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Autore: My Pride    15/06/2011    10 recensioni
I understand that there’s probably a link between our worlds, even if it may be twisted in ways that are cruel at times and kind at others.
The world is inside of you.

Avete mai sentito parlare di esperienze pre-morte? Io ero stato uno di quelli che non aveva mai creduto a cose del genere, o almeno fino a quando non era capitato proprio a me.
È alquanto bizzarra la velocità con cui sembrano cambiare i punti di vista, certe volte. E altrettanto strambo è il modo in cui eventi di questo tipo, per quanto rari, ti precipitino addosso, lasciandoti letteralmente senza fiato. Non si è mai certi di ciò che la vita ti riserva finché non ti accadono le cose più impensabili. Il mondo è come un antro oscuro che nasconde nel suo ventre l’orribile verità dell’essere.
[ Prima classificata al contest «Scacco matto!» indetto da Fe85 ]
[ Prima classificata allo «Slash e Femslash contest!» indetto da MistyEye ]
[ Prima classificata al contest «Romance in pain» indetto da LoveSomebody ]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Nonsense | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Breaking the World Series ~ Bonus Track' Questa storia è tra le Storie Scelte del sito.
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Breaking_1
[ Prima classificata al contest «Scacco matto!» indetto da Fe85 ]
Prima classificata allo «Slash e Femslash contest!» indetto da MistyEye ]
[ Prima classificata al contest «Romance in pain» indetto da LoveSomebody ]
[
Terza classificata al «Reverse contest» indetto da hiromi_chan ]

Titolo:
Breaking the World
Autore: My Pride
Fandom: Originali › Sovrannaturale
Pezzo Scelto: Torre
- Parola: Malinconia
- Canzone: Le persone inutili
- Fenomeno atmosferico: Neve
Tipologia: Racconto breve suddiviso in cinque capitoli
Genere: Drammatico, Sentimentale, A tratti vagamente introspettivo, Malinconico, Vagamente - o forse anche troppo - nonsense
Avvertimenti: Vagamente Slash
Rating: Giallo / Arancione
Beta Reader: No
Introduzione: Non si è mai certi di ciò che la vita ti riserva finché non ti accadono le cose più impensabili. Il mondo è come un antro oscuro che nasconde nel suo ventre l’orribile verità dell’essere.
«Si volti lentamente e tenga le mani ben in vista», mi intimò una voce familiare, e nonostante lo scombussolamento non ci misi molto ad associare il tono ad un volto: quella era senza alcun dubbio la voce di Stephen.


DISCLAIMER:
All rights reserved © I personaggi presenti in questa storia sono tutti maggiorenni e mi appartengono, dal primo all'ultimo. Sono comunque frutto di pura immaginazione. Ogni riferimento a cose e persone realmente esistite e/o esistenti è puramente casuale.
This work is licensed under a Creative Commons Attribution-Noncommercial-No Derivative Works 3.0 License.


BREAKING THE WORLD [1]
 
I understand that there’s probably a link between our worlds.
Even if it may be twisted in ways that are cruel at times and kind at others.
The world is inside of you.
 
    Avete mai sentito parlare di esperienze pre-morte? Io ero stato uno di quelli che non aveva mai creduto a cose del genere, o almeno fino a quando non era capitato proprio a me.
   
È alquanto bizzarra la velocità con cui sembrano cambiare i punti di vista, certe volte. E altrettanto strambo è il modo in cui eventi di questo tipo, per quanto rari, ti precipitino addosso, lasciandoti letteralmente senza fiato. Non si è mai certi di ciò che la vita ti riserva finché non ti accadono le cose più impensabili. Il mondo è come un antro oscuro che nasconde nel suo ventre l’orribile verità dell’essere.


ATTO I: ST. CHARLES › SETTEMBRE 2002
IL PRELUDIO DELLA FINE
 
    Una delle poche cose che mi mancavano della stagione estiva era il canto delle cicale. Ero stato un giocatore di baseball professionista per quattro anni, e adesso io, Jonathan Wilson, volevo soltanto godermi la pensione anticipata come si conveniva ad un uomo che aveva lavorato duramente per raggiungere il proprio obiettivo. L’estate, però, mi ricordava anche il sogno che ero stato costretto ad abbandonare così prematuramente.
    Era a ciò che pensavo mentre, sorseggiando un caffè freddatosi ormai da svariati minuti, me ne stavo seduto su una sdraio malmessa che tenevo in giardino. Con lo sguardo puntato verso il cielo ancora azzurro e la mente persa nei ricordi, osservavo le foglie rosse e gialle che si staccavano dai rami degli alberi, mulinando docilmente nel lieve venticello autunnale prima di cadere a colorare il cortile.
    Mi scostai qualche ciuffo di capelli che mi era ricaduto a nascondermi gli occhi, massaggiandomi il braccio sinistro in un gesto così naturale che ormai sembravo non farci più nemmeno caso quando lo compivo. Da quando era accaduto quel brutto incidente era passato più di un anno, e da quel momento non avevo più avuto il coraggio di prendere in mano una palla. La cosa peggiore era che il baseball mi mancava. Il mio miglior amico, Stephen O’Neal, mi ripeteva di continuo di non pensarci, poiché così non facevo altro che farmi più male di quanto avessi bisogno. E Stephen sapeva il fatto suo. Lo conoscevo da quando era un tappo di sughero di soli sette anni, e già allora sembrava avere un’aria da uomo vissuto difficile da trovare sul viso di un bambino così piccolo. Sua madre era morta quando lui aveva solo sei anni, e suo padre, un ubriacone violento che aveva sempre sperperato i loro fondi in whisky scadente, aveva fatto la sola cosa buona in tutta la sua vita affidandolo a sua sorella. Stephen aveva così vissuto con sua zia fino ai diciott’anni, ma non aveva mai rimpianto il suo passato. Come venticinquenne, adesso, era fiero della sua vita: una bella casa, una buona educazione, una zia che l’aveva cresciuto come un figlio e l’impiego che aveva sempre sognato. Quanto a me, invece, in confronto a lui mi sentivo un emerito fallito nonostante tutto.
    Scossi la testa, alzandomi una volta per tutte; ripensare a Stephen mi aveva fatto ricordare che per quella sera ci erano tutti organizzati per vedere la partita a casa sua, nessun amico escluso. Avevo dunque poche ore per prepararmi e partire alla volta di Sun Valley Lake, distante un’ora e mezza  circa da Charwood Street, ovvero dove abitavo io.
Avrei anche dovuto preparare una piccola valigia, giacché Stephen mi aveva invitato a restare a dormire come quando eravamo dei ragazzini. La cosa mi faceva sorridere e mi imbarazzava al tempo stesso, forse perché da un po’ di tempo a quella parte avevo cominciato a vedere in Steve qualcosa di più di un semplice amico.
    Scacciai anche quei pensieri ed aprii la porta a vetri per entrare, passando accanto al telefono riposto sul piccolo tavolinetto in legno di noce che avevo avuto in regalo da uno dei miei amici lo scorso compleanno. Matthew, l’artefice di quel piccolo scherzo, se così lo si voleva chiamare, aveva commentato con un divertito «Tra tutte queste cianfrusaglie, manca qualcosa che può servirti davvero» e aveva così deciso di regalarmi quel tavolino intagliato. Regalo eccentrico, proprio come chi l’aveva comprato. Mi fermai davanti all’apparecchio, squadrandolo con attenzione mentre mi domandavo se non fosse il caso di disdire l’appuntamento con il quartetto novantanove [2]. Quello strambo nome era nato così, una sera di quasi tre anni addietro: un po’ troppo ubriachi avevamo stupidamente sommato le nostre età ed era nato quell’assurdo gioco di numeri.
    Scossi ancora una volta la testa, che frattanto aveva cominciato a dolermi come ormai capitava da quando avevo avuto quell’incidente, allungando una mano per prendere la cornetta e comporre il numero di Stephen, ma proprio in quello stesso momento il telefono squillò, facendomi trasalire. Nervoso, io? Alzai titubante il ricevitore, accostandolo all’orecchio. «Pronto?» pigolai, con il tono basso di un bambino che chiede al padre di controllare se ci sono mostri nell’armadio.

    La voce squillante di Stephen fu come un trapano elettrico contro le pareti del mio cervello. «Ehi, tutto okay? Hai una voce...» di sottofondo si udivano altre voci maschili, schiamazzi, risate e quello che sembrava essere un film di guerra di serie B.
    Mi portai una mano alla fronte e scossi la testa, rendendomi conto solo in un secondo momento che Stephen non poteva vedermi. Così aggiunsi: «Ero fuori, avrò preso freddo», mezza bugia, ma cosa importava? Se avessi detto la verità ne avrei ricavato solo una ramanzina in stile paterno.
    Un piccolo sbuffo si insinuò nel crepitio della cornetta. «Vedi di non ammalarti. Tu sei l’anima della festa, Juggernaut [3]».
    A quel dire sospirai. «Lo sai che i giorni in cui venivo chiamato così sono finiti, Steve», ribattei, picchiettando distratto sul legno del ripiano. «Piuttosto, come mai hai telefonato?»
    «Io e i ragazzi ci chiedevamo che fine avessi fatto».
    Sollevai un sopracciglio. «E perché mai?»
    «Come sarebbe a dire perché?» mi domandò, e dal suo tono fui quasi certo che, se avessi potuto guardarlo in viso, in quel momento, l’avrei visto con gli occhi sgranati. «Ti aspettavamo un’ora fa!»
    Stava forse scherzando? A quel mio muto quesito, mi ritrovai a gettare una rapida occhiata all’orologio appeso al muro, esattamente accanto alla libreria ormai stracolma di libri e tante di quelle cianfrusaglie da risultare inguardabile. Le lancette segnavano orribilmente le sei e mezzo del pomeriggio. Possibile che fossero passate le cinque e io non me ne fossi minimamente accorto? Mi ritrovai a sospirare ancora. «Scusa, Steve», mormorai poi. «Là fuori avrò perso il conto dei minuti che passavano».
    Si susseguirono poi attimi di silenzio, come se dall’altro capo del telefono Stephen stesse pensando intensamente a qualcosa. Io trattenni stupidamente il fiato mentre attendevo una sua qualsiasi parola, sentendolo infine imprecare a denti stretti con il suo forte accento canadese, che veniva fuori solo quando stava perdendo la pazienza. «
È successo di nuovo, vero?»
    Ci misi un po’ a capire che cosa intendesse, forse ancora convinto che avesse capito che avevo ricominciato a pensare al baseball. Sarei persino scoppiato in una risata isterica se non mi fossi trovato al telefono proprio con lui. «Nay, Steve, non è successo», attesi una qualsiasi replica, ma, non giungendo, dissi: «Parola di boy scout. Sai bene che te lo direi».
    Steve borbottò fra sé e sé qualcosa che non riuscii a capire, però subito dopo domandò: «Nessuna attività paranormale, quindi?»
    «Nessuna attività paranormale», confermai, facendogli il verso e rassicurandolo al tempo stesso, dato il sospiro di sollievo che si lasciò sfuggire. «Né brevi visioni sul futuro né tanto meno qualche strambo viaggio nel tempo».
    In realtà non predicevo il futuro, anzi, tutt’altro; ciò che io ero in grado di fare era captare ogni singola percezione o molecola nell’aria e trasformarla poi, attraverso ad un processo molto simile a quello che operava sulle particelle subatomiche, in una sorta di visione che mi permetteva di conoscere anticipatamente gli eventi prima che essi si manifestassero. Forse era per quel motivo che la capacità di vedere quel filo conduttore veniva spesso scambiata per chiaroveggenza dalle poche persone che ne erano a conoscenza. Ciò che davvero mi spaventava - e che avevo confidato soltanto a Steve - erano i flashback sul passato che avevo. Ero capace di rivivere interi attimi senza che nella realtà fosse passato un solo secondo, a meno che non mi capitasse all’improvviso. A quel punto potevano scorrere ore quanto qualche minuto, ed erano quelli i momenti che mi terrorizzavano di più. Mi si aprivano dinanzi agli occhi piccole finestrelle su epoche antiche, o momenti nell’età moderna che non ero stato però io a vivere. L’ultima volta che era accaduto mi ero ritrovato sulla East Coast, davanti alla porta di una certa Tiffany.
    Fortunatamente erano passati due mesi da quelle mie ultime visioni. Tutto ciò era cominciato il giorno dell’incidente: mi trovavo in auto, quel tardo pomeriggio di un anno addietro, e stavo percorrendo la statale che portava a St. Louis per l’ultima partita di campionato. Ricordavo ancora che stavo ascoltando una canzone di Ben E. King prima che quel camion sbucasse letteralmente dal nulla e mi venisse addosso, travolgendo la mia vecchia mustang. Era stato soltanto per miracolo che non ero morto sul colpo, secondo i medici, ma da quel momento il mio cervello aveva cominciato a funzionare nel modo sbagliato. All’inizio avevo pensato che si trattassero di semplici visioni provocate dallo stato confusionale in cui mi ero ritrovato; poi avevano cominciato a farsi sempre più frequenti ed ossessive, e, parlandone, Steve mi aveva consigliato di andare da un bravo psichiatra per affrontare il trauma. Non era però servito a niente e quelle visioni erano continuate, e ad esse si erano aggiunti quegli strani viaggi tra epoche passate e presenti che avevano fatto sì che iniziassi a preoccuparmi davvero della mia salute mentale, specialmente dopo essermi ritrovato nella Francia rinascimentale. Ci avevo passato solo poche ore lì, certo, ma erano state le più lunghe di tutta la mia vita.
    Sebbene avessi tentato in tutti i modi di disfarmi di quel potere che mai avevo voluto ottenere, mano a mano che tali fenomeni si presentavano avevo però imparato a controllarli in minima parte; ormai era da molto che convivevo con quel peso sulle spalle, e avevo capito che potevo soltanto accettarlo. Spesso e volentieri avevo pensato di sfruttare quel dono per tornare indietro e poter giocare nuovamente a baseball, ma non sarebbe cambiato assolutamente niente: il braccio che avevo sempre utilizzato per lanciare le mie palle ad effetto era ormai andato, e ripiombare in quei tempi non avrebbe fatto altro che farmi vivere un’utopia. I giorni del baseball erano finiti, dovevo mettermelo bene in testa.
    «Johnny?» La voce di Stephen mi giunse lontana e ovattata, e mi ritrovai a sbattere le palpebre come se mi fossi appena destato da un lungo sonno. Ero decisamente fuori fase, quel giorno.
    «Ci sono, Steve, ci sono».
    «In teoria, forse», ironizzò. «Ti avevo chiesto se sei ancora dei nostri o se preferivi restare a casa, a titolo informativo. Lo capirei, se così fosse».
    Dalla sua voce traspariva premura, e sorrisi proprio perché non poteva vedermi. «Fate finta che sia già lì, ragazzi», scherzai anch’io, strappandogli uno sbuffo divertito.
    Dopo vari convenevoli ed ultimi saluti riagganciammo, e io mi diressi in camera per recuperare la prima valigia che riuscii a trovare. Misi al suo interno il cambio per un paio di giorni, arraffando poi anche una giacca a vento prima di imboccare il corridoio che dava sull’ingresso.
Dovetti scostare dal mobile parecchie riviste sportive per riuscire a trovare le chiavi sepolte sotto di esse, ma una volta afferrate uscii di casa e bloccai la serratura, avanzando verso la mia auto. Giacché la mia Mustang del ’73 - una bella bambina rosso fiammante di 5800 cc di cilindrata alla quale parecchie persone avevano messo gli occhi addosso, facendo sì che mi guadagnassi le loro antipatie - era stata ridotta ad un catorcio, ero stato costretto a sostituirla con una Cadillac Eldorado usata di un bel nero brillante. Non era come la mia piccolina, certo, ma ci avrei ben presto fatto l’abitudine.
    Non appena sfiorai la maniglia lucente della portiera, però, fui colto da un orribile presentimento e allontanai la mano di scatto, quasi mi fossi appena ustionato. Avevo il respiro velocizzato e persino gli occhi spalancati. Cosa poteva mai significare quella sensazione? Da cosa stava cercando di mettermi in guardia? La paura ritornò ad insinuarsi prepotentemente nel mio animo, e mi ritrovai a stringermi le braccia al petto in un gesto di protezione, avvertendo brividi di freddo corrermi lungo la spina dorsale.
    Riuscii ad entrare in macchina solo quando mi calmai. Era stato piuttosto difficile, in verità, ma farmi fermare da una delle mie sensazioni era da escludere. Forse il fatto che si fossero ripresentate dopo due mesi avrebbe dovuto farmi pensare, ma purtroppo non fu così; misi in moto e partii alla volta di Sun Valley Lake, guidando ininterrottamente per quarantacinque minuti mentre il sole cominciava a calare all’orizzonte. Fu proprio nel prendere la svolta a destra che accadde l’irreparabile: non vidi in tempo l’auto che sfrecciava verso di me, ma tentai di ruotare il volante e sterzare per evitare che mi finisse addosso. Prima che andassi a sbattere contro l’albero che mi si parò dinanzi, ebbi appena il tempo di proteggermi il viso con le braccia, vedendo il mondo intorno a me divenire nero come la pece. Il presentimento che avevo avuto si era concretizzato.







[1] Titolo di una doujinshi del circolo Rock’n’dolles rilasciata nel dicembre del 2006, e fa parte per l’appunto della “Breaking the World series” composta da tre volumi. Anche le frasi in corsivo sotto al titolo sono tratte da quella stessa doujinshi.

[2] È un richiamo a Final Fantasy X che non ho resistito ad inserire, ed indica un cocktail che può venir creato grazie al Turbo di uno dei personaggi del gioco, ovvero Rikku. Il nome è nato davvero perché sommando le età dei protagonisti della storia il totale dava novantanove.

[3] Termine inglese usato per indicare una forza inarrestabile, reale o metaforica. Deriva dal Sanscrito Jagannātha, ovvero “Signore dell’Universo”, ed è uno dei molti nomi della divinità Krishna, dalle antiche scritture Veda indiane.


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