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Autore: MrEvilside    26/06/2011    7 recensioni
Quando aveva incontrato il suo principe,
la principessa era stata affascinata dalla sua bellezza:
pelle bianca come le sue belle bambole, che ormai i mostri dovevano aver rovinato,
occhi rossi come i suoi capelli, conturbanti e pericolosi, in un certo senso,
capelli neri come la piuma che le aveva porto, sussurrandole che presto sarebbe tornato da lei.

!shouta-con
[ IV classificata al Fairytales Industries Contest indetto da Lolly_Deadgirl e WindOfTheNight ]
[ SebGrell ]
Genere: Dark, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Grell Sutcliff, Sebastian Michaelis
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Appena tornata da una crociera, vi sottopongo un racconto-fiaba: prima di leggerlo, dunque, sappiate che i personaggi (come anche le giudici hanno fatto notare) mancano un po' della solita introspezione, per il fatto che ho cercato di attenermi il più possibile agli elementi dati, tra cui la fiaba del Pifferaio di Hamelin. L'altro elemento è un'immagine, quella di un corvo.
Era un pezzo che non pubblicavo, e questa storia risale a marzo, ma spero l'apprezzerete lo stesso<3
In ogni caso ho dell'altro in serbo: tre one-shot SebGrell e una long-fiction (questo è un progetto in forse ^^) originale slash.






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Die Danse Macabre Von Der Piper
 
La principessa dai capelli rossi guardava fuori dalla finestra della sua camera da letto:
era tanto tempo che non usciva, perché temeva i terribili mostri che si aggiravano per il suo castello,
rovinavano i suoi vestiti,
rompevano i suoi giocattoli,
uccidevano i suoi sudditi.
 
Grell riposava rannicchiato contro una parete del granaio, cullato dal rumore della tempesta che infuriava fuori da quelle mura.
Aveva le gambe raccolte al petto, la testa mollemente reclinata contro il vecchio legno scomodo e un forcone in mano; immerso in uno stato di tormentoso dormiveglia, aspettava con ansia il ritorno di sua madre con qualcosa da mangiare.
Da quando i ratti avevano preso a moltiplicarsi a una velocità spaventosa e a rubare prima il cibo e in seguito la vita agli abitanti di Hamelin tramite il loro terribile morso, Natalie Sutcliffe non gli aveva più permesso di uscire di casa, né di muoversi senza il forcone, sebbene esso fosse alto il doppio di lui e pesante il triplo.
La storia dell’epidemia era serpeggiata in fretta nell’intera Germania e Hamelin era stata messa in quarantena: i suoi abitanti non avevano più potuto commerciare con nessuno e i topi avevano oramai divorato quasi ogni cosa che fosse commestibile. Sua madre gli ripeteva sempre che sarebbe andato tutto bene, quando Grell si svegliava dopo l’ennesimo incubo, tuttavia il bambino sapeva che molto presto il cibo sarebbe finito e loro sarebbero morti d’inedia oppure di peste.
Un improvviso rumore di passi lo riscosse dal torpore in cui era scivolato; pur sapendo che si trattava di un essere umano, Grell saltò in piedi e allungò il forcone davanti a sé.
Non erano i passi piccoli e affrettati di sua madre. Il bambino rimase in ascolto e per un istante sperò che si trattasse di suo padre. Poi si affrettò a scacciare quelle stupide fantasie: suo padre era morto di peste due settimane prima, quando avevano dovuto abbandonare la casa perché i ratti ne avevano occupato ogni più piccolo anfratto e Grell era quasi stato morso a sua volta.
Lo sconosciuto si muoveva, adesso silenziosamente, tra le ombre; il bambino non riusciva neppure a percepirne il respiro o la semplice presenza. Temeva che potesse essere uno degli abitanti di Hamelin: Natalie aveva scelto di rifugiarsi nel granaio perché era abbastanza lontano dalla loro casa e dal paese da non poter essere trovato con facilità né dai topi né dai suoi concittadini, che altrimenti le avrebbero chiesto un asilo che lei non avrebbe potuto dare loro, dunque aveva spesso ammonito suo figlio di non farsi vedere da nessuno.
Inaspettatamente, la luce di un lampo filtrò attraverso le assi delle pareti del granaio e illuminò una figura alta e snella china su di lui. Complice il successivo, fragoroso rumore del tuono, Grell arretrò frettolosamente nel trovarsi dinanzi quel volto dalla pelle di porcellana, i tratti graziosi di un angelo e gli occhi scarlatti di un demonio che lo scrutavano con terribile intensità.
«Reggi questa, bimbo» sussurrò lo sconosciuto nel mettergli in mano qualcosa – a scapito del forcone, che cadde tra la paglia – che inizialmente, preda del terrore, il bambino non riconobbe; poi, quando la luce sfavillò tra le sue dita e il calore si irradiò dalla fiammella che era sbocciata, realizzò che si trattava di una candela.
«Ma…» borbottò, stregato dal fuoco e al tempo stesso rabbuiato «… la mamma non vuole che accenda delle luci, altrimenti…»
Tacque e arrossì d’indignazione nel rendersi conto che l’uomo non lo stava ascoltando: si lasciò cadere seduto laddove poco prima era accovacciato lui, si sfilò dalla testa uno strano cappello, simile a quello largo e cadente dei menestrelli, decorato da una piuma cremisi, lo depose sul pavimento e vi distese sopra uno strano strumento, con estrema cura.
Era un lungo tubo color argento, come Grell non ne aveva mai visti; dimentico della paura e dello sdegno, lo indicò e chiese: «Quello che cos’è, Herr[1]
«Il mio piffero» ribatté lo sconosciuto, laconico.
Il bambino sollevò gli occhi dallo strumento a lui e scoprì che le iridi che alla luce del lampo gli erano sembrate rosse in realtà erano di un caldo, comune color ambra – l’uomo, in ogni caso, rimaneva la creatura più bella che lui avesse mai visto.
Abituato ai visi duri e un poco sporchi dei contadini di Hamelin, quei lineamenti spigolosi, quella pelle perfetta e in particolare quegli occhi così penetranti erano quanto di più meraviglioso avrebbe mai immaginato di contemplare. Lo sconosciuto indossava una veste totalmente nera, dalle maniche a sbuffo dei saltimbanchi che a volte venivano a Hamelin per la fiera di primavera, una borsa di pelle marrone che portava a tracolla e scarpe lucide, color antracite, di fattura pregiata.
«Wie heiβt du, Herr?[2]» domandò ancora, affascinato da quella presenza che lo rassicurava e inquietava insieme.
L’uomo lo soppesò con lo sguardo, poi liquidò la sua curiosità con un lapidario: «Pifferaio».
Grell pensò che non avrebbe potuto esserci nome più adatto per lui: suonava un piffero, dunque era un “pifferaio”; soddisfatto, pose un altro quesito: «Non vuoi conoscere il mio nome, Herr
Era ben consapevole di essere un bambino grazioso: non troppo alto né eccessivamente magro, aveva una pelle molto chiara, le labbra color ciliegia, gli occhi verdi e i capelli – dei quali andava estremamente fiero – lunghi, rossi e morbidi. Non esisteva ragione al mondo per cui il Pifferaio non avrebbe dovuto voler conoscere il suo nome.
«No» lo stupì l’uomo, senza neppure guardarlo in faccia. «Mi serve il tuo granaio per ripararmi dalla pioggia, tutto qui: che importanza vuoi che abbia come ti chiami, bimbo?»
Grell avrebbe voluto fargli notare che quello era il suo granaio e che, parlando a quel modo, il Pifferaio non se lo stava affatto ingraziando, quando l’uomo infilò una mano nella borsa e ne trasse una pagnotta che sembrava, se non fresca, perlomeno non più vecchia di mezza giornata.
Il Pifferaio la sgranocchiò svogliatamente, come fosse un insignificante frammento dei lauti banchetti cui era solito prendere parte, mentre il bambino fissava famelicamente il pane e strisciava tra la paglia nella sua direzione, sforzandosi di passare inosservato.
L’uomo, tuttavia, alzò inaspettatamente gli occhi e lo colse in fallo nel momento in cui stava muovendosi con cautela verso di lui. Lo studiò per un istante e apparve quasi divertito dal suo comportamento, divise in due la pagnotta e gliene porse una metà; Grell tese un braccio, afferrò il cibo e lo addentò con desiderio.
Il Pifferaio l’osservò divorare la pagnotta con un angolo della bocca stirato verso l’alto. «È da molto che non mangi, eh, bimbo?»
Il bambino mugolò qualcosa di incomprensibile, a bocca piena, che l’uomo scelse di considerare un assenso. Non disse altro – Grell non era del tutto certo che stesse aspettando che fosse lui a parlare, oppure che semplicemente non volesse farlo – finché il bambino non ebbe terminato di mangiare e spezzò ancora una volta il silenzio: «Hai visto la mia mamma, Herr? Era andata a prendere del cibo, ma non è ancora torna…»
«Quando tua madre sarà tornata,» l’interruppe il Pifferaio «dille che potete tornare alla vostra casa, dopo che il temporale sarà finito. I topi sono andati via per sempre. Hamelin è salva».
Quell’uomo aveva la stupefacente capacità di irritare profondamente Grell e di catturare del tutto la sua attenzione il momento successivo; guardandolo a occhi spalancati, il bambino gracchiò, con la voce esacerbata dallo stupore: «Davvero? Possiamo tornare a casa? Davvero?» Poi si incupì e lo fissò di sottecchi, sospettoso. «E tu come fai a saperlo?»
Il Pifferaio incrociò il suo sguardo per un lungo istante – quegli occhi immobili e conturbanti lo affascinarono e turbarono insieme – e increspò le labbra nel sorriso più bello che Grell avesse mai visto, tanto che lo fece avvampare. Infine disse, quasi con dolcezza: «Lo so. Li ho visti annegare nel fiume che ha straripato a causa della tempesta».
E quelle parole furono verità, per il bambino. Non fece domande su come tutti i topi avessero potuto annegare, né come avessero potuto pensare, nella loro minuscola mente, di avvicinarsi al fiume durante un temporale simile. Semplicemente, seppe che il Pifferaio non mentiva.
Inaspettatamente l’uomo si alzò in piedi, raccolse il cappello, che si calcò nuovamente in testa, ripose il piffero nella bisaccia a tracolla e annunciò, senz’alcuna particolare inflessione nella voce: «Me ne vado, a breve smetterà di piovere». Lo osservò per un momento, pensoso, e soggiunse: «Puoi tenerti la candela finché non fa giorno. Ricorda quello che ti ho detto».
«E dove vai, Herr?» volle sapere Grell, interdetto. Non si aspettava che quella sorta di apparizione, che gli stava provocando il batticuore come mai nessuna bambina era riuscita a fare, se ne andasse così presto. Non voleva. Si allungò verso di lui, carponi tra la paglia, e gli afferrò un braccio. «Non puoi rimanere ancora un po’?»
«Ich kann nicht, Kind[3]» rispose il Pifferaio, sebbene non si fosse più mosso dopo che il bambino gli aveva stretto il braccio. «Devo andare via: io viaggio molto, sai» spiegò con fare paziente.
«Non tornerai mai a Hamelin?» insistette Grell. «Nemmeno se sai che ci abita un bambino bello come me?»
L’uomo inarcò un sopracciglio, chiaramente poco convinto dalla sua argomentazione, tuttavia non smetteva di scrutarlo con estrema intensità, immerso nelle proprie riflessioni. Infine sfilò la piuma scarlatta che portava sul cappello e gliela porse. «È una promessa» disse, trattenendola tra le dita quando il bambino fece per prenderla «che tu starai ad aspettarmi finché non tornerò?»
Grell assentì con convinzione. «Sì, prometto!»
Nel momento in cui il Pifferaio lasciò andare la piuma, il suo colore cremisi sfumò sino a divenire del nero del manto dei corvi. Il bambino la fissò, stupito e al tempo stesso interdetto, poiché il rosso era il suo colore preferito e gli sarebbe piaciuto avere una piuma rossa.
Poi l’uomo si chinò, appoggiò una mano sulla sua testa e distese gli angoli della bocca nell’ombra di un sogghigno compiaciuto. «Quando arriverà il corvo, bimbo, seguilo e ti condurrà da me».
«… Grell? Con chi stai parlando, Liebe[4]
Grell si voltò di scatto in direzione dell’ingresso del granaio. «Mamma!» esclamò. «Mamma, vieni qui, ho conosciuto un…» Le sue dita, però, improvvisamente stringevano il vuoto, non più il braccio del Pifferaio, e, volgendosi, il bambino scoprì che l’uomo era scomparso.
 
Quando aveva incontrato il suo principe,
la principessa era stata affascinata dalla sua bellezza:
pelle bianca come le sue belle bambole, che ormai i mostri dovevano aver rovinato,
occhi rossi come i suoi capelli, conturbanti e pericolosi, in un certo senso,
capelli neri come la piuma che le aveva porto, sussurrandole che presto sarebbe tornato da lei.
 
Seduto a gambe incrociate tra l’erba, Grell osservava paziente l’orizzonte.
Erano trascorsi due anni da quando aveva incontrato il Pifferaio, ormai; come l’uomo gli aveva rivelato quella notte, i topi erano morti annegati, sebbene nessuno avesse saputo spiegarsi come: si vociferava fosse stato uno strano uomo vestito di nero che brandiva un piffero, il cui suono avrebbe guidato i ratti sino al fiume, dov’erano affogati.
Da quel giorno, il bambino aveva atteso il ritorno del Pifferaio, del tutto certo che la promessa sarebbe stata rispettata.
A distanza di così tanto tempo, tuttavia, anche il ricordo di quel sorriso e di quella voce di miele aveva cominciato a svanire e ogni giorno che moriva Grell percepiva la sua speranza affievolirsi. Talvolta, adesso che aveva dodici anni, tra sé si accusava di essere stato estremamente sciocco a fidarsi di uno sconosciuto e di aver persino creduto che, come un principe azzurro, l’uomo sarebbe tornato per sposarlo.
Eppure continuava a sedersi nel campo dietro casa, nel pomeriggio, e aspettare la sera sperando di avvistare un corvo o un uomo in nero che discendeva le colline verso Hamelin. Eppure aveva gridato, quando per errore sua madre aveva quasi buttato via la piuma che il Pifferaio gli aveva lasciato come unico segno, oltre alla memoria, della sua effettiva esistenza. Eppure ogni notte sognava quello sguardo e quel sorriso, così vividi che, quando si svegliava, si sentiva avvolgere da un pesante senso di delusione.
Anche ora si trovava accomodato su quel rettangolo di terreno dove l’erba era schiacciata e ingiallita, tante erano state le volte in cui l’aveva privata d’aria e sole con il proprio peso, e giocherellava con la piuma, sospirando di tanto in tanto come fanno le principesse che aspettano il principe.
Un inaspettato frullo d’ali accanto a sé lo fece trasalire e sollevare d’istinto le mani per proteggersi il volto dagli artigli o dal becco dell’uccello.
Atterrito, attese con il cuore in gola che l’animale si allontanasse, ma poi percepì il suo becco aguzzo strusciare contro la sua vecchia maglia di stoffa stopposa, all’altezza del suo cuore, e scendere con una lentezza esasperante sino alle sue mani, che stringevano la piuma.
Grell schiuse una palpebra e incrociò lo sguardo delle piccole perle nere che erano gli occhi penetranti dell’uccello: un corvo, più grosso della media, dalle ali ampie quasi quanto quelle di un falco e le piume lucide e in perfetto ordine. Incredulo, il bambino rimase immobile mentre l’animale gli sfilava la piuma dalle dita, inclinava la testa da un lato e lo fissava con quei suoi occhi consapevoli, diversi da quelli di un qualunque altro animale Grell avesse mai visto.
Poi spiegò le ali e si levò a pochi metri da terra; il bambino si alzò in piedi e si affrettò a corrergli dietro quando lo vide volare con eleganza in direzione del villaggio.
Non si curò di rispondere agli abitanti che gli domandavano dove stesse andando, né si scusò con coloro contro i quali urtò; attraversò l’intera Hamelin, oltrepassò il ponte che conduceva alla foresta dietro il villaggio e si fermò soltanto davanti ai primi alberi, incerto.
«Aspetta!» gridò al corvo. «La mamma non vuole che io vada nella foresta, non posso venire!»
L’uccello si appollaiò su un ramo con la piuma stretta nel becco e voltò la testa a guardarlo. Grell si rese conto che riusciva a sentire una melodia armoniosa e risa di altri bambini, da dove si trovava. Riconobbe persino alcune voci come quelle dei suoi amici.
Profondamente combattuto, soppesò la situazione: Natalie non voleva che andasse nella foresta da solo, perché avrebbe potuto perdersi; d’altra parte, il Pifferaio era finalmente tornato e lo aspettava; inoltre, nella direzione in cui il corvo si stava dirigendo dovevano esserci dei bambini. Con loro, non sarebbe stato solo e avrebbe potuto tornare indietro senza difficoltà.
Si morse un labbro, tuttavia raggiunse il corvo – che attendeva senza muoversi, ancora volto verso di lui – e lo seguì mentre riprendeva il volo.
Non impiegarono molto a trovare gli altri bambini: erano tanti, si sorprese Grell, forse tutti i bambini di Hamelin, riuniti in una colonna che si stava dirigendo verso nord, lontano dal villaggio, al seguito di quella musica che proveniva da qualcuno a capo della fila.
Grell si fece strada tra gli altri, incurante di far loro male e ogni istante più rabbuiato: non capiva perché l’uomo avesse radunato tutti i bambini – senza preoccuparsi di lui, peraltro. Sperava che non fosse per sposarli tutti, non sarebbe stato giusto. Si sentì rincuorato, tuttavia, nel rendersi conto che era l’unico ad avere un corvo da inseguire; gli altri sembravano semplicemente irretiti dalla melodia e nessuno di loro vantava una piuma come la sua.
La colonna era tanto lunga che riuscì ad arrivare alla sua testa quando i primi bambini fecero il loro ingresso in una caverna enorme, che probabilmente avrebbe potuto contenerli tutti.
Nel buio, però, Grell perse di vista il corvo e in breve tempo si ritrovò solo, schiacciato contro una parete fredda e umida, incerto sul da farsi. La musica adesso echeggiava assordante nella spelonca e il rumore era reso ancor più intollerabile dalle voci acute dei bambini che ridevano e si divertivano.
«Hallo, Kind[5]» sussurrò improvvisamente una voce al suo orecchio, facendolo trasalire.
Si acquietò soltanto quando riconobbe la mano che gli strinse una spalla come la mano che, a suo tempo, gli aveva accarezzato la testa prima di svanire per due anni.
Poi una luce squarciò le tenebre e il bambino poté vedere il Pifferaio sorridergli, identico a com’era allora; arrossì violentemente dinanzi i suoi occhi profondi e il suo sorriso cordiale e avvertì nel proprio corpo acerbo pulsioni che non aveva mai provato prima per nessun altro e una gioia che gli impedì di parlare per qualche secondo.
«Sei tornato» sorrise infine, allungando le braccia verso di lui. «Mi hai fatto aspettare tanto, Herr
«Enschuldigung[6],» Grell ignorò la sfumatura sarcastica nella voce dell’uomo «volevo vedere quanto ci tenessi alla promessa e se l’avresti rispettata. Aspettavo che la tua anima maturasse, bimbo».
«Per sposarmi, vero?» volle sapere il bambino, speranzoso.
«Sposarti?» gli fece eco il Pifferaio, per la prima volta interdetto. Lo fissò per un momento, sconcertato, prima di rassicurarlo con una bassa risatina: «Sì. Per sposarti».
Quando l’ennesima domanda salì alle sue labbra, Grell si scurì un poco. «Allora perché hai chiamato gli altri bambini? Potevamo stare solo noi due, come marito e moglie, no? Ich brauche nicht Kinder, ich mag dich[7]» borbottò, arricciando le labbra in un broncio.
L’uomo si chinò su di lui, tanto che la punta del naso aquilino quasi sfiorava quella del suo naso a patata ricoperto di lentiggini. «Ma quando ci si sposa si fa una festa, giusto?» gli fece notare con dolcezza. «Ho pensato che ti sarebbe piaciuto festeggiare con i tuoi amici. Ho sbagliato?» Il suo tono mesto addolcì l’espressione di Grell, che gli si strofinò addosso.
«No, no, sono felice!»
Nascosto al suo sguardo, il viso del Pifferaio si aprì in un ghigno affamato; poi l’uomo afferrò il mento del bambino, bene attento a non sembrare troppo frettoloso per non insospettirlo, e gli alzò il viso per poter avvicinare la bocca alla sua.
«Dovresti baciare lo sposo, non credi, bimbo?» lo incoraggiò con fare rassicurante nel vederlo esitare e avvampare d’imbarazzo.
Incapace di parlare a causa del nodo che era sbocciato nella sua gola, il bambino assentì col capo.
E il Pifferaio incatenò le sue labbra alle proprie e lo avvolse con il proprio mantello nero, come fossero le ali di un corvo. Nessuno, neppure i bambini più vicini, udirono il grido del bambino, intrappolato nello stomaco dell’uomo che suonava il piffero.
 
La principessa attese a lungo il ritorno del principe.
Aspettava, aspettava, e ogni giorno si chiedeva se davvero il principe fosse mai esistito, e il suo cuore si struggeva dal desiderio di rivederlo.
Chiunque la vedesse non capiva come fosse possibile che potesse essere così attaccata a un uomo che nessuno tranne lei aveva mai visto, che lei stessa – peraltro! – aveva incontrato un’unica volta.
Nessuno – nemmeno lei – poteva sapere che nel suo cuore di fanciulla il principe aveva piantato il suo seme, nero come il carbone, freddo come l’acciaio di una lama che penetrava nel petto della giovane e le impediva di separarsi dal ricordo di quel bell’uomo dagli occhi scarlatti.
Infine lui venne, a rispetto della promessa fatta ormai anni prima.
Prese il suo cuore, soffocato dal fiore nero cresciuto dal seme nero, e lo strangolò tra le dita sino a renderlo immobile e avvizzito.



[1] Signore

[2] Come ti chiami, signore?

[3] Non posso, bimbo

[4] Vezzeggiativo, corrispettivo di “tesoro”, “amore”, “caro”

[5] Ciao, bimbo

[6] Scusa

[7] Non ho bisogno di bambini, mi piaci tu

  
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