Tolgo la carta. E’ nella mia mano: la ingoio.
Entro. Sono come quattromila e quattrocento impulsi che vedo come crisi allucinate dentro i miei nervi, nel mio cervello.
La musica e la folla e le mani alzate che si scontrano. Clap.
I loro capi che si scuotono. Musica ancora più forte. Sono con loro nel movimento e nello sfregarsi al rumore di un ritmo. Le luci mi abbagliano nel loro accendersi e spegnersi.
Mi avvicino al bancone del bar. Whiskey nel bicchiere. Il bicchiere sulle mie mani. Il whiskey sulla mia lingua e poi nella mia gola. Brucia: mi piace. Ritorno in pista e già la musica mi taglia di nuovo le orecchie. Mi avvicino ad una tipa che mi guarda. Occhi di ghiaccio. I suoi stivali di pelle. Non posso parlare con lei: ogni parola che nasce viene stuprata dalle note. Usciamo fuori. Pochi attimi e già è nuda. Le conosco le tipe come voi: le vedo ogni giorno. Sento il suo rantolare. Quando tutto sembra già finito, non lo è però per me. Non è giusto.
Ho sentito emozioni come un elettroshock sulla la pelle. Dicevano di me di una personalità confusionaria e alquanto borderline. Non importa. E’ bello vedere quel lago laggiù. Voglio tuffarmi. Salgo su una roccia e sto per lanciarmi. Mentre volo nell’aria sento la voce di quella di prima. Non gettarti da quella scarpata: lo gridava lei. Stupida. Voglio solo toccare quell’acqua. Di una frase dopo sento solo la parola asfalto. Cado a picco nell’aria. Voglio la frescura dell’acqua. Non voglio altro. Non importa cosa vedano gli altri per me. Sono soltanto un piccolo figlio della perdizione e cado.
Un tonfo, è un vero tonfo se nessuno lo sente?