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Autore: Exelle    26/06/2011    5 recensioni
“Mi fido della tua educazione, Charles. So che non lo farai.”
“Chi te lo dice?” replicò Xavier, sentendo Erik curvarsi sempre di lui.
“Nessuno. E’ un piccolo rischio che posso permettermi, almeno adesso.”
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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The All and The Nothing


 
“… Come se non sentissi più le gambe… Non sento più le gambe… Non  sento più…”
 
 
1964
 
Spalancare gli occhi su un soffitto nero pece, nella stanza ancora in ombra, fece sentire Charles cieco e ancor più debilitato di quanto già non fosse.
Nella sua testa,  per il momento sgombra da pensieri altrui, distorsioni mentali e cicalecci di subconsci contorti, risuonava la sua stessa voce, alimentata dall’eco di un ambiente diverso,        più grande, desolato e aperto. 
La voce, la sua stessa voce, riecheggiava nella sua testa con lo stesso tono ansioso, prima flebile, poi sempre più agitato, di quando si era reso conto che quel proiettile nella schiena era stato ben più della conseguenza di un risvolto teatralmente tragico.
Ma, quando provò a riascoltarsi stando lì, sdraiato nell‘oscurità, a ricordare qualche minimo dettaglio di quel giorno passato, si accorse che le sensazioni si erano dileguate assieme ai sogni, lasciandogli solo ricordi frettolosi, così poco definiti da non apparirgli suoi. Ricordi a cui avrebbe dovuto prestare più attenzione, perché ora non gli restava altro che aggrapparsi alla malinconia. 
Si sollevò un poco, appoggiandosi con i gomiti, dopo aver allontanato un poco le coperte da sé. Poi, puntellandosi sulle mani chiuse a pugno, cercò di mettersi seduto, fingendo d’ignorare quell’orribile sensazione di peso che avvertiva nel trascinare le gambe inerti, ancora nascoste dalle lenzuola.
Avrebbe voluto costantemente rimpiangere i giorni in cui aveva potuto fare le cose più normali, senza dover pensare a quanta fatica quelle stesse azioni costassero. Ma Charles non lo voleva permettere.
Non lo poteva permettere, anche se sollevarsi dal letto ogni mattina, con la sola forza delle braccia, appariva ogni giorno più difficile e scoraggiante.
Allungò un braccio verso l’alto comodino alla sua destra, cercando, a tentoni, la sveglia di metallo. Tuttavia, a causa del buio in cui era ancora avvolta la stanza, riuscì solo a colpirla, facendola cadere sul pavimento con un suono sordo, attutito dal tappeto. Charles provò a piegarsi giù dal letto per provare a raccoglierla, con il solo risultato di sbilanciarsi verso il bordo del materasso. Provò l’orribile sensazione di cadere e mentre metteva un braccio davanti agli occhi per non picchiare la faccia, le dita dell’altra mano cercarono inutilmente di aggrapparsi alla federa del letto, con il solo risultato di strapparla.
Con un suono a metà tra un ringhio e un gemito, Charles cadde trascinando parte delle coperte con sé e si ritrovò per terra, sdraiato per lungo, la testa indolenzita per aver cozzato con lo spigolo del comodino e il braccio ancora teso a mezz’aria.
Sentì il sangue affiorargli al volto, mentre gli occhi, che ancora faticavano a mettere a fuoco la camera, cominciavano a bruciare. Per la vergogna. Per il fallimento. Per disperazione.
Prima di rendersene conto, si ritrovò a picchiare violente manate per terra, mentre lacrime sottili   cominciavano a rigargli il volto. Avrebbe voluto prendere il pavimento a calci, ma il solo pensiero di essere impossibilitato a fare anche quello, gli provocò una nuova ondata di furia che si risolse solo con l’abbassare la testa, cercando di soffocare i singulti e l’orribile senso di oppressione che gli schiacciava il petto.
Charles aveva sempre creduto che il dolore dell’umiliazione vissuto in solitudine, fosse più sopportabile di quello in presenza di altri. Si era sbagliato.
Chiuse gli occhi, sforzandosi di non pensare. Si limitò a cercare qualche ricordo, un ricordo luminoso che gli avrebbe permesso di trovare la forza di sollevarsi.
Ma non si sorprese quando non ne trovò.
Poco dopo, quando la luce pallida del mattino iniziò a filtrare tra le imposte, permettendogli di individuare la sua sedia, si trascinò verso quella, gli occhi imperturbabili e il viso inespressivo, tendendo le braccia verso i braccioli di metallo.
 
O_O_O
 
 
“Cento anni fa, Francis Galton aveva parlato di selezione e incroci, al fine di un effettivo e possibile miglioramento della razza” il dottor Hendel Wilkes sollevò gli occhi grigi sulla platea. Quando tornò a chinare il viso verso il  leggio, le lenti dei suoi occhiali catturarono la luce, e per un attimo le sue iridi furono schermate da rettangoli opalescenti.
“Ora io mi chiedo, cento anni dopo, se questo non sia relativamente possibile. Dal 1889, abbiamo cercato di seguire questa linea di pensiero e…”
“Non solo di pensiero…” uno degli altri membri della conferenza si alzò dal tavolo, sotto l’occhiata arcigna di Wilkes, che non apprezzò l‘essere interrotto. 
“Vero. Ci sono programmi di selezione eugenetica ovunque, negli Stati Uniti.”
Le parole furono accolte con mormorii diffusi. Charles sentì un bisbiglio distorto attraversargli la mente, ma si sforzò di bloccare al di fuori le voci e rimanere concentrato.
“Capaci di partorire sciocchezze come il determinismo biologico-ereditario con  quell’idea di capire le deformazioni psichiche semplicemente misurando un cranio. Simili nozioni non dovrebbero essere ammissibili, né tantomeno discusse in un ambiente scientifico. Non sono credibili, non più” concluse il nuovo dottore, risiedendosi al suo posto sul palco, tra i timidi applausi del pubblico.
Un sorriso beffardo attraversò il volto magro di Wilkes. Anche se Charles era distante, su uno dei palchi in fondo all’auditorium potè vederne l‘arroganza. 
“Quelle stesse idee eugenetiche che lei critica, dottor Leighton, sono nate proprio qui, in Inghilterra, proprio in casa sua. Ora, lei rinnega quello che i suoi predecessori hanno teorizzato?”
Wilkes scrutò il pubblico in cerca di un qualche cenno di sostegno che non arrivò. La risposta di Leighton non si fece attendere.
“I predecessori possono anche non essere nel giusto. Cioè che è scritto, può essere riscritto più avanti, questo il modo in cui mi è stata insegnata la scienza, nel mio paese. Si può essere in errore.”
Charles scoccò uno sguardo ammirato al dottore, portandosi la mano alla tempia, per abitudine, riflettendo. Le parole di Leighton impiegavano una certa accettazione di caos e l’idea che tutto fosse inconoscibile, vero, ma per quanto ne sapeva erano molto più vere e concrete di tutte le parole di Wilkes, che in un ora, avevano attraversato le volte di  Glomister Hall.
Il sorriso del dottore americano si restrinse di un paio di molari ma non sembrò demordere e continuò:
“Solo perché esistono alcune aberrazioni e distorsioni di questo nobile ramo scientifico, non credo che ci siano prodotti…”
“Bene, passi direttamente a quello per cui è venuto il pubblico, signor Wilkes.”
Un altro dei partecipanti alla conferenza, aveva preso deliberatamente la parola, e ora puntava la punta della sua matita in direzione dell’americano, quasi accusandolo. Charles socchiuse gli occhi, preferendo poi distrarsi a guardare nella platea sotto di lui. Non c’era nulla di più fastidioso che vedere degli accademici rimbeccarsi con accuse. Bloccava solo la ricerca.
“Ci parli dei mostri di Cuba, Wilkes. Siamo davvero ansiosi di sapere che cosa le vostre fabbriche eugenetiche hanno prodotto, dottore.”
Charles si riscosse. Accanto a lui. le due persone che avevano occupato le sedie al suo fianco si alzarono e si avviarono all’uscita. Charles. rimasto solo, tornò a guardare verso il banco degli oratori, dove Wilkes era leggermente sbiancato, tra i sorrisi ben poco mascherati dei relatori inglesi.
“Per quanto l’evoluzione possa progredire nel corso degli anni, dubito sinceramente che una così rapida… mutazione, possa essere effettivamente possibile…” stava dicendo Wilkes, ma Charles ora non lo guardava. Distratto da un ombra di passaggio tra le file laterali della platea, si ritrovò, per un momento a guardare nel vuoto, mentre le nocche delle mani aggrappate ai braccioli della sua sedia metallica, sbiancavano. Cercò di estraniarsi da tutto, innalzando delle barriere mentali con cui ripararsi.
Tornò a guardare verso il palco, dove Wilkes, ancora intento a parlare si aggiustava gli occhiali dalla montatura spessa, leggendo da alcuni fogli. Ma Charles sembrava non sentirlo.
Avvertì la stessa fugace sensazione di quella mattina, quando era caduto dal letto e si era sentito così impotente, così incapace.
Wirklich zu sein scheint, wie er spricht, nicht wahr?” disse una voce in tedesco alle sue spalle.
“E’ convinto quanto basta” replicò Charles in tedesco. “Non credo faccia molta differenza comunque”, aggiunse in inglese.
Si sforzò di tenere gli occhi fissi su Wilkes, ma non riuscì a trattenere un occhiata verso Erik, mentre prendeva posto accanto a lui, aggiustandosi il soprabito grigio scuro.
“Niente schermi antintrusione?” domandò lentamente. Se Charles ne avesse avuto la possibilità, avrebbe giurato di aver sentito Erik sorridere.
“Mi fido della tua educazione, Charles. So che non lo farai.”
“Chi te lo dice?” replicò Xavier, sentendo Erik curvarsi sempre di lui.
“Nessuno. E’ un piccolo rischio che posso permettermi, almeno adesso.”
Charles rimase rigido, spostandosi impercettibilmente sul lato destro del corpo, lontano dall’altro uomo ma non resistette all’impulso di sfiorarsi la tempia, senza tuttavia provare a leggergli nella mente. Solo..
Una piccola minaccia.
“Non mi spaventi, Charles.”
“Non era mia intenzione” rispose ad Erik, trovando appena la forza di girarsi verso di lui, sempre parlando con un tono normale. Si accorse che dentro di sé, quell’orribile sensazione di rabbia repressa e di impotenza, cresceva sempre di più e tutto perché…
“Perché sei qui?”
“Che c’è?” sbottò Erik in una breve risata. “Un uomo non può tornare sui propri passi?”
Charles non replicò. Fu Erik a parlare ancora, con voce smorzata.
“Non era mia intenzione fermarmi a parlare con te. Non dopo così  tanto tempo.”
“Due anni non è molto tempo, Erik” rispose Charles debolmente. Cominciava a capire dove l’altro volesse andare a parare, e il solo pensiero di doverlo ascoltare fece fremere Charles, sentendo una sorda sensazione di dolore e furia invadergli il corpo.
Era come essere presi in giro, come costretto a doversi crogiolare nell’auto-commiserazione per lunghe ore, proprio come aveva fatto quella mattina.
“Charles, cosa ti è successo? E’ stato…”
Charles si voltò verso di lui, e avrebbe voluto ritrarsi, nel farlo. Erik lo stava guardando, gli avambracci appoggiati sulle ginocchia, le mani giunte.
Charles non sentì niente. La  furia che lo dominava, sospesa, mentre seguiva lo sguardo di Erik posarsi su quella sedia metallica che ormai non era nulla più di un’estensione del suo corpo.
E poi Charles capì. E fu quasi doloroso. Erik non si era avvicinato per scambiare qualche parola, ma solo... Per pietà.
“Non è niente, solo… un incidente” disse in fretta, pentendosi subito di aver parlato con voce troppo debole. “Passerà. Anche questo.”
Erik gli rivolse un lungo sguardo interrogativo, l’azzurro dei suoi occhi chiari più vivido nella penombra del palco. “Per un attimo ho pensato…”
“Non pensarlo” disse Charles in tono più rilassato, nonostante si sentisse ben più che teso. 
“Non voglio sentirlo” aggiunse con un sorriso che sperò sufficientemente sincero, benché fosse conscio di quanto in realtà fosse falso e triste.
Il viso di Erik rimase ancora un momento impassibile, poi, come se un pensiero lo avesse rassicurato, la sua fronte sembrò distendersi e gli occhi, apparvero liberi dalle ombre che per un attimo li avevano attanagliati. Charles avvertiva un’infinità di sensazioni che non riteneva possibile provare. Non contemporaneamente, non in quel modo.
Era un bugiardo, ma era anche onesto; era stato debole ma forte. Era come mentire ad una parte di sé.
Charles sapeva che non era né giusto, né che sarebbe stato privo di conseguenze.
Erik lo guardò ancora, ma quando si alzò, il suo sguardo era risoluto. Stringeva le mani a pugno, come se si stesse trattenendo dal porgere la mano a Charles, o anche solo dal dargli una pacca sulla spalla.
“Allora credo che questo sia un altro addio” mormorò, abbassandosi a recuperare il cappello abbandonato su una delle altre sedie, limitandosi tenerlo in mano e guardando verso la platea, come aveva fatto Charles per gran parte della loro conversazione. Ma ora Charles stava guardando lui, e quando gli parlò, i loro sguardi s’incrociarono un’ultima volta.
“Ti sbagli. Non esistono altri addii.”
Erik sorrise, mettendo in mostra i denti affilati in quel sorriso che Charles si era trovato tante volte a ricambiare. Ma ora sentiva che quell’entusiasmo era scivolato rapidamente nei recessi della sua mente, ed era così offuscato da quel giorno sulla spiaggia, che lo rendeva impossibile da identificare come un luminoso ricordo.
“Allora suppongo che ci toccherà rivederci, Charles. Sperando di non incrociare le nostre strade.”
Charles annuì, portandosi le mani in grembo, cercando di resistere a quell’istinto che voleva dirgli di gridare a Erik la verità, che era per colpa sua, solo sua, se ora si ritrovava a vivere una vita a metà, debilitato e incapace anche solo ad alzarsi dal letto al mattino. Costretto a fingere di aver trovato la serenità, là dove c’era solo rassegnazione.
Eppure non poteva, perché se quello era il prezzo che doveva pagare per aver voluto incrociare la sua esistenza con quella di Erik Lehnsherr, comprese che non ci sarebbe stata altra soluzione.
Erik gli rivolse un cenno, toccandosi appena la tesa del cappello.
“I tuoi amici scienziati ti aspettano” sussurrò, indicando la platea. “Attento a non finire loro cavia.”
Charles si voltò verso la platea, che ora andava svuotandosi. Il dottor Wilkes sostava ad un lato del palco, riordinando alcuni fogli. Gli altri dottori avevano ormai abbandonato il palco, seguendo il pubblico verso le corsie d’uscita. 
Charles non ebbe bisogno di voltarsi per capire che Erik se ne era andato. 
Bastava sentire la vaga e ormai familiare sensazione di vuoto, riprendere possesso del suo cuore.
Non l’avrebbe mai accusato di ciò che gli era accaduto. Non gli avrebbe mai detto la verità, né gli avrebbe fatto pesare la sua condizione.
Sapeva che si sarebbero rivisti e probabilmente su fronti opposti, ma preferiva veder nascere dell’odio piuttosto che pietà, negli occhi di Erik.
Charles gli aveva dato ogni cosa, ma non avrebbe mai permesso che il rimorso prendesse il sopravvento.
Gli aveva dato ogni cosa, senza lasciargli vincoli o frasi in sospeso, confidando che Erik ne avrebbe fatto buon uso. Ma forse, più egoisticamente perché, almeno in parte, lo voleva ancora un poco accanto a sé.



Ecco una storia che non dice nulla. Cioè. A parte il super disagio di Charles, of course. Mi serviva scrivere un dopo, qualcosa che collegasse l'ultimo prequel sugli X-Men alla trilogia principale. Spero l'abbiate apprezzata, almeno quanto ho apprezzato io nel vedere il film. Era dai tempi di Sherlock Holmes che non vedevo una coppia così promettente, e voi?

Un saluto, 
Exelle
Ed ecco qui il risultato.
  
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