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Autore: Sunflowerbud    28/06/2011    6 recensioni
Ti trovi in questo posto per assistere all’esame di tua sorella, non per riaprire cicatrici dolorose, cerchi di convincerti, imponendoti di concentrare la tua attenzione solamente sul discorso che già da alcuni minuti riecheggia solenne nella stanza.
Riesci a seguire il filo logico dell’articolato ragionamento di Elena solo per poco tempo. Poi, ti perdi a riflettere su altro, trascinata da un'onda di pensieri a cui non riesci ad opporre resistenza.
E sebbene tu non abbia nemmeno iniziato a rimuginare fra te e te, sai già quale sarà l’oggetto, l’unico oggetto, dei tuoi pensieri.
Ormai è troppo tardi.
La tua mente fluttua già fra brandelli di ricordi su cui hai sin troppo meditato, fra immagini che hai già visto troppe volte e fra parole che ti sono rimbombate nei timpani troppo spesso.
Avevi provveduto a segregare tutto in un remoto angolo della tua testa, ma, adesso, è bastato solo un semplice nome, un solo secondo, per far esplodere quel maledetto cassetto, in tutta la sua potenza.
Ma non hai idea di come si faccia a richiudere."
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Silence


"Nobody here knocking at my door, the sound of silence I can’t take anymore"
-
Armin van Buuren – This Is What It Feels Like -









Sorridi, a tua sorella. Un sorriso gioioso, sereno, per infonderle coraggio.
Lei ti ricambia, timidamente, e abbassa il capo. La senti inspirare ed espirare profondamente, con gli occhi puntati a terra, mentre cerca di riempire i polmoni di una tranquillità che pare irraggiungibile, e di controllare il battito di un cuore in tumulto, imbizzarrito, come un cavallo terrorizzato.
Allunghi la mano verso la sua, chiusa in un pugno, senza aspettarti che distenda le dita per accogliere le tue.
Era sempre stata poco incline a sfoggiare quelle moine stucchevoli di fronte alle compagne, forse timorosa che le avrebbero travisate, rendendole la portata principale della loro lista di pettegolezzi.
Ma oggi non è un giorno qualsiasi. E afferra la tua presa. Forte.
“Elena, è il tuo turno”
Una voce poco lontana interrompe quel momento tanto unico quanto speciale. Ti sporgi oltre la figura di Elena ed intravedi il profilo della tua ex professoressa di matematica, ora insegnante di tua sorella.
Avverti la sua presa farsi meno salda e lasci andare la sua mano, sudata, che si sposta in cerca di conforto tra le sue labbra, tra i denti che riprendono a mordicchiare con foga - in un gesto tutt'altro che insolito - le unghie già cortissime.
Hai solo il tempo di sussurrarle un “Andrà tutto bene” a malapena percepibile, prima che si allontani da te, con i libri stretti al petto, forse nel tentativo di trattenere, con quella protezione, un cuore che stava per esplodere.
Si avvia verso l’aula, circondata dalle compagne, che le si accalcano attorno per rivolgerle i migliori auguri per l'esame, per quella prova che, quell'anno, era stato l'incubo peggiore di tutti gli studenti di terza media. Tu le segui, mantenendo qualche metro di distanza, imponendoti di mettere a tacere l'istinto che ti detta di affiancarti a lei, di stringerla ancora, per proteggerla, per darle tutto il tuo supporto, fino all'ultimo momento possibile.
Ma ti rendi conto che tua sorella non è più la piccola bambina impaurita di cinque anni, che aveva sempre bisogno della tua mano, la notte, per scacciare gli incubi; della tua vicinanza, nel giorno, per riuscire a stare bene. La prova che stava per sostenere, l'ultimo tassello che avrebbe completato il suo percorso delle scuole medie, lo dimostrava: Elena era grande, grande come te.
Avrebbe affrontato questo esame da sola e, ne eri sicura, ce l'avrebbe fatta.


L'aula è calda.
Varcata la soglia di ingresso della stanza, l'unico pensiero che riesci a formulare è questo: l'aula è calda. Di un caldo torrido, afoso e fastidioso, che sembra nato dall'impatto fra un'onda di fuoco, invisibile e bollente, e quattro semplici pareti. Il prodotto di una rara esplosione di luce e di calore.

Eppure, ti sembra di avere già vissuto qualcosa di simile, in passato.

Ancora sulla soglia della porta, cominci istintivamente a farti aria con la mano, mentre vaghi con lo sguardo per la stanza, alla ricerca di una sedia libera che non riesci a trovare.
Sei sorpresa dal numero di compagni di classe che sono accorsi per assistere alla prova di Elena, per non mancare a quell'importante appuntamento: tutto lo spazio riservato agli uditori è completamente pieno. O quasi.
Esulti internamente quando, assottigliando lo sguardo, riesci a captare un bracciolo in sovrannumero, nascosto fra due seggiole occupate. Ti avvicini cauta, scoprendo con felicità che ancora la tua vista funziona bene.
Per quanto rifilata in un angolo della stanza, compressa tra quello che dovrebbe essere - ma solo per definizione - un armadietto contenente di tutto, ed una delle tre finestre sporche dell'aula, riesci ad osservare tua sorella, seduta al centro dell’aula, intimorita, povera vittima di una schiera di professori innervositi dal caldo, in trepidante attesa del processo di inquisizione cui erano tanto abituati. Povera vittima che, soprendentemente, non è al centro dell’attenzione dei docenti.
Sposti lo sguardo dall'esile figura di Elena e noti, mentre un'espressione di terrore si impossessa del tuo volto, che gli occhi di una buona parte degli insegnanti ti sono puntati addosso.
Oddio’, pensi, mentre inizi involontariamente a tingerti di un colore molto simile alla rossa maglietta che indossi, cercando di celare l’imbarazzo attraverso un esagerato – e palesemente falso - sorriso a trecentosessanta gradi.
Vorresti salutarli cordialmente, ma non hai nemmeno finito di pronunciare quel “Buongiorno” appena sfuggito dalle tue labbra, che una pioggia di domande inizia a riempire l'aula e la tua testa. Domande sulle scuole superiori, "Come ti trovi?", sugli insegnanti del liceo, "Sono severi?", sui risultati dell’anno scolastico terminato, "Ed i compagni delle medie?", su Francesca... "Che mi dici di Francesca?".
Percepisci lo stomaco attorcigliarsi nel tuo ventre con una fitta lancinante, quando senti la professoressa di Inglese porti la domanda cruciale, sul soggetto che non sentivi nominare da così tanto tempo.
Che stia cercando un modo per ucciderti? Può essere.
Liquidi in fretta e furia la questione, rispondendo abilmente che dovevano interrogare Elena, perché tu, la tua parte, l’avevi già fatta tre anni fa.
I mille e novantacinque giorni che ti separano da quella data ti sembrano istanti, frammenti di tempo congelatisi nella tua memoria.
Mille e novantacinque giorni, avevi contato, digitando curiosa dei tasti sulla calcolatrice.
Né uno di più, né uno di meno: tua sorella avrebbe dovuto tenere quella prova orale proprio lo stesso giorno in cui eri stata interrogata tu.
Ti sembrava una così felice coincidenza, quando Elena era piombata in camera tua con gli occhi bassi e il viso spento, a comunicarti quella che per lei era una nefasta notizia: niente la poteva abbattere di più dell'idea di procrastinare l'inizio delle vacanze, di ritardare ulteriormente la conquista della libertà.
Ma, adesso, quella stupida casualità ti sembra tutt’altro che felice.
Perché non è l’unica.
Perché constati, facendo vagare lo sguardo attorno a te, che l’aula dove ti trovi - quella desolata stanza dalle pareti giallo canarino spento, quella camera di fuoco 'arredata' in modo squallido e caotico - è la stessa dove tre anni fa hai tenuto tu l’esame orale.
Quell’esame orale, anche noto come "evento da dimenticare".
O almeno, speravi che così sarebbe andata.
Speravi che, complice l'inesorabile scorrere del tempo, quel ricordo sarebbe caduto nel cassetto “dimenticatoio”, e lì sarebbe rimasto, confinato, chiuso per sempre. Eri convinta che una volta archiviato non sarebbe più riemerso, non ti avrebbe più fatto soffrire - ne avevi già avuto abbastanza, del resto.
Eri sicura che, dopo anni e anni, il solo pronunciare del suo nome non ti avrebbe fatto nessun effetto: sarebbe stato acqua sporca che scorre su una superficie impermeabile, senza lasciare traccia del suo passaggio.
Ma quante volte ti sei sbagliata? Quante volte hai continuato, e continui, imperterrita, a commettere gli stessi errori?
Testarda, sorda agli allarmi che ogni cosa attorno a te sembra lanciarti.

Ti trovi in questo posto per assistere all’esame di tua sorella, non per riaprire cicatrici dolorose, pensi, imponendoti di concentrare la tua attenzione solamente sul discorso che, già da alcuni minuti, riecheggia solenne nella stanza.
Riesci a seguire il filo logico dell’articolato ragionamento di Elena solo per poco tempo. Poi, ti perdi a riflettere su altro, trascinata da un'onda di pensieri a cui non riesci ad opporre resistenza.
E, sebbene tu non abbia nemmeno iniziato a rimuginare fra te e te, sai già quale sarà l’oggetto, l’unico oggetto, dei tuoi pensieri.
Ormai è troppo tardi.
La tua mente fluttua già fra brandelli di ricordi su cui hai sin troppo meditato, fra immagini che hai già visto troppe volte e fra parole che ti sono rimbombate nei timpani troppo spesso.
Avevi provveduto a segregare tutto in un remoto angolo della tua testa, ma, adesso, è bastato solo un semplice nome, un solo secondo, per far esplodere quel maledetto cassetto, in tutta la sua potenza.
Ma non hai idea di come si faccia a richiudere.

E il chiacchiericcio insistente delle compagne che assistono all’esame si fa sempre più debole, sempre più incerto, più lontano. Le loro voci diventano confuse, si accavallano, in un turbine di rumori che ti costringe a chiudere istintivamente gli occhi.
Ma, quando li riapri, attorno a te vige soltanto il silenzio, il silenzio più assordante che sei in grado di ricordare.
Il silenzio del giorno della tua prova orale.
E ti sembra assurdo anche solo rievocarlo, ti sembra una contraddizione, pensare che quel famoso pomeriggio di giugno tu potessi udire solo silenzio, attorno a te, proprio nel momento in cui non poteva esserci silenzio.
Tu dovevi esporre la tua tesina. Dovevi parlare, dovevi pronunciare suoni. Non poteva esserci silenzio.
Eppure, tu sentivi solo quello: le tue parole si perdevano in quell’aula giallo canarino, si facevano mute. Forse per favorirti, con il proposito di fare un gesto buono; per lasciarti sentire solo i commenti, il brusio conosciuto e confortante dei compagni dietro di te.
Se solo ci fossero stati…
E invece tu sentivi solo silenzio. Solo silenzio.
E ti illudevi, fantasticavi che, magari, volessero stare zitti per ascoltarti meglio, per starti a sentire, una volta tanto. La prima.
Ed eri convinta, ne eri sicura, che quando avresti terminato il tuo discorso e ti saresti alzata in piedi raggiante, i tuoi compagni ti avrebbero applaudito, si sarebbero congratulati con te, regalandoti complimenti e abbracci calorosi. Perché questa era la prassi, questo ciò che facevano con tutti.
Ma tu non sei come gli altri, no?
Ma non sarebbe stato importante nemmeno quello, per te, in fondo. Non desideravi ricevere le strette di persone che erano solo tuoi conoscenti, di compagni con cui, in comune, avevi solo la classe di appartenenza. Avresti voluto trovare soltanto una persona. Una ragazza dai corti capelli biondi e i penetranti occhi azzurri - quelli che ammiravi tanto, perché ti ricordavano il mare.
Volevi solo che ci fosse lei, la tua migliore amica.
E ti ricordi bene come la tua espressione sia mutata quando, in piedi al centro dell'aula, hai constatato finalmente chi fosse entrato nel corso della prova, chi dei tuoi compagni si fosse presentato a scuola solo con lo scopo di assistere alla tua interrogazione.
E ti ricordi bene come fu lancinante vedere le tre file di sedie disposte per loro tutte vuote.
Vuote.
Vuote.
Vuote.
Il tuo sorriso raggiante si trasformò in un’espressione affranta, un’espressione che rispecchiava il vuoto che avevi davanti.
Ma il vuoto dentro di te era spaventosamente più grande.
Un’espressione di amara delusione, di tristezza.
Improvvisamente, una nuova consapevolezza.
Forse sapevi già da allora che non avresti più sorriso così per molto, molto tempo?

Era come se quel vuoto, quell'assenza, ti avesse aperto gli occhi, prima offuscati dal desiderio di vedere sempre positivo, sempre tutto rose e fiori, sempre quello che volevi tu... mera illusione, lontana dalla realtà.
Credevi che la tua migliore amica sarebbe venuta.
Il suono delle sue parole riecheggia ancora inconfondibile, con la limpidezza con cui si rievocano solo i ricordi che si preferirebbero cancellare: "Certo, certo, Fede, vengo di sicuro, promesso! Ci sentiamo, poi, eh!” aveva risposto, prima di andarsene con la spensieratezza di chi non ha più preoccupazioni, a braccetto con la sua amica.
E tu c’avevi creduto, come un’illusa, sicura che ci sarebbe stata, sicura che, come tu ti eri interessata a lei, preoccupandoti di confortarla prima della grande e temuta interrogazione, così lei avrebbe fatto con te. Perché te l’aveva promesso.
E pensare che le avevi voluto così bene...
E pensare che avevi fatto di tutto per assistere a quell’esame, per quella sua tesina, per darle tutto il sostegno e l'incoraggiamento di cui aveva bisogno. Avevi fatto di tutto per farle capire che c’eri, e che lei ce l'avrebbe fatta.
Ed anche alla fine del colloquio orale eri lì, a braccia aperte, pronta per abbracciarla e per stritolarla forte, per sussurrarle all’orecchio: “Hai visto che avevo ragione?”
Ma lei aveva preferito correre da Giada, no?
Che era arrivata tardi, con il fiato corto e il battito accelerato, ma sul volto l’espressione rilassata di chi sa di essere ancora in tempo, in tempo per cogliere giusto qualche strascico dell’esame, in tempo per far apparire di esserci sempre stata.
E così Francesca era andata da lei, dalla sua vera compagna del cuore. Poi, si era avvicinata a te, ricambiandoti quell'abbraccio in un primo momento mancato. Quasi fosse un dovere, un gesto di pura cortesia, piuttosto che un reale desiderio.
Ma tu non te l’eri presa, no?
Perché pensavi che fosse normale che lei volesse abbracciare prima l'altra. La giustificavi, e quello era stato il risultato.
Il risultato era stato che, in silenzio, Francesca se n’era andata, senza alcuna intenzione di tornare. E ti aveva lasciato sola, senza amici, perché lei era l’unica persona per cui avevi, in quegli anni, votato il cuore.
E soffrivi, per questo. Soffrivi per questa ricompensa immeritata, per questo allontanamento senza spiegazioni, senza nessuna parola per poter chiarire.
Il suo modo di parlarne era stare in silenzio.
Il suo semplice e spietato silenzio, era l'unica cosa che ti era rimasta, di lei, dopo lunghi anni di amicizia.

Ti aveva detto che ci sarebbe stata sempre, ti aveva giurato che la vostra amicizia sarebbe durata fino a quando sareste state grandi.
Avreste imboccato strade diverse, forse, e un giorno - ti aveva detto - sareste state lontane. Ma, poi, guardandoti negli occhi e prendendoti fra le mani, ti aveva detto che questo non l'avrebbe fermata. Che lei ci sarebbe sempre stata, per te.
Te lo aveva promesso.

E ti domandi quanto valga la pena, ancora, di credere alle promesse, quando ciò che ti resta, ora, non sono parole, risate schiette o dichiarazioni d’affetto, ma il solito, dolorosissimo silenzio.








Angolo dell’autrice (sempre che così si possa chiamare… )


Tutto era partito con un “Scriviamo una shot per mia sorella!”.
Evidentemente, non sono molto riuscita nel mio intento, visto che, alla fine, la mia dolce Elena è solo un personaggio di sfondo, incentrandosi la shot su ben altro soggetto. [Sorellina mia, prima o poi scriverò qualcosa dedicato solo e soltanto a te! ]

Comunque… Buongiorno, popolo di Efp!
Dunque, che dire? Tanto per cambiare questa fic non mi piace.
Il titolo è abbastanza demenziale, se lo state pensando, e avete ragione. Anche il contenuto, nessuna novità. Però, visto che, anche stavolta, sentivo l’impellente bisogno di pubblicare qualcosa, ho deciso di mettere a tacere la voce della mia coscienza e di seguire il mio istinto: so, lo so, non avrei dovuto!
Per il resto penso che la one-shot, dai tratti autobiografici, parli abbastanza bene da sé.
Il tema è ancora collegato alla mia prima flashfic “Cambiamenti”, con la differenza che quest’ultima è decisamente diversa… il modo in cui ho trattato l’argomento, è diverso. E non mi sto riferendo solo ad un aspetto puramente formale.
La citazione all'inizio l'ho aggiunta nella rivisitazione datata 26 Febbraio 2014, ed è tratta dalla canzone This is what it feels like, di Armin van Buuren: so che il testo parla espressamente di "amore" e fa riferimento ad un altro genere di situazione, tuttavia, mentre rivedevo questa storia, mi sono venute in mente queste parole, ed ho deciso di inserirle.
Mi ero imposta di scrivere qualcosa a carattere un po’ più… allegro; ma sembra proprio che io non sia in grado di comporre nulla che non coinvolga le parole “triste” o “altamente depressivo”! Vi chiedo perdono!
E ora vi saluto, ringraziandovi enormemente per essere arrivati anche solo fino a questo punto.
Per chi, poi, volesse lasciarmi un commentino, anche minuscolo, per qualsiasi domanda o chiarimento o anche per esortarmi a ritirarmi in una casetta sperduta priva di connessione ad internet e a non infestare più Efp con questi obbrobri, sappia che ogni parere è ben accetto.
Un bacione a tutti,

Sunflowerbud




  
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