», bofonchiai con voce soffocata a causa delle mani con cui ancora mi coprivo il viso. «Non avevo intenzione di minacciarti, non so cosa mi sia preso».
    Avvertii come un sussurro al mio orecchio la tensione dei suoi muscoli, capendo che si stava chinando alla mia altezza prima ancora che lo facesse. Non parlò né tentò di scoprirmi il volto, limitandosi semplicemente a gettarmi le braccia al collo per stringermi a sé. Attraverso la fessura fra le dita sgranai gli occhi, esterrefatta. Non avevo più avvertito un calore del genere dai tempi in cui, da viva, abbracciavo i miei genitori. Miguel non faceva testo, poiché i suoi abbracci erano sempre stati pervasi da un alone di lussuria e sangue. Quell’abbraccio, invece, era... umano. Era caldo e vagamente odorante di pelliccia, ma anziché risultare fastidioso lo rendeva ancor più confortante, come l’abbraccio gentile d’una madre o quello d’un amante affettuoso. E forse fu per quelle bizzarre sensazioni che provai che mi ritrovai inconsciamente a ricambiare quell’abbraccio, sebbene in modo piuttosto goffo.
    Come se si stesse occupando di una bambina, poi, Giselle mi costrinse ad allentare un po’ quell’abbraccio, aiutandomi subito dopo a rimettermi in piedi quasi ce ne fosse bisogno. Non dissi niente né tentai di oppormi, lasciandola fare mentre custodivo dentro di me le strane sensazioni che un semplice abbraccio mi aveva provocato. In seguito, gentili e delicate come petali d’un fiore, le labbra di Giselle sfiorarono le mie ancora una volta, senza però cercare di approfondire quel lieve contatto. Sentii invece, non con le orecchie bensì con i sensi, che mi guidava verso il divano, avvertendo sin dentro le narici l’odore del desiderio che l’animava. Mi voleva così tanto come sembrava, oppure c’era dell’altro? Non lo sapevo, e forse nemmeno mi interessava. In un modo o nell’altro avrei avuto ciò che avevo bramato fino a quel momento: Giselle stessa.
    Quando giungemmo al divano e ci sdraiammo su di esso, però, qualcosa di inaspettato serpeggiò dentro di me, facendomi rabbrividire nonostante fossi sicura che non fosse possibile, e aprii gli occhi di scatto prima di poggiare le mani su entrambe le spalle di Giselle, allontanandola. «Aspetta, aspetta, aspetta... basta così, Giselle», rantolai, sentendo le zanne cominciare a fremere come quando ero affamata.
    Una vaga incertezza si appropriò delle sue membra contratte, e, dopo aver scansato docilmente le mie mani per avere più libertà di movimento, drizzò la schiena per osservarmi come poteva. Una grossa ciocca di capelli ondulati si era liberata dalla crocchia e le ricadeva disordinata sul viso, nascondendo alla vista un occhio ormai dorato. «Cosa? E perché?» mi domandò scandalizzata, sistemandosi a cavalcioni su di me e poggiando le mani poco al di sotto dei miei seni.
    Cercando di trovare le parole adatte, mi leccai lentamente le labbra, abbassando e alzando le palpebre di continuo. «Primo: questo è il divano di tuo cugino e lui potrebbe tornare a momenti», non che me ne importasse, in realtà, ma non gliel’avrei mai detto. «Secondo: non mi sembra giusto e non credo che riuscirei a controllarmi», soggiunsi, e almeno stavolta dissi l’unica cosa sincera che mi passò per la testa.
    Però Giselle non sembrò voler lasciar perdere, poiché la vidi aggrottare le sue belle e fini sopracciglia con aria piuttosto scontrosa. «Hai paura di uccidermi, per caso?» ironizzò, lasciando trapelare dalla sua voce la seccatura che aveva ormai cominciato a farsi spazio dentro di lei. Però come potevo darle torto? Avevo interrotto tutto proprio quando entrambe eravamo sembrate pronte a portare a termine la questione. O almeno a cominciarla, precisai nella mia testa.
    Sfiorandomi appena una zanna con la punta della lingua, mi ritrovai ad annuire brevemente con il capo ancora sul bracciolo del divano. «Anche, lo ammetto». Ma non era quella la verità. Ciò di cui avevo paura era il mio stesso essere, la brama che avevo sentito scorrermi nelle vene come se fosse sangue. Probabilmente non sarei riuscita a dare un freno alle mie emozioni e l’avrei uccisa davvero, non ne ero certa e non volevo saperlo. «Hai ben visto come mi sono ritorta contro di te, poco fa».
    «Non succederà di nuovo», rassicurò lei, come se sapesse ciò che diceva. E anche l’espressione che aveva in viso sembrava dare quella stressa impressione. Non aveva per niente capito quanto fosse andata vicina ad una morte sicura, o probabilmente non le interessava affatto.
    La scansai da me in un gesto brusco, a quel dire, rimettendomi in piedi e lasciando che fosse lei a cadere di peso sul divano, dando vita ad un suono soffocato. «Succederà eccome, Giselle, solo che tu non te ne rendi minimamente conto», replicai seccamente, facendo qualche passo lontano da lei proprio quando in soggiorno entrò Nathan.
    Aveva un asciugamano sulla testa e indossava soltanto dei comodi pantaloni di flanella, di un beige così chiaro da sembrare quasi bianco. Io e Giselle lo squadrammo come se avessimo appena visto un fantasma, e lui, ricambiando le nostre occhiate, si ritrovò a sbattere più volte le palpebre senza capire il perché delle nostre espressioni o la situazione che aveva evitato per un pelo. «Beh? Che c’è?» ci chiese, sollevando in seguito un sopracciglio.
    Scossi il capo e alzai una mano come per zittirlo, senza rispondere alla sua domanda ma scoccando appena un’occhiata a Giselle, che si era rimessa a sua volta in piedi e si stava sistemando le ciocche di capelli sfuggite precedentemente alla crocchia. «Usufruisco un po’ del tuo telefono per chiamare Miguel, se non ti spiace», dissi semplicemente in risposta, dirigendomi verso di esso senza nemmeno attendere che lui mi desse il permesso o aggiungesse qualcosa, visto che gliel’avevo già accennato in precedenza.
    Non avevo più intenzione di giocare, per quella sera. Volevo soltanto andarmene da quella casa e porre fine a quella storia. Avrei dunque telefonato al Night Club di Miguel, l’Old Passion, - un nome piuttosto ironico, per un Night Club, ma chi ero io per criticare? - per parlare con lui, in modo da poter scoprire se fosse intenzionato o meno ad aiutarci. E io speravo proprio di sì. Ero stufa di mettere Nathan nei guai più di quanto non avessi già fatto.
    Quando composi il numero e attesi, la sua calda voce straniera rispose al secondo squillo. «Buenas noches, chica
 [3]».
    Restai lì per lì interdetta, mantenendo saldamente la cornetta prima di riprendere almeno parzialmente le mie facoltà mentali. «Come sapevi che ero io?» domanda stupida, e difatti lui rise, una risata spontanea e genuina che sembrò scivolarmi sulla pelle come una languida carezza.
    «Chiamala pure... intuición», ribatté sarcastico, e quasi mi parve di vedere le sue belle labbra incurvate in un sorriso e il lieve scintillio del divertimento nei suoi occhi ciechi.
    Scossi il capo, non volendo pensarci. «Non sei affatto divertente».
    «Lo siento, chica, yo no querìa
 [4]».
    «Piantala di parlare in spagnolo e stammi a sentire», sbottai. Sapevo perché si divertiva a fare così, ma perché io continuavo ad innervosirmi? Probabilmente perché sentirlo parlare nella sua lingua mi riportava alla mente il tempo che avevamo passato insieme, e io non volevo ricordarlo per niente, se potevo evitarlo.
    Un’altra sua bella risata giunse metallica attraverso il ricevitore, ma riacquistò pian piano la propria serietà prima di sussurrare all’apparecchio. «Sei per caso nei guai, chica?»
    Se avesse potuto vedermi - con o senza il fatto che stessimo parlando a telefono, c’era tristemente da aggiungere -, Miguel avrebbe di sicuro visto il mio sussulto e avvertito l’ombra di paura che si stendeva dal mio corpo stesso. «Non voglio mentirti, Miguel, quindi... aye, sono nei guai», replicai seccamente. «Ho bisogno di andare a parlare con Dante». Non accennai al fatto che gli avessi già fatto visita, poiché probabilmente avrebbe di sicuro avuto a che ridire.
    «Dante?» ripeté lui, e il silenzio che seguì fu riempito soltanto dal crepitio della cornetta. Si era zittito senza aggiungere nient’altro, probabilmente per cercare di capire se avessi realmente pronunciato quel nome oppure se lo fosse sognato. Però aveva capito benissimo. D’un tratto Miguel sospirò, e sentii distintamente lo schioccare delle sue labbra. «Por favor, chica, segui il consiglio che ti ho dato e lascia perdere», la sua voce suonò stanca e pacata, come se tutta la sua solita vitalità fosse d’improvviso scomparsa. «L’ultima persona di cui hai bisogno è proprio quel hijo de puta di Dante».
    «Miguel... che cosa sai che io non so? Cosa mi stai nascondendo?»
    «Te ne parlerò se mai riuscirai a restare viva, chica», replicò sibillino, interrompendo poi la comunicazione senza neanche attendere che ribattessi. Se aveva tutta quella fretta doveva esserci di sicuro qualcosa sotto. Ma cosa?
    Sospirai pesantemente, riattaccando a mia volta e scuotendo il capo. Quella maledetta storia stava diventando più complicata di quanto non mi fossi aspettata al principio, e la cosa non mi faceva stare per niente serena. Temevo i miei stessi simili, ed anche per una buona ragione. Se erano davvero implicati anche succhiasangue con secoli, se non millenni, alle spalle, allora c’era davvero poco da stare tranquilli, per umani, vampiri, o licantropi che fossero.
    «Allora?» la voce di Nathan mi richiamò alla realtà e io fui costretta a girarmi verso di lui per fronteggiarlo, vedendolo intento a frizionarsi ancora i capelli. Forse per la tensione non si era nemmeno accorto di star compiendo quel gesto da una buona decina di minuti,e Giselle nemmeno glielo tenne presente. La tensione era ben visibile anche sul suo pallido e bellissimo viso.
    Allontanandomi dal ripiano del telefono, scrollai di poco le spalle e feci vagare lo sguardo dall’uno all’altro prima di sospirare appena. «Non mi ha dato nemmeno il tempo di chiedergli se avesse intenzione di aiutarci o no».
    Nathan aggrottò di poco la fronte con fare pensoso, sistemandosi poi l’asciugamano intorno alle spalle per lasciarlo penzoloni sul petto nudo. Mi guardava con una serietà tale, adesso, che sembrava quasi che fosse pronto a tutto. Giselle aveva la stessa e identica espressione, e quasi mi chiesi cosa avessero in mente. «Ce la vedremo noi se dovesse succedere qualcosa», disse Nathan, ma subito dopo mi sorrise raggiante, un sorriso in cui fece scintillare i canini aguzzi. «Ma vedrai che finirà tutto per il meglio, sanguisuga. Ci saremo noi a darti manforte come potremo», mi rassicurò, e io sfortunatamente gli credetti.





[1] Il titolo è ovviamente tratto dalla canzone “Si Deus me relinquit”, facente parte della Kuroshitsuji “Black Box”, e significa “Se Dio mi abbandona” in lingua latina.

[2] Se Dio mi abbandona, io abbandono Dio. Solo un oppresso può avere una chiave nera.
Chiudo tutte le porte, così sigillo tutte le preghiere.
Ma chi mi protegge dal terribile me stesso?


[3] La traduzione sarebbe “Buona sera, ragazza” ed è ovviamente spagnolo.

[4] La traduzione sarebbe “Scusa, ragazza, non volevo” ed è ovviamente spagnolo.







_Note conclusive (E inconcludenti) dell'autrice
Questa storia è stata scritta per il contest Titoli per l'amore: Femslash, e si è classificata sesta.
Per chi sta leggendo Under a bloody sky è inutile spiegare esattamente in che parte della storia si svolge questo spin off appena terminato. Per chi invece ha aperto questa storia solo di sfuggita ed è arrivato fin qui, lascio il caloroso invito a farlo, così da poter capire meglio questa specie di Missing Moment. Nella storia a capitoli, difatti, non verrà accennato niente di ciò che è successo in questa storia: i fatti saranno posti nudi e crudi dinnanzi ai vostri occhi, giacché ripeterlo sarebbe inutile.
Passando al contest, non avrei mai pensato che questa storiella da niente avrebbe raggiunto quel risultato, forse perché sin dal principio non mi convinceva per niente. In questo spin off, comunque, viene accennato anche qualcosa legato alla storia Na doir sìon dhomh, mo brèagha aingeal, ma sta a voi capire di che cosa si tratta con esattezza :)
Spero comunque che la storia vi sia piaciuta, o almeno vi abbia in parte interessati. Qui di seguito il commento della giudice:


SESTA CLASSIFICATA

GIUDIZIO
Correttezza grammaticale e lessico: 9/10
Il punteggio è quasi il massimo perché ci sono davvero poche imprecisioni: solo un “come se lo fosse sognato” che doveva essere “come se se lo fosse sognato” e un paio di punti in cui non hai adeguatamente separato tramite uno spazio le parole dai segni di interpunzione. C’è una frase che però non mi è chiara: “succhiando e deglutendo quel caldo liquido rosso e vischioso, godendomi i gemiti a cui le avrebbe dato vita” – “a cui le avrebbe dato vita”? C’è qualcosa che non va nella sintassi, ma lascio a te il compito di correggere perché riesco solo a intuire dove tu volessi andare a parare con questa frase.
Per il resto, la storia è piacevolissima dal punto di vista del lessico, variegato e mai pesante per un’eccessiva uniformità, anzi. Ti faccio i miei complimenti sotto questo punto di vista, perché, davvero, nonostante fossero dieci pagine non mi hai mai annoiata.

Stile: 2, 5/5
La storia è un po’ debole dal punto di vista dello stile: non perché sia spiacevole, ma perché in certi punti è pesante. Anzitutto, il gerundio: per la maggiore, i tuoi periodi consistono in “subordinata implicita al gerundio + principale + subordinata implicita al gerundio” e tutti questi gerundi dopo qualche tempo annoiano il lettore e appesantiscono la lettura. Inoltre, sei solita scrivere la “e” e la “o” dopo le virgole, cosa non errata ma di cui tu abusi fin troppo, rendendo la lettura accidentata in punti in cui invece dovrebbe essere fluida, senza la pausa rappresentata dalla virgola.

Originalità nella trattazione del titolo: 9/10
Hai nominato Dio soltanto un paio di volte, ma in questa storia si evince sicuramente con chiarezza la presenza del titolo, “Si Deus me relinquit”. Perché l’abbandono da parte di Dio sentito dalla protagonista trasuda da ogni sua riflessione e in particolare dal suo rapporto con Giselle: Dio l’ha abbandonata, allontanando la sua luce da lei, e Lewis, sprofondata nell’oscurità, rischia di non riuscire a riemergerne e trascinare con sé le persone che ama. Con questa metafora voglio mettere in evidenza la paura di Lewis di poter fare del male a Giselle che permea più o meno l’intero spin-off, nonché i riferimenti al suo passato travagliato e al suo misterioso presente.
Inoltre, il titolo non ha una presenza “pesante” nella storia, nel senso che non ritrovi ogni due righe “Dio mi ha abbandonata, quindi…”; anzi, in un certo senso sta all’intuito del lettore riconoscere che titolo e storia sono strettamente collegati e questo rende la “scoperta” del racconto ancor più gradevole.
L’unica cosa che ti ha abbassato il punteggio è l’originalità: purtroppo molto spesso, nelle storie con protagonisti i vampiri, si riscontra il binomio vampiro-abbandono della luce, ma per il resto la trattazione del titolo è ottima.

Trama (completezza della storia, realismo, capacità di incastrare gli avvenimenti...): 6, 5/10
Sfortunatamente non riesco a darti un punteggio più alto, perché la storia si intuisce da questo spin-off – non ho il tempo materiale per andare a leggere la long-fiction da te linkata – ma senza le note a fine storia non mi sarebbe stato possibile capire per bene l’intrecciarsi delle vite dei personaggi.
In particolare ha pesato la totale assenza di un qualche flash-back o comunque un espediente per raccontare come si sono conosciute Giselle e Lewis: quel che si vede in questo racconto è che Giselle dice di essere innamorata di lei, così, senza che ce ne venga spiegato il perché, se non in due righe a fine storia.
Inoltre, queste dieci pagine girano tutte attorno al mistero di St. Louis, ma la storia si conclude con un nulla di fatto, lasciando a bocca asciutta chi, come me, fa il giudice in un contest e si aspetta dalla storia la sua completezza. Un altro punto che si conclude in un nulla di fatto è l’arrabbiatura di Giselle: lei è innamorata di Lewis, okay, ma perché si è tanto arrabbiata quando lei si è rifiutata di bere il suo sangue? Dopo averla fatta infuriare a tal punto, avresti dovuto dilungarti un po’di più nella spiegazione di questa parte.
So che tu avrai da ridire dicendo che “è uno spin-off e quindi cosa ti aspetti?”, ma questo è un contest e la completezza è per me, che sono la giudice, fondamentale; per la prossima volta, ti consiglio di non presentare uno spin-off o, ancora meglio, presentalo, ma in fondo che costituisca una storia a sé senza bisogno di seconde parti o lunghe spiegazioni alla fine.

Trattazione dei personaggi: 8, 5/10
Mi piace molto il modo in cui è stata trattata Lewis, anche se il suo carattere mi sembra un po’ altalenante: da come parla di se stessa e di ciò che ha passato si evince che è una ragazza molto forte – e la sua forza proviene proprio dalle sue esperienze passate – mentre, quando si tratta di relazioni interpersonali, cede e diventa debole, perché è passato troppo tempo dall’ultima volta che ne ha avute. Da questo punto di vista è sì realistico, come personaggio, perché è ovvio che chi è abituato a sputar sangue per sopravvivere davanti a una dichiarazione possa non sapere cosa fare, ma la sua reazione, a mio parere, è un po’ troppo esagerata, in rapporto al fatto che è riuscita a uccidere il suo Creatore, per esempio. Ma per il resto è un personaggio ben fatto, ben tratteggiato, realistico nel contesto in cui lo muovi.
Giselle, vista dagli occhi di Lewis, mi è sembrata un altro personaggio ben definito, senza “stonature”, si potrebbe dire, nel senso che ciò che dice e fa è in linea con ciò che dice di lei Lewis.
La protagonista è naturalmente Lewis, ma anche gli altri comprimari – Nathan e Miguel – fanno la loro figura, in quanto grazie alle parole della vampira il lettore riesce a intuire in modo abbastanza completo il loro carattere; peccato – ribadisco – per l’assenza di una ricostruzione del passato di Giselle e Lewis – o almeno dei momenti antecedenti l’inizio dello spin-off, cioè quando loro due si rincontrano dopo tanti anni –, che sarebbe stata sicuramente utile al fine di capire meglio perché si relazionano a quel modo, come se si vedessero ogni giorno e si conoscessero da sempre, e non come le due semi-estranee che in fondo dovrebbero essere.

Totale: 35,5/45


Alla prossima ♥
_My Pride_



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