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Autore: nainai    13/06/2011    10 recensioni
Smalto nero su sfondo bianco. Le ossa sporgono dalla pelle pallida, come fosse un uccello privo di piume.
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Attenzione: Il seguente scritto ha come protagonisti persone reali e personaggi di fantasia. Le vicende narrate sono puro frutto della fantasia dell'autrice. Nessuna pretesa di verità o verosimiglianza. Nessun intento offensivo, nessun diritto legalmente tutelato s'intende leso e tutti i diritti spettano ai rispettivi titolari.
 
 
Prompt #1 e #2 – “Dodici Mesi di Fedeltà. 2nd Year” Contest
Le cattive favole della buonanotte
 
Smalto nero su sfondo bianco. Le ossa sporgono dalla pelle pallida, come fosse un uccello privo di piume. Il sottofondo caotico di un brusio soffocato dalla moquette e dal legno: uomini parlano dietro pannelli, le loro risate si spengono in accenni rapidi, morbidi. La voce di un uomo è quasi sempre morbida, è bassa e calda, fatta per rassicurare con parole che sanno di protezione.
C’è qualcosa di imbarazzante – e sbagliato – ne rimanersene così, nuda, al centro della stanza semivuota.
Eppure non è certo la prima volta che posa nuda. Né è la prima volta che lo fa in un luogo che risuona delle parole vuote di qualcun altro o del silenzio dello sguardo ugualmente attento e disinteressato di un fotografo.
Eppure è la prima volta che si sente così spoglia.
 
Nell’entrare agli studi di registrazione aveva avuto la sensazione tattile di aver varcato la soglia di una dimensione. La luce filtrava dall’esterno in un gioco di superfici e volumi che creava “pieni” e “vuoti” secondo schemi illusori, eppure così prepotentemente opprimenti sui sensi da rendere impossibile ignorarne l’effetto.
Non stava suonando nessuno in quel momento, ed il silenzio denso di chiaroscuri era spezzato dal medesimo brusio soffocato di voci cui avrebbe fatto in fretta ad abituarsi.
-E’ proprio necessario che sia tutto così…in penombra?- aveva chiesto educatamente.
Il ragazzo che la accompagnava e che si era qualificato come uno degli assistenti del fotografo, le aveva sorriso comprensivo.
-Brian preferisce così.
“E poi”, aveva aggiunto, “quel posto era fatto apposta a quel modo”.
 
Brian.
Quel nome le torna in mente adesso. Brian è il nome di una voce, di un sottofondo morbido da cui lasciarsi cullare.
Nadav Kander è un uomo discreto. E con la discrezione di un chirurgo seziona un corpo. Lei sa che è questo a metterla a disagio. A farle provare imbarazzo nel rimanere nuda in una luce soffusa, verdastra e chimica. Acida. La moquette le solletica i piedi scalzi ma è soffice, pulita, e c’è profumo di incenso e di cavi elettrici. “Viene dalle sale prove”, le ha detto l’assistente gentile.
-Credo che dovremo togliere quello smalto.- sono le prima parole che Nadav Kander le rivolge e lei si limita ad annuire.- Sabrina, vero?
E’ abituata a sentirsi dire come deve essere. “Via lo smalto”, “i capelli più corti”, “più lunghi”, “ombretto rosa, o rosso. O verde, o blu, o nero…”
“Sì, sì. ”.
Una porta si chiude sul corridoio. Di solito sono tutti molto accorti nel muoversi lì dentro, ma c’è un tale silenzio che il minimo fruscio finisce per rimanere incastrato e rimbombare tra le pareti.
L’assistente chiama la ragazza del trucco che è nel camerino lì a fianco. Il fotografo ha già smesso di guardarla. Mentre la truccatrice le passa con delicatezza il solvente sulle unghie, Sabrina punta gli occhi sul proprio costato e vede le ossa premere la pelle. È come se la cassa toracica stesse per spalancarsi.
“Sono troppo magra”, pensa. Sua madre lo diceva sempre. Suo padre avrebbe voluto che studiasse legge.
Sospira sollevando lo sguardo.
-Devo mettere qualcosa di trasparente?- chiede la ragazza del trucco.
Nadav Kander annuisce.
L’assistente le porge una vestaglia di seta verde con un sorriso. A Sabrina viene istintivo ricambiarlo mentre si fa aiutare ad indossarla. È ricamata con un dragone cinese di colore rosso sulla schiena, Sabrina sbuffa una risatina quando lo intravede passando davanti allo specchio del camerino, l’indumento è corto e le copre a stento le natiche, sembra la riproduzione costosa – è seta di qualità ed il ricamo è accurato, intrecciato con fili d’oro – delle sopravvesti scadenti di certi film americani, quelli in cui puttane troppo vecchie ricevono simili regali da giovani soldati di ritorno dai fronti orientali di guerre che lei ricorda a memoria da scuola.
L’assistente le sorride ancora quando lei si siede e porge, diligente, la mano perché la ragazza del trucco possa iniziare il proprio lavoro.
-Spero che non ti secchi, è l’unica che abbiamo.- le spiega lui, indicando idealmente la vestaglia. Ride.- Ad essere onesti…è davvero imbarazzante ma…è di Brian!
-Scherzi?!- ride anche lei.
-No! …sì, lo so, è terribile, ma credimi…lui è fatto così, ecco.
-Lo conosci bene?
Brian. Il nome di una voce che passa nel corridoio dopo che il rumore di una porta è rimasto incastrato tra i muri.
-Lavoriamo con loro da parecchio.- le sta rispondendo lui.
Il modo in cui la guarda la fa sentire bella. Bella davvero. Non più un corpo fatto a pezzi dall’occhio analitico di un professionista. Kander renderà ogni flessione di quel suo busto scheletrico stupenda; sarà l’espressione di un’interiorità, il riflesso del mondo su una pelle, il movimento della vita nelle curve, nelle luci. Ma non sarà lei. Sarà lui. Sarà la sua interiorità, il suo mondo e poi la sua vita.
Lei è cera, costruzioni da ricomporre in un puzzle di carne straccia ed oggetti inanimati. Per quando avranno finito – per quando l’immagine sarà impressa sulla carta fotografica – la moquette avrà nel complesso lo stesso speso specifico del suo corpo tutto intero.
Della sua nudità così imbarazzante.
Ma quel ragazzo la guarda e la trova bella. E la trova bella così, integra e viva. I suoi occhi, quando le sorride, parlano di normalità e di rispetto – deve averne viste anche lui di modelle nude…- una cosa che la riporta alla concretezza che ogni volta resta fuori dalla porta di un set fotografico (e che qui non sembra mai essere entrata).
Chissà se lui le chiederà di uscire? Gli direbbe di sì – lui non ha nemmeno chiesto il suo nome, ancora, e lei non sa il suo – un aperitivo quella sera stessa, per togliere via ogni sensazione sbagliata.
Il ragazzo parla, la sua voce è più alta e meno sicura ma ugualmente piacevole e lei si lascia cullare anche da lui. Volta la testa per cogliere il bagliore suntuoso della seta nello specchio.
Che tipo sarà un Brian che si veste di seta come una donna “di malaffare” e parla con la voce calma e bassa di un uomo vero?
 
-Non conosci la loro musica?
Il ragazzo sembra stupito. La truccatrice è andata via, li ha lasciati da soli con l’odore pungente dello smalto che s’indurisce sulle sue unghie corte. Anche Kander deve essere uscito, le luci nella stanza accanto sono tutte accese.
-Sinceramente, no. Non sono particolarmente interessata alla musica.
-Neanche io, in generale. Con loro sono stati Nadav ed Helena a spingermi ad ascoltarli. Nadav dice che è indispensabile conoscere la musica di un artista per ritrarlo.
-Immagino che sia vero…- Di lei nessuno s’interessa mai a sentire ciò che ha da dire. Ma non è un ritratto da dipingere il suo, bensì una tela vuota da riempire.
-Beh…ti giuro…è qualcosa che non potrei spiegare a parole!
Nel guardare i suoi occhi Sabrina pensa che deve essere vero anche quello, ma tanta passione la mette di nuovo a disagio. Si guarda le mani nervosamente, con un sorriso che è diventato di ghiaccio sul viso.
-Con i Placebo è così. O li ami o li odi. Non ti possono stare solo indifferenti. È che li senti, con tutto il corpo.
È quel richiamo alla solidità di sangue, ossa e nervi a scuoterla. Pensa che vorrebbe ascoltarli e sta per chiedergli se ne avrà l’occasione quando la ragazza del trucco torna.
-Siamo pronti.- annuncia asciutta.
Lui si alza, la truccatrice le ravviva le guance con un fard troppo chiaro che si confonde eccessivamente con il suo colorito naturale. Dalla soglia spalancata vede il set piombare nuovamente nella penombra acida di prima.
Sabrina si tira in piedi, la truccatrice la aiuta a togliere la vestaglia. La prima cosa che vede tornando nella stanza è l’ombra di una mano dalle dita lunghe, affusolate, che si muove lenta ed aggraziata, poi il disegno di un collo sottile ed elegante. La donna di fianco al fotografo ha i capelli corti, le labbra e gli occhi truccati di scuro e la pelle di velluto ambrato. Solleva la macchina digitale con un gesto sicuro, esperto e familiare, e gli occhi che colgono l’immagine di Sabrina sullo sfondo delle luci artificiali sono grandi, neri ed espressivi.
***
Helena è arrivata agli studi di registrazione verso le otto quel mattino.
Nadav non sarebbe arrivato prima di tre ore ma non importava: ci sono un mucchio di cose da fare prima di una sessione fotografica.
E’ arrivata in macchina ed ha parcheggiato in una traversa vicino gli studi, imbacuccando se stessa e Cody prima di scendere dall’auto ed affrontare i pochi curiosi che già a quell’ora bighellonavano fuori dal n. 50 di Charlbert Street.
Nascosta dietro i grandi occhiali scuri e sotto gli strati morbidi del maxi pull, Helena ha falciato quello sparito gruppetto con passo sicuro, rifugiandosi dietro le porte dai vetri fumé e tra le rassicuranti braccia della sicurezza molto prima che qualcuno avesse modo e tempo di dare a lei o al fagottino dormiente tra le sue braccia la giusta identità. Cody non si è svegliato. Ad un anno di vita scarso ha già imparato a sopportare con stoica fermezza i maneggiamenti maldestri di tate più o meno improvvisate, le fughe nervose dai flash dei paparazzi e gli improbabili cambi di letto, orari e luoghi a cui è sottoposto da un padre geloso, possessivo e, troppo spesso, ossessivo.
 
O almeno è questo che pensa di lui Helena mentre osserva Brian, in pausa dalle registrazioni, sollevare Cody dal passeggino che Levi ha opportunamente preparato per lui. Il bambino si era appena riaddormentato, osserva il padre con sguardo offuscato, liquido, e cerca a tentoni un punto di appoggio a cui aggrapparsi con le dita incerte. Brian se lo sistema su una spalla, ridendo tra sé, gli bacia i capelli, incredibilmente soddisfatto, parlandogli in tono allegro, basso e modulato. Cody affonda il faccino nel suo collo e sbadiglia, rilassandosi.
Brian ha dormito fuori anche stanotte, pensa Helena abbassando nuovamente lo sguardo sulla macchina fotografica che la attende, ordinata e lucida, sul tavolo. Lei sa che lui è rimasto lì fino a notte fonda. Sa che sono andati via tutti assieme – Brian, Stefan e pure Steve – e che si sono fermati tutti in albergo, dove alloggia anche Dimitri. Sa che Brian ha solo bevuto qualcosa in stanza da Stefan ed in compagnia degli altri e che dopo è andato a dormire da solo.
Sa che lui non l’ha tradita. Lo sa perché sa come funzionano le cose tra loro e, quindi, sa che lui non le potrebbe mai mentire. Ma proprio perché sa questo, sa anche dare il giusto peso ai suoi mancati ritorni.
Sistema gli obiettivi con cura adesso. Li controlla uno alla volta per essere certa che siano puliti, poi li mette di nuovo a posto, spingendoli delicatamente all’interno degli scomparti in gommapiuma della borsa.
 
Helena ha quaranta anni.
Sono tanti. In una realtà in cui una donna comincia ad invecchiare quando le prime rughe le segnano il dorso delle mani, le sue mani mostrano il disegno complicato delle venature di una pianta.
C’è stato un momento della sua vita in cui ha creduto che il suo mondo sarebbe finito in quel modo, in silenzio. Quando lei e Brian si sono conosciuti, lei era diversa. Era viva e si era innamorata. Non è stato difficile innamorarsi di Brian allora, lui era fragile e lei aveva energie da spendere. La parte difficile è stata amarlo. Perché le energie e gli slanci si affievoliscono con il tempo e le difficoltà diventano enormità che non vale la pena affrontare.
Però è successo che con il tempo lei è diventata solida e lui è diventato altro. Man mano che le radici di Helena si saldavano al terreno, le ferite di Brian trovavano sollievo, gli animi di entrambi si adattavano a quella nuova condizione e, nel farlo, recepivano, muti, l’uno la presenza dell’altro. La loro complicità non è fatta solo dalle parole dette, urlate o sussurrate, né dell’intimità rubata o ricercata. E’ fatta di silenzi, sguardi, perdoni concessi per bugie mai dette. Helena sa che per ogni scusa che in passato non ha domandato a Brian di pronunciare, lui ha in cambio annullato di un passo la distanza che  li separava e, poi, semplicemente, quella distanza è scomparsa.
Eppure c’era stato un momento  preciso e nemmeno troppo lontano nel tempo in cui Helena ha avvertito con precisione che quella solidità faticosamente conquistata sarebbe stata la sua tomba. Il suo mondo finiva alla soglia dei quaranta anni. Si consumava in un’attesa a cui non aveva voluto dare un nome.
Da bambina – come tutte le bambine – aveva costruito nella propria immaginazione castelli abitati da principi e principesse. Da adolescente i principi erano diventati di carne e di nobiltà ne avevano conservata ben poca; lei aveva sostituito ai castelli sogni di piccoli monolocali lussuosi di fronte Hyde Park, in cui viveva da sola o tutt’al più accompagnata da un grosso gatto. Aveva iniziato piano a realizzare quel sogno, indirizzando la propria vita – un tassello dietro l’altro – fino a rinchiuderla nello spazio sicuro delimitato da una griglia piombata e dal vetro smerigliato di altre finestre. La sua prima, vera casa se l’era potuta permettere quando Nadav l’aveva presa a lavorare con sé. Era stato lui a trovargliela e, se pure non affacciava su Hyde Park, per lei respirare la mattina il profumo del caffè seduta al tavolo del soggiorno, con gli scatti del giorno prima tra le mani, era un po’ vedere realizzati quei sogni di ragazzina.
 
La modella si presenta porgendo una mano dalle dita lunghissime e levigate. Ad Helena viene istintivo chiedersi che età possa avere ed il dorso di quella mano le risponde da sé.
Lei è magra tanto che le ossa sporgono. Per lungo tempo Helena ha fatto fatica a capire Nadav, il suo modo di sviscerare i corpi fino a renderne quasi grottesche le forme. La tensione trasuda dall’anima come se fosse questa ad essere tesa, torta e tirata fino a spremerla fuori dalla prigione offerta dal corpo.
Non fa parte di lei tutto questo. Lei ama i toni, le luci, i colori – pochi, dosati – le proporzioni. Filtra le persone attraverso le armonie.
-In qualche modo, mi compensi.- le dice Nadav con un sorriso quando lavorano.
Nei suoi scatti c’è qualcosa di astratto – non sembra mai che sia coinvolta dalla scena – e qualcosa di retrò, come le istantanee di inizio ‘900 che dall’Africa o dall’Oriente arrivavano in Europa, la stessa eleganza “in posa”.
Per questo vedere Nadav usare quella ragazza le fa battere il cuore fino a sentirlo impazzire. Rimane con il fiato sospeso, ubbidisce al proprio ruolo come un automa, risponde alle domande che Nadav le fa con la professionalità di anni di esperienza come sua collaboratrice, ma vive l’emozione di ogni “prima volta”.
Nelle torsioni del busto della modella, Helena avverte contrarsi il proprio addome, che è tornato liscio e tonico dopo la gravidanza e che è esile come se avesse tanti anni di meno sulle proprio mani.
Ma non li ha. E il disegno delle rughe è complesso.
 
Il silenzio, nella sua vita, è stato rotto da un respiro. Quel senso di attesa perenne è finito il giorno in cui ha saputo di Cody.
Non è stato voluto. Ma questo nessuno di loro due lo dirà mai (o forse Brian ci ha scritto una canzone…), Cody non lo saprà.
Un incidente non è qualcosa che puoi far diventare una scelta di vita, è qualcosa a cui ti adatti e nessuno di loro due vuole adattarsi a Cody.
Suo figlio saprà solo dell’amore con cui Brian gli parla, della devozione stupita con cui lo guarda dormire e resta sveglio per farlo, per prolungare la notte perché nessun momento gode della stessa perfezione immobile e solitaria, da spendere nella contemplazione più pura.
Ciò che Cody non saprà è di come il suo respiro abbia rotto il silenzio. È caduto come un ciottolo nell’acqua, quella è tornata ferma ma l’eco della sua caduta risuona ancora ad un livello che lui, Cody, non avrà mai il registro per poter interpretare.
Non capirà le sue scelte, non capirà le sue lacrime né i suoi sorrisi.
Un po’ non vorrà farlo, un po’ non ne sarà capace. Ci sono segreti chiusi nel corpo di una donna che solo un’altra donna percepisce a pelle. Il fremito di quel silenzio che s’infrangeva nessuno a parte Helena lo ha sentito. Ad incrinarsi è stato il vetro fragile della monotonia, si è piegato in due direzioni sporgendo in fuori, verso il mondo, lì dove Cody ha puntato i piedi e le mani nel nascere. Si è ritirato all’interno, verso il suo petto, quando lo sguardo di Brian si è allontanato.
-Gli uomini, a volte, perdono interesse nella propria compagna quando lei resta incinta. – le ha detto Alex per offrirle un’effimera ovvietà generalizzata a cui aggrapparsi.
Ma la verità è che gli equilibri si reggono su strati sottili di monotonie. Un concentrato di colore improvviso sforza lo schema e denuda l’anima.
 
Una fiamma di acido verde che si riversa liquida attraverso la porta.
Il silenzio di Helena si spezza nell’immagine di una ragazza bruna, magra e nuda, il cui busto si torce sofferente in cerca di…
***
Alex guarda la band posare gli strumenti a terra attraverso il vetro della sala regia. Brian sorride a Stefan – in quel modo in cui lo fa solo per lui – gli dice qualcosa che lo fa ridere e ride anche lui.
Steve no.
Dimitri Tikovoi avverte la tensione rigida nelle spalle della donna, in piedi a pochi passi da lui, osserva la scena cercando di decifrare gli stessi segnali che lei legge, ma sa che è inutile. Se ormai è chiaro che qualcosa serpeggia sottopelle – un male acuto ed insidioso che avvelena l’aria stessa – è da tempo che ha smesso di tentare di coglierlo, arrendendosi all’idea che debba essere quel clima teso ed aspro a dare forma alle canzoni di “Meds”.
Alex, invece, sa. Sa con l’empatia della madre che non sarà mai. La stessa empatia che ha strumentalizzato, soggiogato ed orientato ai propri scopi in tanti anni di carriera.
Sa cosa significa ogni singola sfumatura nei sorrisi di Brian, cosa si nasconde dietro ognuno dei suoi sguardi; sa cosa vuol dire ogni silenzio di Stefan, come possa mutare qualsiasi disagio.
E sa di Steve. Sa dei suoi dubbi, delle sue esitazioni, dei suoi slanci e dei suoi ripensamenti.
Sopra ogni cosa, sa come tutto questo si mescoli assieme e cosa ne venga fuori. E quindi, sa. E basta.
 
A diciotto anni era stata innamorata. Una di quelle cose folli che fai una volta e poi basta, di quelle che finiscono male per forza, ma è chiaro che a diciotto anni questo non lo metti da conto.
Aveva lasciato casa ed era fuggita con lui. Volevano andare in California. Avevano pochi soldi, tanti sogni ed una chitarra.
Talmente tanti cliché che a ripensarci le viene da ridere.
Era finita in tre giorni. Neppure il tempo di credere che fosse successo davvero ed appena quello di riprendersi dalla sbronza più colossale della sua vita.
Dopo era cambiato un po’ tutto.
Niente di melodrammatico come “non mi innamorerò mai più dopo di lui”. Più che altro non c’era mai tempo.
Era partita con l’idea che una storia seria, una famiglia e dei figli potessero aspettare.
Oggi finisco gli studi.
Oggi trovo un lavoro.
Oggi apro un’attività mia.
Oggi mi occupo di questa band, che va forte…
Di “oggi” in “oggi”, “domani” non era mai arrivato. Ma lei non se n’era accorta.
Ed a quelli che c’erano stati e, poi, erano semplicemente passati, non aveva mai dato nulla di sé.
Le sigarette “post coito” si sono accumulate nel posacenere di fianco al suo letto. Inizialmente quelle di un lui di passaggio, il cui nome e viso si confondeva con altri dopo. Poi, in modo quasi meccanico, le sue, quelle che accende in un silenzio denso, quelle di commiato per coloro che – da quel punto in poi – hanno smesso anche di dirglielo il proprio nome.
Brian la prende in giro ed a lei da fastidio. Brian ha la capacità metafisica delle donne di percepire gli altri e lei, che quella capacità crede di averla persa da tempo (e che non si accorge, invece, di come l’applichi ogni giorno ai propri “ragazzi”), ha l’insofferenza distratta degli uomini nel tollerarlo. Quel suo prenderla in giro quando, raggiungendola a casa di mattina presto in un sabato o una domenica di festa, trova la cicca spenta nel posacenere, ed il suo conseguente irrigidirsi, schioccare la lingua e le palpebre e serrare le braccia sul seno, incrociate strette su una giacca dal taglio mascolino…tutto quel teatro prestabilito e dal sapore amaro li riporta su un piano esatto di parità. Lui, che come le donne ride della paura degli uomini, e lei, che dagli uomini ha imparato la non necessarietà di amare.
 
-Alex – si volta a ricambiare lo sguardo di Nadav attraverso la porta della sala regia. Dimitri è già tornato ad immergersi nel proprio lavoro, le cuffie strette contro le orecchie.
La calma placida del fotografo ha un tocco talmente delicato che per un istante Alex avverte il nodo che le serra la gola allentarsi appena.
-Puoi venire un attimo con me per dare un’occhiata agli scatti?
Brian esce dalla sala d’incisione, la porta si chiude dietro di lui che scompare dalla sua visuale. Alex lo vede passare nel corridoio alle spalle di Nadav insieme con Levi, poi è solo il suono armonioso e cadenzato della sua voce a direzionarle i pensieri.
Ma Nadav è più concreto. Ed è lì che l’aspetta con la sicurezza ripetitiva ed affidabile del lavoro ad offrirle una tranquillità più sostanziosa in cui rinchiudersi.
Annuisce, efficiente. Da una pacca sulla spalla a Dimitri come saluto e si rifiuta di voltarsi per vedere Stefan e Steve parlare tra loro, cupi e distanti. Già sulla difensiva.
-Questi sono gli scatti della band?- chiede davanti alle foto che Nadav le mostra.
Gli interni degli studi sono bui ed opprimenti, Brian, entrandoci, ha detto che il loro sapore gli ricorda quello delle spezie. Cannella, chiodi di garofano, noce moscata…Ha sorriso nel dirlo ed è sembrata, quindi, una cosa buona. Ora, nel vedere l’anima degli studi – ed un po’ anche l’anima di quel disco, sì – attraverso l’occhio di Nadav, Alex ha l’impressione, più che altro, di una chiesa daliliana, un mondo capovolto che dia chiari segni di rottura.
-Non sembri contenta.- osserva il fotografo.
E lui non sembra preoccupato, riflette pigramente Alex, ma ha smesso da tempo di tentare di impressionare Nadav Kander.
-Non ti piacciono?
-Credo che siano molto…potenti.- afferma sinceramente.- Aspettiamo di farli vedere a Brian ed i ragazzi.
 
Brian ed i ragazzi. Sono stati “Brian ed i ragazzi” fin dall’inizio, da quel primo giorno in cui se li è trovati davanti nel suo ufficietto di Londra.
Lei apparteneva al novero di quelli che, lì per lì, lo avevano preso per una ragazzina. Ed avrebbe voluto liquidarlo, quel giorno. Lui, il suo sguardo mutevole, quell’atteggiamento da gatto sornione ed i suoi modi da puttanella. Il panorama musicale era intasato da puttanelle di qualsiasi sesso.
Ma era successo che lo aveva visto, in sala d’attesa, sorridere a Stefan. E quel senso istintivo, che credeva di aver perduto, le aveva fatto capire di no, non poter liquidare la faccenda con un’alzata di spalle e tanti saluti.
Non è stato facile. Di spigoli Brian ne aveva a sufficienza per tutte le teste dure, anche più dure della sua. Ogni volta che aveva ceduto di poterlo trattare come gli altri, lui le aveva fatto capire che non era affatto uno dei tanti.
Lo ha riacchiappato per la collottola – da sola o, più spesso, indirizzando l’intervento provvidenziale di qualcuno più adatto – talmente tante di quelle volte da aver perso il conto. E lo ha visto crescere. Sì, stupido e sentimentale, ma vero.
Quando Brian il sabato o la domenica di un mattino di festa, le piomba a casa solo per prenderla in giro nello scoprire di una sua notte brava ­– solo per sminuire la cosa, quel senso di vuoto fastidioso alla bocca dello stomaco, e riportare tutto alla solida concretezza di una presenza familiare – lei ha come la ridicola sensazione di dover essere orgogliosa di qualcosa. E non è male come sensazione, in fondo.
***
Sabrina fruga nella borsa, traballa sui tacchi alti, cammina a passi ampi.
Alza il viso in faccia la tramonto di Londra. Alle sue spalle gli studi si sono svuotati lentamente, un paio di tecnici si stanno dando appuntamento per l’indomani sulle scale. Le loro voci si confondono e la accompagnano.
Sabrina indossa gli occhiali scuri, un refolo di vento freddo le accarezza le gambe.
-Scusami!- si sente chiamare.
Si volta. Lui la guarda imbarazzato, nasconde il rossore dietro il lieve affanno di una corsa troppo breve fatta per raggiungerla. Sabrina sorride involontariamente.
-Oddio…- borbotta lui grattandosi la nuca – non ti ho neppure chiesto il nome…
-Sabrina.
Sa già che dirglielo è stata una resa anticipata.
-…Jeff!- esclama lui tendendole la mano. – Senti, - inizia appena sente le dita di lei stringersi lievi – ti…andrebbe di uscire stasera? Un aperitivo! magari anche adesso…
“Senza impegno” sta pensando di dire.
Non lo dice. Ha gli occhi che brillano di aspettative e lei ha il cuore gonfio di pensieri.
Scuote i capelli neri.
-Sì. Certo.
“Le cattive favole della buonanotte”
MEM 2011
 
  
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