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Autore: Elos    12/06/2011    3 recensioni
Ad Ishbar c'è una città perduta da ricostruire, ad Amestris infinite ferite ancora aperte da far cicatrizzare. Sulla cima di una collina c'è una casa che nasconde un segreto. A Resembool, il viaggio ha inizio.
Nata per il "Don't Forget" [FullMetal Alchemist Contest] indetto da En~Dark~Ciel.
Genere: Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Edward Elric, Kain Fury, May Chang, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Come un setaccio




.Amestris



Le strade di Amestris, sotto il sole del primo autunno, prendevano una sfumatura gentile da oro chiaro. Lungo il Viale Grande gli olmi schierati in lunghe file avevano foglie brune e croccanti come la crosta di una torta di mele; il grazioso quartiere residenziale sfoggiava in ogni giardino grossi vasi di ciclamini dall'aspetto arrogante, il loro violetto sgargiante a contrastare con le aiuole piene di pallidi crisantemi e delle bucce ispide e morte delle castagne.
A Kain Fury l'autunno piaceva. Sua madre era morta proprio in quel periodo, anni prima, circondata dai fitti vigneti della sua casa di campagna, tanto appesantiti dai grappoli rigonfi, lucidi e sazi di pioggia, da avere i rami piegati verso terra: e gli aveva lasciato il gusto delle cose quiete e malinconiche, raccogliere foglie secche da conservare nei libri, collezionare oggetti troppo vecchi per avere ancora uno scopo, pipe rotte e giocattoli di latta e scatole di metallo dai disegni consunti, aggiustare grammofoni, macchine, radio. Riparare le cose era ridare alle cose una vita: teneva le mani nelle viscere degli oggetti e si sentiva un po' dottore, Kain Fury, un po' sacerdote.
Era il suo dono. Era diventato sergente maggiore anche per questo: qualcuno gli aveva visto riparare un'antenna, una volta, e gli aveva detto bravo, figliolo, ma per farlo di mestiere hai bisogno di un laboratorio, e i soldi per affittarne uno non ce li hai; vai a fare il soldato, vedrai che lì un posto per lavorare con cavi e bulloni te lo trovano.
Il sergente maggiore Kain Fury era stato un soldato silenzioso, pacifico e discreto. D'animo troppo buono per la prima linea, gli era stato dato un modo per poter essere utile anche nelle retrovie. Aveva visto la guerra da vicino solo due volte, e in nessuna delle due occasioni gli era piaciuta: il sangue, i corpi aperti, quelle erano tutte cose che non poteva riparare. Non c'era modo per ridare una vita ai morti. Neanche gli Elric potevano farlo, quello.
Il sergente maggiore Kain Fury era stato - era - molto orgoglioso di quello che come soldato aveva fatto. Non gli importava che nessuno lo sapesse, che nessuno l'avrebbe mai saputo. Non gli importava che quei pochi che sapessero sembrassero aver dimenticato. Importava solo averlo fatto; perché, così, qualcun altro ora poteva avere il sole d'autunno, gli olmi schierati e i ciclamini, i crisantemi, le castagne. Qualcun altro poteva vivere e far crescere le viti in un mondo dove la guerra era finita.
Fuori dal Viale Grande le case sembravano meno dorate e un po' più brune. C'erano muri un po' più sporchi e strade un po' più strette. Le finestre erano un po' più piccole e la gente un po' più povera ma, tutto sommato, Amestris era bella anche lì, era bella anche per questo. Nei giardini si facevano crescere filari di pomodori e di piselli invece che aiuole di fiori, e si tirava avanti con i panni stesi davanti alla porta di casa.
Il sergente Fury si fermò nel primo negozio aperto a comprare pane, latte, mele, due fette di carne di vitello - sua sorella gli aveva spiegato che era un tipo di carne leggera ma nutriente, la migliore da comprare - e una scatola di biscotti. Pagò ed uscì; poi, colto da un ripensamento, tornò dentro e comprò qualcos'altro. Se ne dimenticava tutte le volte.
Fuori dal negozio si era radunato a chiacchierare un capannello di donne. Una delle più giovani aveva gli occhi rossi, il viso magro; un'altra le teneva un braccio attorno alla spalla e cercava di farle forza.
- Avanti, Layla. Non è la fine del mondo, davvero. Adesso ti sembra che sia così, ma poi lo supererai. - stava dicendo. - Andrai avanti. Tutto lo fa, sempre. -
La donna più giovane scuoteva la testa senza dire niente. A Fury sembrò di riconoscerla: ci mise un po' per ricordare dove l'aveva vista e, quando l'ebbe ricordato, desiderò quasi di non esserci riuscito. Era stata presente anche lei alle esecuzioni. Chissà chi era andata a guardare morire, un fidanzato, un fratello, un padre...? O uno di quelli che pensava l'avessero ucciso?
Le esecuzioni avevano segnato la fine della guerra, e non erano state tante quante avrebbero potuto essere; ma erano state tante lo stesso, ed ognuna di esse era ancora come una ferita aperta nel sergente Fury. Avrebbe potuto esserci anche lui, sul palco con le forche, e invece non c'era stato: qualcun altro s'era fatto carico delle forche al posto suo, al posto di tutti loro, aveva cercato di prenderne su di sé quante più poteva. Non era riuscito a salvarli tutti, ma molti sì.
Non aveva salvato il maggiore Armstrong, né sua sorella. Non aveva salvato quasi nessuno tra gli Alchimisti scampati ad Ishbar, tutti impiccati. Non aveva salvato i soldati che avevano aperto il fuoco sulla popolazione in rivolta, quell'estate, per spegnere nel sangue la Grande Sedizione, né quelli che avevano difeso fino all'ultimo le postazioni del Comandante Supremo King Bradley, prima che questi scomparisse e che tutte le postazioni cadessero.
Aveva salvato loro, però. Breda e Hawkeye e Fury, Falman e Havoc.
Sotto le forche, alla fine della guerra, Kain Fury c'era andato per guardare l'ultimo Comandante Supremo di Amestris, Roy Mustang, il giorno della sua esecuzione.

Due isolati più in là, il quartiere era ancora meno luminoso, ancora meno ampio. Le case erano più alte e il sole sembrava farsi largo a fatica tra gli edifici.
Entrò in un palazzo che una volta doveva essere stato color crema, prima che l'intonaco cominciasse a cedere e rivelasse in ampie crepe gli strati di calce sottostanti, e salì due rampe di scale prima di fermarsi di fronte ad una piccola porta. La lampada sul pianerottolo aveva il bulbo fulminato; qualcuno aveva scarabocchiato sulla parete di sinistra il suo imperituro amore ad una certa Nancy, usando un pennarello nero.
Bussò due volte e attese. Dopo un attimo di silenzio sentì il lieve suono metallico di uno spioncino che si apriva, tanto fievole che non sarebbe riuscito ad udirlo, probabilmente, se non fosse stato consapevole di doverlo aspettare.
La porta si schiuse subito dopo.
- Signorina Riza. - salutò Fury subito, inchinandosi come sua madre gli aveva insegnato, davanti a tutte le signore, sempre, perché l'educazione veniva prima di qualunque altra cosa. - Le ho portato la spesa. -
Riza Hawkeye gli rivolse un sorriso gentile che era una versione nuova del suo vecchio sorriso. Aveva sempre avuto un sorriso molto gentile, il tenente Hawkeye, ma questo sorriso, questo qui, non era sporcato da niente. Era un po' triste, era un po' stanco, e non sempre arrivava agli occhi, ma era pulitissimo. Limpidissimo, come oro alchemico. Era valsa la pena di vincere la guerra, pensava Fury certe volte, e di sopravvivere alle forche, anche solo per quel sorriso. Lei portava i capelli raccolti in un nodo d'oro sulla nuca ed un vestito di cotone grigio-verde.
Dalla porta socchiusa fece capolino il muso di Hayate, la lingua penzoloni e la coda scodinzolante in un parossismo di entusiasmo. Fury si chinò per accarezzarlo, felice, e Riza aprì la porta per permettergli di entrare.
Da una stanza all'interno della casa si levò acuto il pianto di un bambino. Il sergente Fury alzò lo sguardo per osservare Riza Hawkeye e scoprì che la donna stava ancora sorridendo, e questa volta il sorriso agli occhi c'era arrivato, e li stava illuminando.
- Dev'essere ora di cambiarlo. - disse lei.
Fury si raddrizzò e le porse il cesto della spesa.
- Be', signorina Riza... - esclamò, una punta d'orgoglio nella voce solitamente timida. - … oggi me li sono ricordati i pannolini, sissignora! -





.Ishbar



Certe volte, guardando uno specchio, le capitava di pensare che gli dei fossero dotati di una qualche specie di contorto, spietato, sadico umorismo. Certe volte rideva, invece, e il suo viso sembrava tornare come nuovo. Certe volte aggrottava la fronte e vedeva un po' di lui dentro di sé. Certe volte era malinconica e assorta: e pensava ad un braccio d'acciaio, ad una gamba d'acciaio, a come il mondo avesse deciso di darli a qualcuno che ne aveva bisogno, sicuro, perché questo qualcuno era stato un bambino, fragile e giovane e delicato, e avere una mano d'acciaio l'aveva aiutato a reggere il peso di tutto.
Il suo viso, pensava May queste volte, il suo viso era una mano d'acciaio.
Dall'altra parte delle montagne giungevano storie, voci e racconti su di un giovane imperatore di Xing che non conosceva la paura né la stanchezza, che aveva artigli come le aquile e un guscio come quello di una testuggine, che aveva conquistato il trono con la forza ed abolito la tradizione delle cinquanta spose.
C'era solo una sposa, adesso – e una mano d'acciaio ce l'aveva anche lei.
Da questa parte delle montagne le cose andavano avanti sotto al sole impietoso del deserto; ma c'era sempre un rabdomante fortunato che riusciva a trovare sorgenti e pozze in mezzo alle rocce e tra la sabbia, e così si costruivano pozzi, fonti, e poi cisterne per conservare l'acqua nei mesi più aridi, granai per il riso e per quella mistura di granaglie che - avevano scoperto - aveva bisogno di essere irrorata molto meno di frequente rispetto al grano vero o all'orzo, magazzini per le merci in scatola che viaggiavano sui percorsi delle carovane.
In piedi su una roccia piatta che dava sulla valle pietrosa, May si passò una manica sul viso per asciugare il sudore: sentì al tatto la pelle rugosa della cicatrice, sulla fronte e sulla guancia, e ripensò al giorno in cui il grasso homunculus dagli occhi piccoli, vuoti, spaventosi, le aveva fatto fiorire la faccia con un'esplosione di dolore e sangue che quasi l'aveva lasciata cieca – che quasi l'aveva lasciata morta. Le era andata bene, pensava. Era sopravvissuta: non importava se la sua faccia non era più bella come avrebbe potuto essere, bella come quella della principessa sua madre, lei era sopravvissuta. Aveva altri giorni di sole, davanti a sé, altri posti da vedere, da visitare, altri viaggi da intraprendere.
Dalla sacca che portava appesa alla spalla sinistra fece capolino Xiaomei; lei sistemò meglio la cinghia per fare in modo che non le premesse sul seno, controllò che la borraccia legata alla cintura fosse pesante e ben chiusa, e alzò una mano per salutare qualcuno a valle.
In fondo al sentiero un uomo con il viso e le braccia tatuate ricambiò rigidamente il saluto: ma May pensò che dietro a tutta quella rigidezza c'era qualcuno a cui piaceva pensarsi isolato come un'aquila, e che malgrado questo era uscito dalla città in costruzione, aveva abbandonato gli edifici e i lavori in corso solo per venire a salutarla. A salutare lei. Lei. Era un pensiero che, certe volte, le faceva girare la testa.
Avevano una cicatrice tutti e due, tutti e due sulla faccia. Tutti e due segnati. Tutti e due avevano combattuto a lungo, tutti e due costruivano, adesso, vivevano.
Vivere era meraviglioso, pensava May. La città che nasceva era meravigliosa. Lui affondava le mani nel terreno e tirava fuori case e mura e negozi: inginocchiato sulla terra arida del deserto, la fronte corrugata per la pensosa concentrazione e gli occhi visibili dietro alle lenti trasparenti chiuse in una montatura ovale, un po' goffa sul suo viso dai lineamenti forti, che lui si era fabbricato da sé. Le braccia tatuate, dalle nocche alle spalle, con draghi e glifi e cerchi alchemici che smuovevano la terra e la plasmavano in una nuova forma. Era questa l'immagine che May si portava dietro, sempre, ogni volta che era in partenza. Era l'immagine che la spingeva a tornare.
Buon viaggio, diceva la mano levata di Scar.
Nel sole vivo della sabbia e dei cantieri ancora aperti della nuova Ishbar, in una terra senz'acqua e senza verde, ma così disperatamente, ferocemente, luminosamente bella, torno presto, diceva in risposta la mano di May, prima che presto.





.altrove



C'era una piccola casa arroccata su una collina molto verde, in un qualche posto veramente lontano da Amestris.
Questa piccola casa aveva un caminetto spesso accesso, perché i proprietari erano anziani e soffrivano il freddo, i venti gelidi dell'inverno, gli spifferi; e aveva due porte: la porta padronale e la porta della cucina. La porta della cucina era lasciata sempre aperta: non c'era nulla da rubare, in casa, e tutti lo sapevano. I pochi visitatori che non si lasciavano scoraggiare da tutta la strada in salita che separava la casa sulla cima della collina dal villaggio più vicino... be', erano i benvenuti a qualunque ora lo volessero.
La piccola casa aveva piccole stanze e grandi finestre. Piccole tende, piccoli mobili. C'era un piccolo giardino, sulla parte anteriore, esposto precisamente ad est: il sole che lo colpiva al mattino si faceva largo attraverso aiuole piene di modesti gerani e ranuncoli. C'era anche un piccolo orto - questo sul retro - dove qualcuno aveva piantato cavoli, cipolle e patate, che erano cose che crescevano anche se nessuno stava lì a curarle: gli anziani proprietari della piccola casa avevano acciacchi e malanni, e zappare la terra era un lavoro pesante.
Sul davanti della piccola casa c'era una piccola veranda: attorcigliati alle colonnine di legno che reggevano il tetto spiovente crescevano rami di rampicanti selvatici.
Nella veranda della piccola casa un vecchio signore sedeva su una sedia a rotelle dall'aspetto antiquato. Aveva i capelli un po' grigi e un po' neri; le rughe si mescolavano alle cicatrici sulla sua faccia squadrata, e portava un occhio coperto da una benda scura: ma sorrideva e sembrava contento, in quella bella mattinata d'autunno, dove il sole faceva di rame le foglie secche e d'oro i prati, la veranda, le pareti della casa. Sua moglie era china su di lui e respirava con stanchezza, serenamente.
I proprietari della piccola casa erano entrambi molto vecchi. Erano entrambi molto felici.
La porta della cucina si aprì e, annunciata dallo scampanellare del pendaglio appeso proprio sopra allo stipite, una voce allegra di ragazzo si fece sentire:
- Papà! Mamma! Sono tornato! -
La vecchia signora lasciò il marito sulla veranda e rientrò in casa, andando incontro alla voce di ragazzo.
Il Comandante Supremo King Bradley non sembrò preoccuparsene: si sistemò meglio sulla carrozzina, intrecciò le mani sulle gambe indebolite e chiuse l'occhio che gli restava. Era proprio una bella mattinata d'autunno quella, e l'inverno sembrava ancora molto lontano.





.Resembool



Le mani che stringevano la chiave inglese sembravano troppo delicate per quel lavoro: avevano unghie sottili e una pelle bianca e gentile, dita affusolate; ma avevano anche i calli, sotto i polpastrelli e sotto il palmo, cicatrici d'ustione dove erano entrate in contatto con il ferro rovente delle officine, un segno sporgente che segnava il punto in cui un martello aveva rotto un osso che non era più tornato come prima, dopo, malgrado il gesso e le cure.
Erano mani familiari: le aveva viste infinite volte, su di sé, su Alphonse, le conosceva come e meglio delle proprie.
Winry finì di ripulire il braccio con un panno di lana e s'asciugò la fronte contro la manica unta di grasso da motori.
- Ho finito. - annunciò.
Edward fletté le dita. Il metallo polito scintillò nella luce viva del mattino, tanto lucido che sembrava di poterci far specchiare il cielo dentro.
- E' più leggero di prima. -
- Ho aggiunto del nichel. - spiegò Winry. Si accostò al lavabo e mise le mani sporche sotto l'acqua. - Due terzi in più rispetto alla lega dell'ultima volta. Oltre alla zincatura standard, poi, ho usato una piccola quantità di zinco anche nella struttura: durerà più a lungo, così, prima d'aver bisogno della solita manutenzione antiruggine. -
Nichel, ferro, zinco, carbone. La testa di Edward era fatta di elenchi: perché tutto in natura era costruito così, dosi di questo, dosi di quello, dosi su dosi su dosi finché, una dose dopo l'altra, si arrivava alla meccanica della vita.
Winry prese una camicia pulita dall'appendiabiti e la indossò direttamente sopra ai pantaloni da lavoro. Era una camicia piuttosto carina, con un grande colletto di pizzo. Edward sorrise:
- Vai di fretta? -
Il viso di Winry si tinse di rosa sulle guance. Tolse da una tasca uno specchietto ed un qualcosa che Edward identificò, con grande divertimento, come un lucidalabbra, e se lo passò due volte sulla bocca fino a renderla lucente e morbida, invitante come la polpa di un frutto fresco.
- Ho un appuntamento. - rispose poi. Gettò un'occhiata ad Edward al di sopra dello specchietto: - Vuoi che ti accompagni alla stazione? -
Edward scosse la testa:
- C'è ancora tempo. Faccio quattro passi. -
- D'accordo, allora. - Lo specchietto e il lucidalabbra sparirono nelle tasche dei larghi calzoni: erano sporchi d'olio, sporchi delle sostanze chimiche che usava per pulire il metallo; spiccavano sotto alla graziosa camicia bianca, ma erano Winry, quei pantaloni. Erano molto Winry.
Quando la ragazza gli venne vicino, Edward pensò una volta di più che non sarebbe mai riuscito a guardarla dall'alto in basso: gli occhi di Winry erano quasi precisamente all'altezza dei suoi, e si fissavano in viso, così, senza che nessuno dei due dovesse tirar su la testa.
- Sempre sicura di non voler venire con noi? -
Winry allargò le braccia, guardandosi intorno: ruotando il busto, sembrò voler abbracciare l'intera officina. Scosse la testa, poi, ed Edward sorrise ancora.
- Abbi cura di te, Winry. - le disse.
Si chinò appena, e la ragazza gli gettò le braccia attorno al collo e lo strinse forte, trattenendolo a sé per un attimo.
- Fate attenzione. - gli bisbigliò in un orecchio. - Basta guai. -
Così stretta, così vicina, Edward immaginò di poter sentire al tatto la cicatrice profonda scavata dove le mani Envy avevano affondato nel seno di Winry, nel cuore di Winry, per uccidere. Avevano rischiato di perderla: ci erano arrivati vicini, vicinissimi, tanto così di distanza. Era strano - era bello - poterla avere ancora qui.
- Basta guai. - le promise.

Edward alzò la sua nuova mano, fuori dall'officina, per guardarla splendere nella luce viva del sole. La macchina di Winry si allontanò sgommando sul terreno ghiaioso, e lui rimase ad osservarla finché non sparì dietro ad una curva, prima d'incamminarsi verso casa.
Fece una sosta al cimitero. La vecchia lastra grigia che faceva da ultimo cuscino a sua madre era sempre lì, familiare sotto ai mazzi di fiori bianchi che Pinako ed Alphonse avevano portato. Accanto ce n'era un'altra che non aveva nome, non aveva foto, ma tutti sapevano che là sotto Hohenheim - l'ultima, grande pietra filosofale del regno di Amestris - riposava finalmente, morto come aveva voluto, sepolto dove aveva voluto, a meno di due metri dalla sua amatissima e umanissima moglie.
Edward accarezzò la tomba di sua madre e assestò un goffo buffetto, passando, a quella di suo padre.

Vide casa loro avvicinarsi lentamente, dapprima piccola e bianca per la lontananza, immersa nell'aria traslucida e scintillante di una delle ultime giornate autunnali di vero sole. Alphonse lo stava aspettando fuori dalla porta, seduto sui gradini: c'erano due valigie accanto a lui, ed una giacca rossa era appoggiata di traverso su una di esse.
Il sorriso gentile di Alphonse passò sul suo viso come vi fosse stato portato da una brezza, lieve, lievissimo, e vi rimase sospeso. Avere Alphonse era un dono, pensava Edward. Avere Alphonse, che gli fosse stato restituito, era un regalo, era un'offerta, era una seconda possibilità e, Dio, non gli importava niente di avere metallo al posto di un braccio, metallo al posto di una gamba, fintantoché con l'altro braccio poteva stringerlo, con l'altra gamba poteva camminargli accanto. Dio, non gli importava. Alphonse respirava. Non voleva sprecarlo.
- Hai preso tutto? - gli chiese.
Alphonse annuì, e:
- Ho preparato dei panini, fratellone. - aggiunse orgoglioso.
Quando anche l'ultimo homunculus era stato distrutto, le fiamme di Mustang a spargerne le ceneri nelle gallerie che erano le viscere buie e pulsanti di Amestris, mentre l'ultima anima di Hohenheim, pietra filosofale, si consumava per assorbire e sconfiggere il Padre, ingoiandolo, trascinandolo con sé verso la Verità dall'altro lato delle porte chiuse, ad Edward era stato chiesto cosa volesse.
Dall'altra parte del Portale, al momento di scegliere, Edward aveva detto: lui.
Nessuno sapeva cosa di loro fosse rimasto lì: sulla bilancia dello scambio equivalente, pensava Edward certe volte, doveva esserci stato parecchio, per fare pari con Alphonse. Alphonse era senza valore. Alphonse era incommensurabile, come la pietra filosofale, pagabile solo in anime immortali.
Edward si avvicinò alla giacca: la raccolse, la scrollò, se la buttò sulle spalle. Il simbolo alchemico spiccò nero sul dorso contro il rosso sgargiante della stoffa.
In una tasca della giacca pesavano tre monete legate da un filo, cinquecentoventi centesimi che avrebbe restituito quando fosse tornato dall'altro lato del Portale, perché lì e solo lì avrebbe rivisto chi gliele aveva date: e gliele avrebbe tirate in faccia, sissignore, per aver fatto la sciocchezza di farsi giustiziare. Un orecchino d'argento nel fondo della tasca, dimenticatovi quando aveva riconsegnato gli altri. Il frammento di una maschera dipinta di nero, un orologio da taschino d'argento graffiato. Una fotografia, e in quella fotografia c'erano tutti e quattro, sua madre e suo padre e lui ed Alphonse, ed un'altra dove una vecchia dalla crocchia appuntita teneva davanti a sé tre inarrestabili marmocchi biondi.
Nella testa sentiva ancora la voce di una donna dai lunghi capelli neri che gli aveva insegnato cosa fosse la vita, cosa fosse la morte, come affrontare l'una ed accettare l'altra. Che l'aveva picchiato e malmenato e rimproverato, ed amato, amato, amato, come il figlio che non aveva potuto avere mai. Anche quella donna riposava, adesso, e c'era la pietra grigia sopra la sua testa, l'erba verde. Il cielo azzurro d'autunno.
Edward certe volte aveva il cuore pesante; ma certe altre volte stringeva due mani - quella di carne, quella d'acciaio - attorno ai ricordi e li scrollava con forza: come sabbia pura attraverso un setaccio, così, quella che restava in superficie era solo la parte migliore della storia.
- Sbrighiamoci. - disse Edward allegramente, raccogliendo una valigia. - O perderemo il treno. -

La casa era bella e bianca sotto al sole di mezzogiorno: se la lasciarono alle spalle – intatta – mentre s'incamminavano lungo il sentiero. Nell'aria tersa la stazione era visibile malgrado la distanza: si vedeva benissimo il fumo grigio levarsi dai treni in partenza, lo snodo delle rotaie come un nastro d'argento scuro tra l'erba delle colline.
Se si ascoltava con attenzione, si potevano sentire le locomotive fischiare.








Note dell'Autrice: Questa storia è stata scritta per il concorso DON'T FORGET indetto da En~Dark~Ciel: concorso che non ha mai avuto luogo a causa dello scarno numero di partecipanti. L'unica altra partecipante, My Pride, ha postato la sua The pathetic fool [Through the flames] ai primi di maggio.
Il concorso era nato come un omaggio al manga: chi segue la storia sa che sta avviandosi verso la conclusione anche in Italia, e che con il prossimo numero sarà tutto finito. Chi ha una certa conoscenza del giapponese potrebbe, anzi, aver già letto la fine. Tra i diversi temi proposti per il concorso io mi sono innamorata di quello che chiedeva di scrivere un finale alternativo: è dal numero 21 che ho in testa una ben precisa conclusione della trama... che temo non sarà quella del manga, ma, ahimé, non si può avere tutto dalla vita. x°°°D
Non avevo intenzione di pubblicare oggi, ma sto cominciando a sognare Dante. @_@ Dante, Dante, Dante. Questo è sempre un pessimo segno, con un esame in avvicinamento, perciò una pausa era dovuta...

Originariamente la storia era pensata come una long-fiction in quattro capitoli: ho preferito, tuttavia, pubblicare tutto insieme. Togliamoci il pensiero. x°°°D
Un grazie a chi si è fermato a leggere, a chi è arrivato fino alla fine, a chi lascerà un commento.
  
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