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Autore: beesp    14/06/2011    1 recensioni
Lei è fuggita, tanto tempo fa, ormai.
Ma ogni anno ritorna, in un giorno sempre uguale di giugno, che non cambia mai neanche nella routine o nel clima.

Perché chi è che non ritorna all'ovile, anche quando questo è una casa di bugie e dolore?
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'You’re in the wrong place, my friend, you better leave!'
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Per quattro sorrisi.html
Volevo tenermi lontana per sempre da questa serie. Ma non ce l’ho fatta; adesso però ha un nuovo nome (“Felicità è non desiderare nulla” - probabilmente provvisorio).
Spero vi divertiate. Buona lettura. (Ah, le frasi in inglese scritte in corsivo sono parte delle canzoni “Sleeping with ghosts” e “Speciale Needs” dei Placebo).
















Lei è fuggita, tanto tempo fa, ormai.
Ma ogni anno ritorna, in un giorno sempre uguale di giugno, che non cambia mai neanche nella routine o nel clima.

Respira.
Di fronte lo specchio il suo petto si alza e si abbassa.
Respira.
Non si è truccata, ha legato i capelli.
Al polso ha un braccialetto di perline rosse e blu.
Sembra di nuovo una bambina.

Infila come può nelle tasche dei jeans le chiavi di casa e il portafogli, un paio di gomme da masticare, un accendino e un filo di spago – ché non si sa mai.

Una volta le capitò di trovare un anello di metallo con un disegno tribale; se non fosse stato per una pila e dei fili nella sua borsa sarebbe rimasto là, su un corso di un fiume sperduto e inquinato.

Ha le chiavi dell’automobile strette nel palmo, sente la pelle sudare attorno alla forma, sente la forma imprimerlesi addosso.

Viaggiare la stabilizza. Anche quando il nervosismo prevale.

È un rito immancabile.
Altrimenti, non saprebbe neanche come impiegare la giornata, martellata da un solo pensiero, costretta a svuotare la testa da tutto ciò che non è l’assenza.
L’assenza-presenza che le ricorda, sempre, da dove proviene.

Il sole è ancora basso, a est.
È una piccola sfera poco più lucente del giallo, non scalda ancora l’aria frizzante di giugno.
Se inspira forte, le narici le bruciano.
Dietro gli sportelli, nella scatola di ferro, a riempire l’atmosfera è soltanto la musica delle ruote sull’asfalto dell’autostrada, del motore silenzioso acceso.

A metà del viaggio, percorsi centocinquanta chilometri, sintonizza la radio; ascolta pazientemente le previsioni del meteo, lo stato del traffico, le notizie in prima pagina. Poi cerca quelle canzoni che abbiano il sapore del passato. Le riesce sempre a trovare, in qualche modo, anche se in un CD nascosto nel cruscotto.

Dry your eyes
Soulmate dry your eyes
’Cause soulmates never die

Non saprebbe dire se è la strada conosciuta a pesarle e farle necessitare di distrarsi, oppure se sia la musica in cui le note appaiono soltanto come immagini di una vita apparentemente non sua, tant’è distante, a stringerle il petto.
Sono già le emozioni che si confondono l’una con l’altra, l’una dentro l’altra.

Le dita sempre aggrappate al volante, mentre un uomo di un’epoca lontana intona:
Remember me
(è una preghiera)
when you’re the one you always dreamed
(è un pianto)
Remember me when whenever noses start to bleed
(è un ricordo lontano, che fa sorridere)
Remember me special needs
(è ancora un ricordo, ma questa volta graffia).
Il caldo comincia a farsi sentire, il sole è su di lei, con un tepore arancione.

Attorno a lei l’ambiente comincia a mutare. I palazzi si trasformano in rare villette diroccate, le fabbriche divengono povere fattorie, i parchi esplodono in natura incontaminata.
Poi, di fronte, d’improvviso, quasi fosse sorta dal terreno in un istante, appare la montagna. Alle pendici, se affila bene lo sguardo, anche a quella distanza, può scorgere il piccolo villaggio.
Poco più in basso la cittadina più inquinata della zona, la sua città.

Una volta le dissero che se non avesse trovato il modo di star bene a casa, non sarebbe mai stata bene. In qualsiasi luogo si fosse trovata.

Quando parcheggia ed esce dall’abitacolo, si sgranchisce e sbadiglia.
Lo spiazzo sul quale si è fermata è una piccola terrazza del centro storico pavimentata con pietre nere e lisce.
Tutto in quell’esiguo agglomerato urbano parla di vincitori e vinti, di memorie e di perduti.
Le strade, i monumenti, i palazzi: ogni pezzo di quel cuore pulsante è firmato dalla morte di qualcuno che ha segnato la storia locale.
Tira su col naso, mentre già si sente sciogliere il cuore con le mura che odorano di famiglia.

Passo dopo passo, gli abitanti la riconoscono e la salutano allegramente, una punta di compassione nello sguardo.
Non si sente scalfita, le manca quasi quel sentimentalismo e l’empatia introvabili nelle metropoli.

Il tragitto è già segnato, alcuni sanno, lo legge sulle facce.
Le poggiano il loro affetto di parte di una grande famiglia, lei lo accetta, grata. È l’unica corazza che può frapporre tra lei e la solitudine. Ne avrà bisogno.

Non è cambiato nulla, a parte qualche ruga in più, una bottega chiusa, dieci nuovi matrimoni.
Una ragazza la saluta da lontano.
È la sua vecchia migliore amica. Si stringono in un abbraccio.
« Come stai? ». Si è sposata, ha avuto due figli; stava giusto avviandosi verso la scuola del più piccolo. « E tu dove vai di bello? ».
Più che di sguardi è un intrecciarsi di pensieri; l’amica capisce, la magia non è mai morta, le stringe la spalla con le dita sottili e pallide. « Buona fortuna » le augura, prima di allontanarsi in direzioni lontane.

È alla fine della città, finalmente.
È sull’orlo del precipizio; un salto, per poi ricominciare dalla partenza. Potrebbe tornare indietro, il pellegrinaggio c’è stato, ma non troverebbe pace comunque.
Si passa una mano sulla guancia. Varca il cancello della proprietà della sua famiglia da generazioni.
Le foglie e i rami degli alberi sono smossi appena dal vento fresco. Un giardiniere lontano guida un macchinario per tosare l’erba.
La villa è vuota, anche a distanza di metri. È vuota fin nelle mura bianche, nelle finestre pulite.
Una domestica le apre la porta d’ingresso e le sorride « Abbiamo sentito la vostra mancanza, signora ».
Le scale enormi, i soprammobili fragili anche solo ad ammirarli, l’arredamento elegante anche dopo decenni, la tappezzeria leggera scossa dall’aria filtrata dalle finestre.
« Quanto si tratterrà, signora? ».
« Non più di un paio d’ore ».
Nonostante gli anni e l’odio, gli oggetti trasudano la sua vita. È una casa pregna di bugie, menzogne, fughe ma sa di casa.
Incamera gli odori quanto più riesce.
È soltanto venuta ad assicurarsi che nulla sia fuori posto, per le generazioni future che non ci saranno, per il prestigio di una famiglia che non esiste più.
I quadri amati da sua madre, le poltrone preferite dal padre, le ballerine di porcellana adorate dalla sorella; ogni elemento al suo posto, lucido e come nuovo, quasi quella dimora fosse imballata, in attesa di qualcuno che la prende in custodia e la salvi dall’abbandono.
« La sua camera è pronta, se ne ha bisogno ».

I suoi genitori avevano deciso di lasciare tutto com’era.
Le raccontavano scrivendo lettere che guardando quella stanza soffrivano, ma che avrebbero patito di più se avessero cancellato le tracce della sua esistenza; erano belle persone soltanto quand’erano lontane da lei i suoi genitori.
È tutto intatto, non ha voluto smuovere gli equilibri, una volta morta sua madre.
Si sono lasciati andare tutti da quand’è scappata anche sua sorella … fuggita chissà dove, anche dal suo stesso nome.
Forse ha raggiunto la libertà, ma non lo crede possibile.
Un tempo erano stati felici, il tempo a cui risalivano la maggior parte delle foto incorniciate nella sua stanza rosa da bambina.
Un vestito azzurro a balze è appeso all’armadio: dalla posa appare riempito da una persona invisibile.
Ma è tutto vuoto, chi meglio di lei dovrebbe saperlo?

Si chiude la porta alle spalle, stringendo al petto la foto più recente trovata: ritrae suo padre, sua madre, sua sorella e lei seduti su una coperta da pic-nic e se i loro corpi sono evidentemente rigidi, i loro sorrisi sono quanto di più naturale si sia mai visto in quella casa.
   
 
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