azzurro plastica che le tormentava la mente, causandole un fastidioso cerchio alla testa e facendole tremare le ginocchia.
“Ma perché sono qui?”, si chiese Lyra sbuffando,
mentre si appoggiava con lentezza al muro scrostato di una casa,
con il fedele Pantalaimon al suo fianco. Fissò per un po’ un punto
imprecisato davanti ai suoi occhi, prima di chiuderli,
sperando di potersi riposare in qualche modo.
Grande errore. La risposta a quella apparentemente insensata domanda giunse
fin troppo presto, complice il buio che non le dava pace. Era lì
per dimenticare.
Le bastava socchiudere le palpebre, distrarre un attimo la sua mente, che i
ricordi e immagini sempre più sfocate la tormentavano, senza lasciare
spazio ad altro.
Ombre di bambini morti. Streghe maledette. Coltelli insanguinati che tagliano
la realtà. Morte. Amore. Amore…
E loro. Persone, che in un vortice le portavano una parola, un episodio che
poteva farla sorridere, arrabbiare o diventare triste. Molto spesso la prendevano
per pazza, mentre camminava per qualche via isolata e scoppiava a ridere insensatamente.
Vagava, si perdeva nella città e in sé stessa sperando di smarrire
anche la memoria. Il suo ricordo. Lui, che non la lasciava in pace, nei sogni
più dolci o gli incubi più orrendi.
E istintivamente le sue labbra pronunciarono quel nome.
<< Will… >>
Pantalaimon si accucciò più vicino a lei, un cane abbaiò
in lontananza, il vento si alzò per pochi secondi. Lyra vide.
E lui sentì.
…
Oxford. O meglio, questa Oxford, come ormai era solito chiamarla lui, e non solo inconsciamente. Più di una volta quell’abitudine gli era valsa una figuraccia con i suoi compagni, oltre che qualche occhiata curiosa. Si voltò verso la ragazza dietro di lui.
<< Mi hai chiamato? >>, mormorò perplesso.
Lei lo guardò un po’ interdetta, come se indecisa se parlare, poi abbassò lo sguardo e disse piano:
<< No, assolutamente… >>
Will, ignorando dolorosamente quel tono afflitto e irritato, continuò
a camminare con passo svelto, calpestando le foglie secche sul prato. Sentì
il latrato di un cane, in lontananza, e una raffica di vento improvvisa gli
scompigliò i capelli e lo fece rabbrividire.
E il suo pensiero volò a lei.
Si fermò di botto, come volesse concentrare ogni fibra del suo essere
verso quel ricordo che lo aveva colto. Chiuse gli occhi, cercando di catturare
quell’immagine…
Lyra era seduta per terra, a occhi chiusi e con le gambe incrociate, come meditando
qualcosa. C’era anche il suo daimon, ne era sicuro… Eppure non riusciva
a capire a quando appartenesse quel momento, che gli era caduto addosso così
inaspettatamente. Chissà cosa stava facendo, in quel momento? Chissà
se lo stava chiamando…
<< Will. >>
La voce cristallina di Christine Evans lo richiamò bruscamente alla
realtà. Lui ricambiò quello sguardo - fermo come non l’aveva
mai visto – con un po’ di nervosismo. Era doloroso ammetterlo, ma
quei tratti del viso… Quei capelli biondo cenere, sempre un po’
in disordine, gli occhi limpidi e profondi, e il modo di fare schietto e diretto…
Le ricordava così tanto lei, sia nell’aspetto che in alcuni
atteggiamenti. Ma quel suo atteggiamento timido e indifeso, quell’innocenza
esasperata e la gentilezza dei modi lo irritavano in maniera fastidiosa, e gli
ricordavano che quella ragazza, che definiva sua fidanzata, non era altro che
un passatempo, una foto-ricordo, un modo qualsiasi per sfogarsi.
Era diventato cinico, ma quasi non se ne accorgeva, scambiando questo suo atteggiamento
per l’amore che ancora provava per Lyra.
<< Dimmi, Chris. >>, disse in maniera forse un po’ troppo sbrigativa.
Lei lo guardò un ultima volta e poi scosse la testa.
<< Pensi ancora a lei, vero? >>
<< Co..Cosa? >>, domandò lui, spiazzato.
<< Massì, la tua ragazza. Quella che ami davvero, a cui pensi in continuazione... Dimmi, le somiglio? >>, chiese con semplicità, e con un distacco tale da lasciarlo inibito.
<< I-Io… - sospirò - …Sì, molto. Troppo. >>
Lei gli sorrise debolmente: << Capisco. Beh, in fondo è giusto che sia così. Ci lasciamo. Addio, Will, cerca di essere felice senza di me. >>, e senza versare una lacrima, senza dire altro girò i tacchi e si allontanò con lentezza.
Will restò a fissare la sua figura esile fino a che non sparì
completamente dalla sua vista. La verità lo aveva colpito, ancora e dolorosamente.
Sapeva che il suo daimon lo stava seguendo da lontano, e la sua presenza lo
confortava di malgrado. Il vento continuava a soffiare, portando con sé
cenere e foglie, frammenti d’autunno e di ricordi, memorie che parlavano
di avventure lontane…
Improvvisamente si sentì stanco. Molto stanco. Si guardò intorno
confuso, con uno strano cerchio alla testa che gli impediva di pensare con lucidità.
Vide una panchina, nel parco di quella zona periferica di Oxford, e decise di
sedersi… Solo per cinque minuti....
“Solo un attimo…”, pensò prima di cadere profondamente addormentato.
Nel frattempo, Lyra stava guardando il cielo della sua Oxford diventare sempre
più scuro, mentre i pochi rumori di quella via isolata si facevano più
quieti… Distanti. Pantalaimon dormiva accucciato nel suo grembo, e anche
lei avrebbe voluto riposare… Non un sonno inquieto, popolato da visioni
che portavano il suo viso, un vero e proprio riposo, per cui sorridere sereni
al risveglio. Qualcosa che le mancava da tempo, come testimoniavano quelle ombre
scure sotto gli occhi alla quale ormai avevano tutti fatto l’abitudine,
visto che la stanchezza non intaccava, apparentemente, quel suo modo di fare
energico e deciso.
Abbandonatasi alle riflessioni astratte, non lo sentì, all’inizio…
Il vento si alzò appena, la brezza della sera le scompigliava i capelli
sempre in disordine, facendola sbuffare. Doveva tornare a casa… Doveva…
Sì, doveva fare molte cose… Ma era così stanca, avrebbe
riposato solo cinque minuti, un attimo solo.
Così chiuse gli occhi, e all’inizio non sentì il dono portato
dal vento ramingo.
Una musica. Un crescendo di suoni indefinibili, più sottili dello stormire
delle fronde, più possenti del tonfo delle onde sulle rive rocciose,
più armonioso dei silenzi nelle terre del nord…
E quei suoni infiniti e tristi, come cantati dalle anime perdute dei morti,
la guidarono nel sogno…
Ma non era sola.
Dormire… Morire… Sognare, forse?
Le dimensioni terrene sono infinite e periodiche, si estendo in ogni frammento
di esistenza, occupandone ogni centimetro fino a soffocarlo. Decisamente, sia
Lyra che Will dovevano tanto agli altri universi, e soprattutto grazie agli
studi sulla Bussola non potevano dirsi degli ignoranti in queste oscure materie…
Sì, entrambi ringraziavano e maledivano la divinità o il fato
che li aveva fatti incontrare, e soprattutto pensavano con nostalgia agli altri
mondi inesplorati che li circondavano. Sapevano cosa voleva dire.
Avevano visto anche la dimensione della Morte, ma ancora non conoscevano quella del Sogno…
Will sentì un caldo improvviso, una sensazione di soffocamento che gli
faceva bruciare la pelle e i polmoni, e aprì gli occhi di scatto. Il
bianco assoluto lo colpì come una lama sottile, e li richiuse lacrimanti.
Si alzò a fatica, strofinandoseli con vigore, e li riaprì.
Bianco assoluto. Una distesa di ghiaccio artico, senza confini, era davanti
ai suoi occhi.
“Ma dove diavolo sono…?”, si chiese sempre più confuso, guardandosi disperatamente intorno. Cercò di ricordare, ma la memoria gli sfuggivano come acqua fra le mani… Era a Oxford… Non ricordava esattamente quale… Quale? Quante ne esistevano? Comunque, sentiva di dover ricordare… Lui era là, insomma, con una ragazza… E pensava ad qualcuno… Un’altra ragazza, una persona importantissima… Ma era la stessa persona che era lì con lui, in quel momento? I due visi si sovrapposero nella sua mente, sempre più confuso si prese la testa fra le mani, sedendosi a terra. Non sentiva freddo, eppure quella sotto di lui era neve, e il cielo grigio e nuvoloso oscurava il sole, mentre un vento insistente muoveva le cime degli alberi spogli…
Decise che non era il caso di rimanere là a perdersi nella contemplazione del paesaggio, ma incominciò a camminare verso un punto imprecisato, sperando di incontrare qualcuno che potesse spiegargli dov’era, ma soprattutto come ci era arrivato…
Non si accorse, Will Perry, che i suoi piedi non lasciavano impronte sulla
neve.
Non si accorse che il vento gelido dell’artico non gli sfiorava nemmeno
la pelle, e non gli scompigliava i capelli.
Non si accorse di essere in un posto già visto, non ricordò quelle
valli.
Non sapeva di essere lui stesso, un ricordo, come non poteva sapere di non
essere l’unico, estraneo a quel tempo ad esser stato proiettato lì.