Dal tramonto fino all’alba
Titolo: Dal tramonto fino all’alba
Autore: MusaTalia
Genere: Romantico, Malinconico (a tratti)
Rating: Verde
Avvertimenti: Missing Moments- se così si vuole vedere…
Note: Solitamente lo spazio delle note è dedicato ai miei infiniti e deliranti scleri di fine stesura. Tuttavia, trattandosi di un contesto più serio, ho pensato fosse meglio trattenermi. I colori, richiesti dal tema, sono le varie tonalità assunte dal cielo nell’arco di una giornata, o forse è meglio dire di una nottata, che riflettono i pensieri ed i sentimenti dei personaggi. All’interno dei capitoli ci sono tanti piccoli riferimenti alla mitologia greca, che è stata il mio punto di partenza. I titoli di ogni capitolo, infatti, richiamano il nome di alcune divinità greche, tutte protolimpiche. Inizialmente doveva essere una one-shot, ma arrivata alla quinta pagina ho capito che era cosa buona e giusta dividere il tutto in tre parti; e più precisamente due capitoli piuttosto brevi più l’epilogo. Il vero centro comunque è la parte 2. La storia è ambientata dopo il ritorno da Ishval e poco prima della visita agli Elric. Siamo perciò nel 1909, Riza dunque dovrebbe avere 18-19 anni, mentre Roy 23-24, se non erro. Di solito sono una “dilungatrice molesta”, ma credo mi fermerò qui.
Parte 1
Ἑσπέρα καί Νύξ (Espèra cài Nùx: Sera e Notte)
Rosso, viola e nero: le sfumature della violenza.
“Le ciel est triste et beau comme
un grand reposoir/ le soleil s’est noyé dans son sang qui se fige.” (Il cielo è
triste e bello come un grande repositorio/ il sole s’è affogato nel suo sangue
coagulato), Charles Baudelire, Les fleurs du mal, XLVII Harmonie du soir.
“Rosso di sera, bel tempo si spera”.
Così avrebbe sicuramente detto un’anziana signora,
impegnata a chiacchierare con le vicine, seduta fuori dalla porta di casa in un
piccolo paesotto di campagna, dopo aver alzato gli occhi al cielo ed aver
sospirato.
Ma indubbiamente il Tenente Colonnello Roy Mustang
di East City non era un’anziana signora che passava il suo tempo a ricordare i
bei tempi passati, e men che meno in quel momento si trovava in un insulso
paese ai piedi di una qualche collina.
Era nel suo ufficio, seduto sulla sua poltrona, con
la schiena rivolta verso la porta socchiusa e lo sguardo puntato su quel cielo
tinto di un intenso vermiglio, quasi inverosimile.
Sospirò.
Era il finire dell’estate. Settembre era arrivato
già da un pezzo, portando con sé giorni sempre più brevi. Il sole, infatti, era
appena tramontato, lasciando nel cielo gli ultimi bagliori infuocati.
Qualcuno bussò alla porta, ma non aspettò una voce
d’assenso che gli desse il permesso di entrare.
«Tenente Colonnello, noi abbiamo finito di là,
quindi con il suo permesso…».
«Sì, sì. Andate pure a casa» rispose, sempre con
gli occhi incollati al cielo.
«Buona serata, Tenente Colonnello».
«Anche a te, Havoc».
Sentì la porta alle sue spalle richiudersi e solo
allora si voltò, distogliendo lo sguardo dalla finestra. Avrebbe dovuto firmare
dei documenti e poi, anche lui, sarebbe potuto tornare a casa. Annoiato, piantò
un gomito sul tavolo per sostenere la testa diventata pesante e prese la
stilografica, abbandonata precedentemente senza tappo vicino alle pratiche.
Quella non era stata una mossa poi tanto astuta, perché, com’era da aspettarsi,
l’inchiostro si era seccato. Quindi, svogliato, si alzò dal suo posto per
andare nella stanza attigua dove lavorava il suo staff e recuperare una penna
con cui vidimare le ultime scartoffie.
Lo sorprese non poco ritrovarsi davanti al
Sottotenente Riza Hawkeye, intenta ad impilare dei fogli.
«Credevo fossi tornata a casa» disse avvicinandosi
alla scrivania di Breda per sgraffignargli la penna.
«Avevo gli ultimi documenti da controllare» rispose
con semplicità mentre infilava i fogli in una cartellina.
«Havoc mi aveva detto che avevate finito. Mi ha
mentito».
«Gli ho detto io di farlo» replicò candidamente
mentre controllava che tutti i fogli di un’altra tornata di incartamenti
fossero stati vidimati correttamente.
«E perché, scusa?».
«Visto che ha la penna in mano firmi qui. Prima le
deve essere sfuggito». E gli allungò un foglio che lui nemmeno lesse. Poteva
essere una dichiarazione di guerra come l’elenco telefonico. «E comunque perché
sembra si stia preparando un bell’acquazzone. Non è piacevole dover correre a
casa sotto la pioggia». Gli prese il foglio di mano e lo archiviò in un’altra
cartellina.
«E tu? Non ti preoccupa il dover tornare sotto la
pioggia?».
«Due gocce non hanno mai ucciso nessuno».
«Ma guarda che scansafatiche! Domani, Sottotenente,
li punirò a dovere. Lasciare tutto il lavoro ad una fanciulla per scappare a
casa, spaventati da una presunta pioggia».
Lei lo squadrò da capo a piedi ed assottigliò lo
sguardo. «Piuttosto, signore, lei perché non fa il bravo e torna di là dai suoi
documenti mentre io qui finisco di sistemare?».
Senza farselo ripetere due volte fece dietrofront,
con la penna presa in prestito a Breda, e ritornò nel suo studio.
Dieci minuti dopo il Sottotenente Hawkeye lo
raggiunse. «Ancora lì?» domandò con una punta di esasperazione.
«Ehi! Non siamo tutti macchine da burocrazia come
te!». Fu la sua risposta indignata.
Il Tenente Colonnello si aspettava una replica
piccata, ma non arrivò niente, questo perché Riza era stata catturata dai
colori del crepuscolo, che da rosso intenso stavano tendendo ad un violaceo per
nulla rassicurante.
«Anche nel deserto il tramonto aveva questi colori.
Ironico, no? Il cielo colorato delle stesse tinte del sangue e dei lividi, come
se avessimo ferito anche lui, oltre a tutti quei civili». Stupefatto Roy sgranò
gli occhi davanti a quel pensiero espresso ad alta voce, ma Riza non se ne
accorse, perché aveva chiuso gli occhi per pochi secondi, per poi sospirare.
Quando li riaprì, il suo superiore era davanti a
lei, con la penna a mezz’aria, a fissare un punto imprecisato nel vuoto.
«Tenente Colonnello, per favore, può firmare quei
benedetti documenti, così posso archiviarli una volta per tutte?». Alzò gli
occhi al cielo, in chiaro segno di esasperazione.
«Certo». E con uno scarabocchio svolazzante firmò
anche l’ultimo foglio, subito finito tra le mani del Sottotenente che se ne
tornò nell’altra stanza.
Erano passati giusto alcuni mesi da quando erano
entrambi tornati da Ishval, quel luogo infernale in cui ogni giorno era uguale
al precedente e durava in eterno. Il sole che tramontava, inondando il cielo di
rosso, non era il simbolo che preannunciava l’arrivo della quiete, che
solitamente scende con la notte. Quando il sole calava e spariva dietro
l’orizzonte, lasciando una traccia fugace dietro di sé, ecco che allora si
facevano strada i timori più grandi, si allungavano, come le ombre in quel
campo di battaglia.
Ed il rosso della sera non era annunciatore di
pioggia, questo perché non piove nel deserto. La sabbia è arida e non c’è acqua
che possa irrigarla. Semmai, sangue.
Roy Mustang prese, allora, il cappotto, pronto ad
uscire.
Ripensandoci, era proprio al tramonto di uno di
quegli infinti, estenuanti giorni passati sul campo di battaglia, che aveva
incontrato la piccola Riza. Ma quale piccola? Gli era bastato uno sguardo per
capire che rimaneva ben poco della Riza Hawkeye che aveva conosciuto. Ed in
cuor suo era più che sicuro che la colpa non fosse imputabile del tutto alla
guerra.
Quando uscì dal suo ufficio, il Sottotenente
Hawkeye era a sua volta già andata via e la sera era calata definitivamente. Il
cielo ora era scuro, carico di pioggia. Fortunatamente quella mattina aveva
anche preso l’ombrello per prudenza, ed ora l’aveva appeso al braccio.
Ritrovò la sua subordinata fuori dal Quartier
Generale, in piedi, sul marciapiede.
«Ti serve un passaggio a casa?» le domandò.
Riza allora si scosse, interrotta nei suoi
pensieri. «No, grazie. Faccio volentieri due passi a piedi».
«Ma sta per mettersi a piovere…».
Non fece in tempo a terminare la frase che un
grosso gocciolone gli cadde in testa. Aprì dunque l’ombrello e si spostò un po’
più vicino alla ragazza, per coprire anche lei.
Ma lei si scansò, finendo sotto lo scroscio della
prima pioggia da quando erano tornati dall’inferno del deserto.
Riza alzò il volto al cielo. Sembrava quasi che
stesse assaporando quelle gocce di pioggia. Un sorriso, uno vero, non finto, si
dipinse sul suo volto. E Roy era più che convinto che, se non fosse stato per
il rigido autocontrollo che lei s’imponeva, probabilmente avrebbe anche aperto
le braccia e si sarebbe messa a girare su se stessa per accogliere meglio tutta
quell’acqua, che l’aveva già inzuppata completamente.
«Mi è mancata così tanto…» disse passandosi le mani
tra i capelli bagnati che le si stavano appiccicando sulla fronte. Ora più che
mai sembrava una ragazzina. «A lei no?».
In realtà lui avrebbe risposto un secco
«Assolutamente no!». Roy Mustang, l’Alchimista di Fuoco, non sopportava la
pioggia, così umida, così bagnata… Perché lo rendeva assolutamente… inutile.
Sì, inutile. Però, a vedere Riza così serena sotto quell’acquazzone, ma
soprattutto così bella, non poté non chiudere l’ombrello ed alzare anche lui il
volto al cielo. La prima goccia cadde proprio sullo zigomo destro, sotto
l’occhio, e poi scivolò giù.
Una, due, tre, cinque, dieci, cento gocce, fino a
perdere il conto. In poco anche lui si ritrovò bagnato fino al midollo,
leggermente infreddolito, ma in pace. Aprì la bocca e tirò fuori la lingua per
raccogliere alcune gocce. La pioggia non ha sapore, sa semplicemente di fresco,
di pulito, di nuovo.
Si avvicinò a Riza, gomito a gomito. «Anche a me»
rispose finalmente, guardandola negli occhi per poi scoppiare a ridere. Lei
cercò inizialmente di trattenersi, ma cedette all’ilarità del momento
praticamente subito.
Prima un lampo squarciò quella distesa di viola
carico, poi un tuono, forte, vicino mise fine alle risate.
Entrambi sobbalzarono e si guardarono negli occhi.
Un altro lampo ed un tuono ancora più vicino.
«Vieni!» le disse Roy, prendendola per il polso e
trascinandola lungo la via.
L’ombrello rimase abbandonato sul marciapiede.
Arrivarono alla macchina del Tenente Colonnello,
che infilò una mano in tasca alla disperata ricerca delle chiavi per aprire la
portiera. Intanto il cielo tuonava in tono basso e imperioso. Quando finalmente
trovò la chiave si esibì in un rapido gesto di vittoria.
Salirono, Roy al posto di guida e Riza sul sedile
del passeggero.
Dopo essersi tolto la giacca della divisa ed averla
lanciata sui sedili posteriori, e dopo essersi sfregato le mani tra i capelli
grondanti, si rivolse a Riza, rompendo quel momentaneo silenzio. «Accidenti
quanta acqua! Ti dispiace se aspetto che spiova almeno un po’ prima di
accompagnarti a casa? Non mi fido di guidare sotto questo diluvio».
«No, anzi». Non riuscì a formulare una risposta poi
tanto articolata visto e considerato il fisico in bella mostra del suo
superiore. La camicia bagnata, infatti, si era appiccicata completamente agli
addominali ed ai pettorali scolpiti di Roy. Riza distolse lo sguardo e tornò a
fissare il temporale che si era scatenato.
«In realtà» ammise sempre mentre guardava fuori «la
stavo aspettando».
«Che cosa?».
«La pioggia! Ho mandato via gli altri e sono
rimasta in ufficio in più apposta. Era come se mi fosse rimasta addosso della
sabbia di Ishval, che solo questa pioggia è riuscita a togliermi di dosso.
Tutte le mie colpe rimarranno, ma ora posso andare avanti con più serenità».
Roy distolse lo sguardo dalla figura di Riza e
rimase in silenzio, non sapendo -una delle rarissime volte nella sua vita -cosa
rispondere.
«Lo sa, mia madre diceva che quando piove, in
realtà sono gli angeli che piangono perché abbiamo compiuto azioni che li
rendono tristi. È una delle poche cose che ricordo di lei».
Il Tenente Colonnello si voltò a guardarla ed
incontrò i suoi grandi occhi ambrati, tranquilli.
Quando era apprendista, in casa Hawkeye,
l’argomento Mrs Hawkeye era tabù. Non si poteva nominare, citare, ricordare e
soprattutto pensare. Quel poco che sapeva l’aveva praticamente strappato di
bocca a Riza, prendendola in contropiede- e di questo non ne andava per niente
fiero.
Ed ora lei aveva parlato di sua madre, portando a
galla uno dei suoi preziosissimi quanto rari ricordi che aveva di lei, con una naturalezza
che quasi non le apparteneva.
«Quindi tu pensi che gli angeli stiano piangendo
per ciò che abbiamo fatto ad Ishval?». Stupida, davvero una domanda stupida. E
mentre le sue labbra si muovevano per formularla inconsapevolmente aveva
riportato lo sguardo sul parabrezza, tempestato da migliaia di gocce. Ora il
cielo era diventato completamente nero, il colore del lutto.
«Più che per quello che abbiamo fatto, è a causa di
ciò che non abbiamo fatto che piangono».
«Ciò che non abbiamo fatto?». Proprio non capiva.
Quel discorso era così assurdo, ed ancora più assurdo era il fatto che fosse
una persona come Riza ad affrontarlo, con una disinvoltura che aveva dello
sconvolgente. Roy Mustang si sentiva confuso, ma non in senso negativo, tanto
meno in senso positivo; semplicemente si sentiva confuso.
«Non abbiamo combattuto per difendere gli ideali in
cui credevamo. Abbiamo lasciato che fossero altri a dirci cos’era giusto e cosa
sbagliato. E poi, il suo sogno. Lo abbiamo abbandonato, agonizzante. Lo abbiamo
quasi ucciso, come tutte quelle persone».
«Hai ragione. Però adesso lo abbiamo salvato.
Possiamo ricominciare daccapo».
Lei annuì, accennando anche un lieve sorriso. «E
comunque sia, giusto per chiarire, so perfettamente che se piove è perché del
vapore acqueo raggiunge la saturazione e poi condensa».
Eccolo spuntare fuori! Eccolo, il lato pragmatico
del Sottotenente Riza Hawkeye! C’era però da dire che a Roy non era affatto
dispiaciuto quello emotivo, che aveva fatto la sua fugace apparizione. Forse avrebbe
dovuto aspettare la prossima pioggia per poterlo rivedere e gustarselo senza
l’intralcio della sorpresa.
Nel frattempo il cielo si era placato. Nessun
fulmine, nessun tuono invadeva più il suo spazio. E tutta l’acqua ora si era
rovesciata sul suolo.
Tuttavia la notte rimaneva scura, nera e spessa.
S’intravedevano poche stelle a causa delle pesanti nuvole, ancora più scure,
nere e spesse della notte stessa.
La portiera del passeggero si aprì e Riza uscì
all’aria aperta.
«Cosa fai?» le domandò Roy, allungandosi per impedirle
di chiudergli la portiera in faccia.
«Torno a casa».
Roy alzò le sopracciglia. In quel momento proprio
non riusciva a capire quella donna e la cosa lo metteva a disagio, perché, nel
bene o nel male, lui riusciva sempre ad intuire cosa Riza stava per dire, fare
o addirittura pensare. Tra loro due c’era, anzi, c’era sempre stata un’intesa
davvero invidiabile. Eppure in quel momento… Forse tutta quella pioggia gli
aveva annacquato il cervello. O forse l’aveva annacquato ad entrambi.
«Ti accompagno io. Sei tutta bagnata e poi è
notte…».
«Sta forse insinuando che non sono in grado di
difendermi? E comunque, grazie per l’offerta, ma faccio volentieri due passi a
piedi». Chiuse la portiera e girò intorno all’automobile. Si affiancò al finestrino
del suo superiore e, dopo un impeccabile saluto militare, gli augurò la buona
notte, prima di avviarsi a passo spedito lungo la via, lasciando il Tenente
Colonnello impalato al posto di guida con le mani sul volante.
Dio, il vero temporale si stava abbattendo ora,
dentro al petto di uno stordito Roy.
Ma come faceva Riza ad essere così… in quel momento
nessun aggettivo adatto gli veniva in mente.
Intano lei aveva già percorso alcune centinaia di
metri e stava per svoltare l’angolo, quando si trovò al suo fianco l’auto del
Tenente Colonnello, che procedeva a passo d’uomo e con il finestrino abbassato.
«Ma casa tua non si trova dall’altra parte?» le
chiese Roy con parte del braccio e la testa completamente fuori dal finestrino.
«Mi sta pedinando?» replicò, sempre continuando a
camminare.
«Mi preoccupo per te! Rischi di prenderti un bel
raffreddore se non ti cambi subito quegli abiti bagnati!».
«Pensi a se stesso, Tenente Colonnello! Io non sono
così deboluccia come crede». C’era un certo tono di sfida nella voce, come se
stesse prendendo la faccenda sul personale.
«Puoi salire, per favore? Ti porto io a casa».
«Non serve, grazie».
«Sali! È un ordine».
Riza si arrestò. Lo squadrò con sguardo assassino.
«Siamo entrambi fuori servizio». E riprese a camminare, ancora più veloce di
prima.
Di fronte alle reazione della sua subordinata, Roy
mollò il piede dalla frizione, facendo di conseguenza morire la macchina. Mai
lei si era rifiutata di eseguire un ordine. Magari aveva contestato, oppure gli
aveva consigliato un modo diverso di agire, ma mai si era comportata così.
Lui tentò un paio di volte di rimettere in moto, ma
niente. Ora anche la macchina, non più solo il suo Sottotenente, lo aveva
abbandonato. Allora scese e prese a chiamarla a gran voce, mentre si metteva a
correre per raggiungerla.
Dovette afferrarle un braccio e trascinarla
praticamente giù per fermarla.
«Può smetterla di urlare in questo modo? È notte.
Le persone dormono a quest’ora! E inoltre le sarei grata se lasciasse andare il
mio braccio».
«Prima dimmi dove stai andando».
«Faccio una passeggiata».
«A quest’ora?».
«Il galateo prescrive ora determinate in cui andare
a fare una passeggiata?».
«No. Ma…».
«No. Appunto».
«Allora vengo con te».
E solo allora lasciò andare il braccio, incatenando
il suo sguardo in quello di Riza, che, diversamente dal solito non riuscì a
reggere. Abbassò il volto ed acconsentì con un «Va bene» appena mormorato.
Lui voleva tanto chiederle il motivo di quello
strano comportamento, ma temeva di scatenare una tempesta dalla quale le
probabilità di uscirne incolumi erano praticamente nulle. Si trattava pur
sempre di Riza Hawkeye!
Così semplicemente camminò al suo fianco,
rivolgendole la parola solo per invitarla a rallentare il passo- in fondo era
pur sempre una passeggiata!
Quel nero profondo in cui erano immersi era di
tanto in tanto intervallato da lampioni o dalle luci ancora accese in alcune
case.
«Chissà cosa stanno facendo?» si domandò Roy a voce
alta, con una punta d’invidia, perché lui avrebbe tanto voluto trovarsi al
caldo delle sue mura domestiche. Però era anche vero che non riusciva, o
meglio, non voleva allontanarsi dal suo Sottotenente.
«Molti staranno dormendo, alcuni magari sognano».
«Ci pensi mai che tutte queste case, ma soprattutto
tutte le persone che ci vivono hanno una storia da raccontare?». Non poté non
fermarsi un secondo davanti ad una finestra illuminata, da cui s’intravedevano
due ombre, presumibilmente di due innamorati, impegnati a discutere.
«Io penso che se noi ci mettessimo a raccontare le
nostre, la maggior parte della gente scapperebbe a gambe levate».
«Probabilmente hai ragione».
Ed entrambi, dopo essersi sorrisi malinconicamente,
ripresero a camminare lungo le vie silenziose della città.
Note:
BUON ROYAI DAY A TUTTI!
Ok. Eccomi qui con qualcosa di speciale per il RoyAi Day, come avevo
già accennato nei 100 RoyAi themes. Quale modo migliore di
festeggiare se non con una bella fanfiction! Era da parecchio tempo che
non mi cimentavo con una long, anche se io continuo a vedere questa mia
creatura più come una lunga one-shot divisa in tre pezzi.
Questo, che è anche il pezzo più lungo, è il
preludio, in cui ho deciso di concentrare tutte le riflessioni tristi.
Questo perché i colori scelti, quantomeno nero e viola,
solitamente sono legati al lutto. Ma come si evince dal sottotitolo,
non solo lutto, ma anche violenza e sangue. Tra le tre parti questa
è quella più strettamente legata ad Ishval, tassello
indispensabile, quando si parla di Riza e Roy. In realtà non mi
sento di aggiungere nulla per il momento. Lascio le considerazione al
prossimo capitolo, in cui si assisterà ad un radicale cambio di
tono... ma non mi sbottono oltre. Tra cinque giorni potrete leggere...