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Autore: Desastre    09/06/2011    0 recensioni
Questo non è un vero e proprio capitolo in quando "Ariel" non è un libro, ma un breve racconto che non ho ancora completato. Quando lo finirò inserirò la seconda parte sotto un altro capitolo, ma in fondo è la stessa storia, non aspettatevi chissà quanti capitoli.
Detto questo, Ariel è una bambola che prende vita quando la madre di Alice muore....
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Avevo solo cinque anni quando mia madre se ne andò. Sfortunatamente non andò via con un altro uomo, e nemmeno con qualche strana amica, e sfortunatamente neppure con qualche stupida setta religiosa. Se fosse stato così avrei potuto perdonarla, un giorno. Magari non l’avrei più rivista, ma potevo perdonarla. E invece era morta. Era volata in cielo lasciandomi sola assieme a mio padre. Per carità, adoravo mio padre, non mi ha mai fatto mancare niente, non mi aveva mai picchiata o insultata, ma non era la mamma. Non aveva il permesso di leggermi le favole la sera, e non poteva comprarmi quei bei vestitini pieni di fiocchi e brillantini. Non sapeva a memoria le canzoni dei cartoni animati che guardavo, e non era capace di cucinare la torta al cioccolato che tanto mi piaceva. Non avrebbe mai potuto sostituirla.
Poi venne l’anniversario della morte di mia madre. Era una giornata fredda e piovosa. Avevo indossato il mio abito più bello ed ero andata al cimitero tenendo la mano di mio padre. “Ciao mamma”, avevo detto con la mia voce da bimba spaventata, “mi manchi tanto. Papà non è capace di cucinarmi la torta”, qui mio padre sorrise un po’. “Potresti tornare”, continuai “potrei essere sempre buona. Non farei mai i capricci e darei tutte le mie bambole ai bambini poveri”. L’avevo detto sottovoce, ma mio padre mi aveva presa in braccio e mi aveva detto : “Non essere sciocca, Alice. Sai che la mamma non è andata via perché eri una bambina cattiva. Sei buonissima, la figlia migliore del mondo”.
Non gli avevo creduto, ero convinta che mia madre sarebbe tornata se fossi stata abbastanza buona. Quel giorno al cimitero c’erano diverse persone. Amici di mia mamma, parenti. Erano tutti lì per ricordarla. Mia madre era un’ottima persona. Era simpatica, bella, intelligente … era tutto il mio mondo, e quando era morta mi aveva lasciato un vuoto che non ero riuscita a colmare.
Quando tornai a casa, mi sedetti sul pavimento di legno della mia stanza rosa. Non era piccola, per una bambina di sei anni, e avevo ogni agio possibile, tutte cose con cui mio padre aveva cercato di rendermi di nuovo felice. Avevo sei anni, e non ero infelice. C’erano momenti di felicità assurda, come tutti i bambini dovrebbero avere per la maggior parte del tempo. Ridevo, scherzavo e quell’anno avevo anche iniziato ad andare alla scuola elementare. Ma poi tornavo a casa, la sera, lontano dai miei compagni, e mi sedevo sul pavimento a guardare il mio armadio di bambole. Erano tutte bambole vittoriane di porcellana, infilate nei loro splendidi vestitini d’epoca. Le avevamo collezionate insieme io e mia madre. Erano tutte bellissime, ma la nostra preferita era quella che avevamo chiamato Ariel, come la sirenetta, perché aveva lunghi capelli rossi fiammeggianti e un paio di occhi verdi. Ogni sera la guardavo così intensamente che avrebbe potuto prendere vita. E così fu.
Era la sera dell’anniversario della morte di mia madre, e la mia bambola Ariel aveva preso vita. Dapprima era solo un piccolo movimento degli occhi. Una vibrazione infinitesimale che era aumentata con il passare dei secondi. Poi aveva mosso una mano, e infine la piccola testa di porcellana. “Ariel!”, avevo urlato io stupita. La bambola mi aveva guardata, poi sorridendomi era andata a sedersi sul mio letto. “Ariel, tu cammini!”.
 Aveva impiegato qualche secondo prima di rispondermi, ma poi la sua voce risuono chiara come quella di un essere umano.
“Ciao, Alice”, mi aveva detto.
Ero corsa di sotto urlando “Papà, papà, Ariel cammina e parla!”, ma quando mio padre era arrivato in camera mia, aveva visto solo una bambola appoggiata al mio letto. “Ma certo che parla”, mi aveva risposto lui, prendendo in mano Ariel e muovendola parlando in falsetto.
“Non così, papà! Lo so che sei tu! Non sono mica una bambina!”, avevo replicato irritata. “Ovviamente, principessa. Vieni, andiamo a mangiare”. Avevo preso la sua mano ed ero scesa a mangiare. Mio padre aveva cucinato la pasta al pomodoro, quella che faceva lui e che piaceva tanto a mamma. Aveva anche provato a fare la torta al cioccolato, ma gli si era smontata tutta. “Dovrai insegnarmi a farla, Alice”.
“Senza la mamma non è divertente”.
“Okay, piccola”.

Tornai in camera mia dopo mangiato, e vidi Ariel appoggiata sul pavimento. Non si muoveva. “Ariel?”, avevo chiamato piano. La bambola si era mossa leggermente, poi si era rimessi in piedi con movimenti quasi meccanici.
“Tu sei viva, Ariel!”.
“Sì, Alice”.
“E’ la mamma che ti ha svegliata vero? Lo sapevo che non mi avrebbe lasciata da sola!”. Ariel aveva semplicemente sorriso, e si era di nuovo seduta sul letto.
Avevamo iniziato a parlare tutte le sere prima di andare a letto. Di giorno invece se ne stava sullo scaffale o sul letto inerme, senza vita. Non capivo come poteva essere possibile, ma avevo sei anni e credevo che mia madre mi avesse mandato un angelo custode.

Avevo compiuto sette, otto, nove anni, e via così, finchè non arrivai a sedici anni. Andavo alle superiori da due anni, quando mio padre mi propose di rivoluzionare un po’ la mia stanza, che era rimasta quasi inalterata dalla morte di mia madre. Era lei l’esperta di design. Eravamo a tavola per cena, una sera, e lui mi chiese se mi sarebbe piaciuto cambiare qualcosa nella mia stanza.
“Non la trovi … da piccoli?”, mi chiese cauto.
“E’ come l’aveva pensata la mamma”, risposi un po’ irritata. Gli ormoni adolescenziali si facevano sentire anche in una ragazza calma e posata quale ero.
“Sì, ma ora sei cresciuta. Non dico di cambiare tutto, solo qualcosa”.
“Va bene”, dissi, “Nuove coperte, le pareti di un nuovo colore … sarà … fico”.
“Giusto … sarà fico”.
Non avevamo più parlato del cambiamento, ma qualche giorno dopo mio padre era arrivato in camera mia con due lenzuoli, uno pesca e uno verde mela. “Quale ti piace di più?”. Li guardai bene. Nessuno dei due. “Nessuno dei due”.
“Oh … erano i tuoi colori preferiti da piccola”.
“Preferirei il giallo”, dissi cortesemente, ma in modo freddo e distaccato.
“Giallo”, aveva ripetuto mio padre prima di uscire. Il giorno dopo era di nuovo entrato in camera mia, questa volta con un lenzuolo giallo canarino e l’altro giallo ocra.
“Giallo ocra”, avevo detto subito senza smettere di armeggiare con il vestito di Ariel. Era ormai vecchio e consumato, e progettavo di sostituirlo con uno fatto da me.
“Non sarebbe ora che smettessi di giocare con le bambole? Potremmo metterle via, in garage”.
“No”, dissi solo seccamente.
“Ma non le buttiamo, le mettiamo solo giù … sai per cambiare”.
“No”, avevo ripetuto e lui se n’era andato. In tutti quegli anni non avevo mai smesso di parlare con Ariel, e mio padre lo sapeva. Aveva contattato diversi psicologi, man mano che crescevo e quella fissazione non finiva. All’età di undici anni avevo già visto cinque psicologi diversi, e con nessuno avevo parlato. Avevo semplicemente mantenuto il mio dignitoso silenzio.
“Ariel, tu non te ne andrai mai, vero?”, avevo chiesto alla bambola, un giorno. “No, finchè tu mi vorrai sarò qui”, aveva allora risposto lei.
  
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