Drawing the sky.
Liverpool, 1943
Quando
sentì gli schiamazzi furiosi provenienti dal cortile, la donna intervenne per
separare i due litiganti: Peter e John erano tra i bimbi più scalmanati, un
incrocio tra scimmie selvatiche e zitelle acide che se la prendono per un
nonnulla quando si critica loro qualcosa. A quanto pareva la lite era scoppiata
per via di una presa in giro che il primo aveva rivolto all’altro, di natura
piuttosto irascibile e irrequieta: arrivare alle mani era stata una conseguenza
piuttosto prevedibile, ma Millie aveva liquidato il
tutto con uno sculaccione a testa e l’invito a far pace.
Se
ne ritornò all’interno dell’edificio, per riposarsi un po’ e magari bersi una
tazza di tè, quando passò davanti ad una porta socchiusa e sentì una voce
femminile, probabilmente quella della collega Anna, provenire dall’interno
della stanzetta:
-Stuart, che stai
facendo?-
Nel
sentire quel nome, la donna si fermò
per vedere cosa stesse succedendo, facendo ben attenzione a non farsi scoprire.
-Disegno,
non si vede?-
Millie sorrise: era
solo un bambino ma la lingua di certo non gli mancava!
Per
tutta risposta l’altra donna aveva riso imbarazzata per la stupidità della sua
domanda, e aveva continuato: -Ma fuori c’è un bel sole e tutti i tuoi compagni
sono a giocare… Perché non vai da loro?-
-Non
mi va, preferisco disegnare.- aveva risposto secco, prendendo la gomma e
cancellando qualcosa che non gli andava a genio.
La
maestra aveva capito che insistere non sarebbe servito a nulla, e così decise
di assecondarlo.
-Ti
capisco, fare disegni è molto bello… Posso vedere il
tuo?-
Il
bambino la scrutò perplesso poi, forse in un moto di fiducia, le porse il
foglio dal lato su cui le figure non erano state calcate dalla sua manina
paffutella.
La
donna lo ringraziò e girò il disegno, rimanendo stupita: erano scarabocchi
fatti da un bambino, ma la padronanza della prospettiva e dei colori era
impressionante.
-Sai
dov’è la matita rosa?-
Anna
si riscosse dai suoi pensieri: -Purtroppo no… Credo
sia andata persa…-
-Pazienza,
posso crearla io!- esclamò entusiasta lui, strappandole il disegno dalle mani e
rimettendosi all’opera: il mozzico del pastello fucsia in mano, il bimbo tinse
il cielo di quel colore, ripassandoci poi sopra il bianco e lasciando di sasso
la maestra.
-Hai
visto? Il fucsia è diventato rosa grazie al bianco!- trillò festoso, esibendo
tutto fiero il suo capolavoro.
Tralasciando
il colpo di genio, la donna si concentrò sul cielo:
-Stuart, come mai il
cielo è rosa? Per caso è andata persa anche la matita azzurra?-
Il
bambino scosse il capo ridendo: -Oh, no! Sono io che ho voluto farlo così… Questo è il mio papà sulla nave che, dopo aver
passato la notte a contare le stelle,
all’alba pesca un tonno gigantesco per me!- e indicò le misure del pesce
allargando le braccia come più poteva.
Anna
rise e gli scompigliò i capelli mentre, da dietro la porta, Millie
osservava la scena e sorrideva calma.
Liverpool, 1947
-Ooooh, dirty Maaaggiee Maeee, they have taken
her awaaaay…-
-Charles, che diamine
stai facendo?!-
Il
baccano aveva svegliato Millie che, preoccupata per i
figli, era corsa al piano inferiore per controllare la situazione.
-Oh,
ciao Millie! Lo sai che sei bellissimaaa?-
l’uomo fece per attirarla a sé, ma la donna si scostò furibonda.
-Vattene,
sei ubriaco fradicio! Che cavolo ti salta in mente? Non hai più sedici anni, ne
hai più di quaranta e hai tre figli piccoli che vogliono dormire! Vattene a
letto, va’!-
Ma
l’uomo storse il naso e insistette ancora, incontrando però la resistenza ancor
più cocciuta di sua moglie:
-Ho
detto di andartene a letto! A cosa serve passare mesi e mesi lontano da casa,
se quando torni non badi ai tuoi figli e passi le notti a scialacquare i soldi al pub più vicino? Dovresti solo
vergognarti!-
A
quelle parole l’orgoglio maschile di Charles ebbe il sopravvento, e anche la
sua impulsività.
Lasciò
Millie sul pavimento, il labbro inferiore che le
sanguinava, e se ne uscì dalla stanza, un -Brutta sgualdrina del cazzo- tra i
denti, senza nemmeno accorgersi della figurina silenziosa che se ne stava
all’uscio.
Il
bimbo sgattaiolò nella stanza e si accovacciò davanti alla madre, mentre
questa, in preda al panico, cercò di nascondersi goffamente la ferita.
Per
tutta risposta, il figlio le porse un fazzoletto pulito senza guardarla in
faccia, e prese a fissare quasi ipnotizzato il raggio di luna che filtrava
dalla finestra.
-Stuart, io…-
-Non
dire nulla: io vado a vedere se Pauline e Joyce dormono, tu vai a riposare, che
sarai stanchissima…- e, detto questo, si alzò e se ne
andò al piano di sopra, mentre la madre iniziò a singhiozzare sommessamente.
Liverpool, 1959
-Penso
che un giorno o l’altro prenderò cavalletto e pennelli e me ne andrò in giro in
autostop: dipingerò campi di grano e montagne innevate, e per campare farò dei
ritratti veloci a chi li vorrà… Potrò respirare il
profumo della libertà, finalmente!-
-Mmm, ok… Bell’idea.- Bill sorseggiò la
birra stancamente, quasi non badando alle parole dell’amico, che però aveva
notato quel suo fare disattento.
-Beh,
che c’è, Bill? Non mi dirai che ti stai annoiando!-
-Ma
che dici, Stu? Sarà solamente la millesima volta che mi ripeti i tuoi folli progetti di vita,
cosa vuoi che mi annoi!- sbuffò l’altro, roteando gli occhi.
D’improvviso,
però, si tirò su arzillo e volò all’ingresso del locale: -Oh, John! Finalmente
sei arrivato! Vieni, voglio farti conoscere una persona…-
Stuart
ebbe l’istinto di scoppiare a ridere, non appena vide il suo amico trascinarsi
dietro uno di quei Teddy Boys
che brulicavano per le vie di Liverpool, ma la sua educazione ebbe la meglio,
imponendogli di sorridere e salutare il nuovo arrivato.
-Stu, lui è John
Lennon, John, questo è Stuart Sutcliffe! John scrive
delle figate assurde, mentre Stuart dipinge
benissimo!-
L’entusiasmo
di Bill era palpabile, e sia John che Stu pensarono
che, da un momento all’altro, questi avrebbe certamente cominciato a saltellare
allegramente per tutto il locale.
Il
ragazzo però si diede una calmata e, nel giro di poco tempo, i tre si ritrovarono
al tavolo a ridere a crepapelle tra una birra e un racconto demenziale di
Lennon, finendo la nottata ubriachi
marci.
Liverpool, 1960
-Sessantacinque
sterline! Dico SESSANTACINQUE STERLINE! Occazzo, Stu!-
John
saltò addosso all’amico, stritolandolo e iniziando a girare in tondo, sempre
senza staccarsi da lui.
-Vero?
Non ci posso credere, cazzo!- gli rispose l’altro, ridendo e ricambiando felice
l’abbraccio.
-Sono
un’infinità, porca vacca! Cosa pensi di farci?-
Stuart
si staccò dall’amico e lo fissò sibillino: -Mah, io un’idea ce l’avrei…-
Millie entrò nella
camera del figlio, per controllare se vi fossero abiti da lavare, quando lo
sguardo le cadde sulla sedia di fianco al letto.
Incredula,
le si avvicinò e fece per sollevare la mano, ma la voce del figlio la bloccò:
-Proprio
così, mamma. Quello è il mio nuovo basso e, a partire da oggi, sono
ufficialmente nella band di John.-
Amburgo, 1960
-Stu, Stuuu!-
John
stava scrollando l’amico che, imperterrito, continuava a dormire come un sasso;
perse la pazienza e gli tolse di dosso quelle quattro lenzuola in croce che lo
coprivano, mentre gli spifferi di Amburgo fecero il loro dovere svegliandolo
per benino.
-Vaffanculo, John! Mi ero
appena addormentato, cazzo!- urlò l’altro, premendosi con forza il cuscino
sulla testa, nella vana speranza di ritrovare il sonno ormai perduto.
-Dai,
Stu… è ora di andare. Lo spettacolo deve continuare.-
gli sorrise, prendendogli il guanciale dalle mani e aiutandolo ad alzarsi.
-Vaffanculo ad Amburgo, vaffanculo al Preludin, vaffanculo al Kaiserkeller, vaffanculo a Koschmider, vaffanculo ai Beatles…-
-… e vaffanculo a te, John.- disse
sottovoce Lennon.
-… e vaffanculo a te, John, che prevedi sempre quello che sto
per dire!-
John
iniziò a ridere come un cretino mentre Stu,
imbronciato, non volle mostrargli il sorrisetto che gli stava nascendo sulle
labbra.
-Aaah, al diavolo!-
borbottò, andando a lavarsi e lasciando l’amico sdraiato sul letto, intento a
tenersi la pancia per le troppe risate.
-Good golly miss Molly, sure like to ball, when you’re
rockin’ and a rollin’,
can’t hear your mama caaaaall…-
I
cinque raccolsero gli applausi del pubblico ma, al loro invito di proseguire
nel mach shau,
John rispose con un bel dito medio cacciato fuori di tutto cuore.
-Devo
mangiare, porca puttana! Mangiare, mangé, eat, do you understand?-
Ma
i tedeschi, ormai pieni di birra, sbattevano i loro boccali vuoti sui tavoli di
legno marcio, intimando loro di continuare.
-Bitte,
ein Moment! Wir wollen etwas essen!-
urlò Paul al microfono, cercando di calmare l’atmosfera: ottenne l’effetto
desiderato, sotto lo sguardo ammirato degli amici.
E
mentre McCartney spiegava inorgoglito a Best che finalmente le lezioni di
tedesco erano servite a qualcosa, Lennon trascinò via con sé George e Stu, poggiando un braccio sulle rispettive spalle.
-Dai,
amici, andiamo a sbafarci una di quelle deliziose “bistecche”!- sbraitò
sarcastico, facendoli ridere.
Si
avvicinarono al bancone, quando George si staccò dall’amico per andare a
salutare una persona:
-Hey, Klaus! Come
va? Tutto bene?-
E
mentre Harrison e Lennon se ne stavano a chiacchierare, Stu
si guardò intorno, le pareti del Kaiserkeller che si
sovrapponevano a quelle dipinte della Kasbah.
Sorrise,
ricordando il tempo speso ad affrescare l’intonaco muffoso del locale di Mona Best, quando Klaus gli picchiettò la spalla, facendolo
voltare:
-Stuart, posso
presentarti la mia ragazza?-
Sutcliffe piantò i propri
occhi in quelli gelidi della ragazza che gli stava davanti.
-Piacere,
io sono Astrid.-
Amburgo, 1961
Le
acque dell’Elba scorrevano calme, quasi ad accompagnare il volo che qualche
uccello sporadico compiva ancora nel cielo fumoso.
Stuart
aveva gli occhi fissi su Astrid, ma non la guardava
per davvero, immerso com’era nel contare le piroette che una foglia faceva,
cadendo al suolo.
-Ti
sei pentito di averli lasciati partire senza di te?-
La
domanda della ragazza lo fece sobbalzare, ma il giovane non le mostrò la sua
sorpresa per una domanda del genere.
Afferrò
la foglia e prese a giocherellare con lo stelo:
-Mmm, forse.-
Gli
occhi chiari di Astrid si spalancarono, non celando
affatto lo stupore per quella sua risposta.
-… o forse no.
Sai,- si tirò su un gomito, -stavo pensando alla mia vita. A com’era prima e a
com’è adesso… Alle scelte che ho fatto, alle
occasioni che ho sprecato, ai sogni che ho inseguito…-
Si
girò e la guardò dritta negli occhi:
-Ci
pensi mai a cosa sarebbe successo se tu avessi o non avessi fatto una certa
cosa? Ad esempio: se io quel giorno non avessi ascoltato John e gli altri, se
non avessi comprato quel dannatissimo basso, se avessi speso tutte quelle
sterline in tele e pennelli… Ora, dove sarei?-
Si
fermò a fissare le acque del fiume, nel punto in cui parevano unirsi al cielo
in una massa grigiastra d’acqua e d’aria.
-… Ma soprattutto:
cosa sarei?-
Astrid gli si
avvicinò, accarezzandogli i capelli.
-Un
insegnante d’arte, un figlio meraviglioso, l’uomo dei sogni nel letto di una
ragazza qualunque… Ma io non ti avrei conosciuto.-
-Però
non è successo: ora sono qui, tu sei con me e io ti appartengo, Astrid, e non c’è niente al mondo che possa affermare il
contrario.-
La
ragazza evitò il suo sguardo e si concentrò sul canneto che costeggiava la
sponda del fiume.
-Nessuno
appartiene veramente a qualcun altro, Stu. Le persone
si vogliono bene, si odiano, si amano, si disprezzano, si stimano, si invidiano… ma non sono mai di nessuno.-
-Questo
lo dici tu: ritengo che già il fatto di pensare ad una persona o il ricordare
dei momenti più o meno felici trascorsi con lei sia sintomo di appartenenza.-
Stuart
riprese a guardare gli uccelli librarsi nel cielo plumbeo, quando Astrid, accarezzandosi l’anello che portava al dito, si
decise ad interrompere il silenzio:
-Tu
mi ricorderai, Stu?-
Il
ragazzo sorrise leggermente e si voltò a guardarla per l’ennesima volta:
-Non
ho mai smesso di farlo.-
Amburgo, 1962
Il
tessuto dei pantaloni si macchiò di sangue, ma la ragazza non vi badò: poggiò
la sua testa sulle ginocchia e vi
abbandonò sopra qualche carezza, parlandogli, mentre l’ambulanza strillava
disperata tra le vie della città.
-Appena
ti sentirai un po’ meglio, torneremo a Liverpool… e
andremo di nuovo in Italia, in quel posto bellissimo! Mangeremo fino a
scoppiare, ci rincorreremo in riva al mare, verremo baciati dal sole e faremo
l’amore sotto le stelle…-
Gli
occhi socchiusi, Stuart stava a sentire la sua voce sempre più lontana,
incrinata e irrealmente stridula.
-Non
lasciarmi, Stu… Ti prego, non abbandonarmi…
Non lasciarmi sola, amore mio, non farlo…-
Il
ragazzo le sorrise stanco.
Non
la guardava già più.
Ignoto, 1980
Uno
squarcio, un lampo.
L’uomo
aprì gli occhi all’improvviso; -è un incubo!- si disse.
Sbatté
le palpebre più e più volte e provò ad alzarsi, ma si ripiegò su se stesso.
-La
spalla, cazzo!-
-Devo
smetterla di farmi-devo smetterla di farmi-devo smetterla di farmi-
Con
le mani premute forti sugli occhi, l’uomo ripeteva un mantra con il quale
sperava di potersi finalmente risvegliare.
-Oh,
ciao John! Anche tu qua?-
Una
voce che conosceva molto bene però lo costrinse ad aumentare la sua preghiera.
-Devo
cambiare spacciatore-devo cambiare spacciatore-devo cambiare spacciatore-
Il
ragazzo rise: -Sei sempre il solito cretino! Non vedi che sono io?-
Nel
sentire quella frase, l’altro spalancò gli occhi e rimase di sasso nel trovarsi
davanti lui.
-Stu? OMMIODDIO!-
John
corse ad abbracciare l’amico, facendogli cadere i pennelli sporchi per terra.
-Ma
oddio, Stu! Che cosa ci fai qua?
-Sto
disegnando il cielo.-
-Vorrai
dire “dipingendo”… Che poi, è anche vero che è impossibile dipinger-COME
HAI DETTO, SCUSA?-
-No,
hai capito bene: lo sto disegnando.-
E,
detto quello, tracciò l’ultima riga, che andò a formare un cancello: si cacciò
la matita in tasca e spinse l’inferriata.
-Beh,
che stai aspettando? Vieni?-
John
osservò il suo vecchio amico: i capelli ordinatamente scompigliati, gli occhi
verdi ed affascinanti e quella spolverata di lentiggini, Stuart restava sempre
il ragazzo che a Liverpool aveva fatto strage di cuori.
Tutto
quello gli suonava strano e, anche se in cuor suo sapeva benissimo che avrebbe
dovuto adattarvisi, era come se fosse ancora una parte estranea, un qualcosa
che non riusciva ad incastrarsi alla perfezione in quell’enorme meccanismo.
-John,
non potrai più ritornare sulla Terra… So che è dura
da accettare, ma purtroppo è così. Quindi, prima ti rassegni e meglio è.-
Lennon
sobbalzò: gli aveva forse letto nel pensiero?
-Avanti,
vieni…- gli tese la mano, e lui la strinse.
Insieme
s’incamminarono verso la luce ed entrarono nel giardino, lungo i cui lati
correvano dei roseti.
Stuart
si staccò e accarezzò malinconico i petali di una rosa:
-Ho
trascorso gli ultimi diciotto anni a disegnare rose per lei, per quando finalmente ci ritroveremo…-
Sospirò.
-E mi sono disegnato un angolo tutto mio, qui,
perché mi sentivo così terribilmente solo…-
Si
voltò verso l’amico, sorridendogli: -Ma ora ci sei tu, e posso condividere
questo piccolo Paradiso con te, John.-
Lennon,
intanto, osservava il giardino a bocca aperta: -Stu,
ma questo è… Questo è Strawberry Field! Diamine, l’hai disegnato uguale!-
Stuart
sorrise compiaciuto, e annuì con il capo: sapeva quanto John fosse affezionato
a quel vecchio orfanotrofio.
-Pazzesco,
semplicemente pazzesco…- mormorò quello, sdraiandosi
sull’erba e chiudendo gli occhi.
L’amico
lo imitò e, dopo qualche minuto di silenzio, intervenne: -Sai che anch’io ho
incontrato Elvis? Mi ha fatto anche l’autografo! Perché, se avessi aspettato
te, alla buon’ora che l’avrei ricevuto!-
John
si tirò su un gomito e lo fissò stizzito: -Senti un po’, Dean Martin dei
poveri, non è mica colpa mia se hai tirato le cuoia prima che diventassi un
pochino famosetto, eh!-
Stuart
rise di cuore e Lennon fece altrettanto, quando il primo interruppe le risa:
-Anzi, sai che ti dico? Andiamo a trovare lui, Cochran
e tutta la gente che da giovani sognavamo di incontrare!-
-Ci
sto, socio!-
I
due amici si alzarono e, uno sotto braccio all’altro, si avviarono verso i loro
idoli.
Amburgo, 1980
Come
ogni mattina, Astrid si alzò abbastanza presto e andò
in giardino: amava prendersi cura dei fiori e vederli crescere rigogliosi, ma
in una zona il terreno non era fertile.
Vi
era però qualcosa di strano: da un po’ di tempo, in quel fazzoletto di terra
ogni giorno trovava una rosa sbocciata dal nulla, probabilmente per
confortarla, che durante la notte moriva
per fare spazio ad una ancor più bella la mattina seguente.
Quella
mattina, le spine che la punsero appartenevano ad una rosa che aveva i petali
del color del cielo, così bella ed irreale allo stesso tempo.
Era
certa che vi fosse qualcosa sotto ma, prima di poter fare anche una sola delle
mille congetture che aveva in mente, la raggiunse il marito, abbracciandola
stretta da dietro e sussurrandole: -Astrid… John
Lennon è stato ucciso.-
La
donna sentì le ginocchia mancarle e iniziò a singhiozzare, mentre l’uomo la
teneva stretta a sé.
Non
si accorse che le sue lacrime erano ormai divenute stelle, dipinte sui petali
che ora stavano cadendo al suolo.
Note dell’autrice
Prima
classificata al Contest “Il quinto Beatle” indetto
dalla cara Melardhoniel (grazie al cazzo,
partecipavamo solo in due LOL), questa storia è nata quasi per caso.
Era
da un po’ di tempo che volevo scrivere qualcosa su Stu,
ma non ho mai trovato il coraggio di farlo, perché lo conoscevo poco (e tuttora
è così).
Ho
preso informazioni dall’Anthology, da Wikipedia, da Backbeat e dalla
mia fantasia, che sicuramente sono fonti più affidabili di quella che sto per
nominare.
So
che la scena di Charles avrà sconvolto tutti, ma a mia discolpa posso dire che
già non sono molte le informazioni che si hanno su Stu,
figuriamoci sui suoi genitori!
Quindi,
se non vi sta bene la parte sopra citata, vi propongo di unirvi alla
sottoscritta per un pestaggio coi fiocchi ai danni di quel cazzone
patentato di Philip Norman, che nel suo “Shout!” ha
descritto Charles proprio così e.e
E
nulla, vi prego solo di aver pietà di me e di non lanciarmi troppi pomodori :3
Adiè e grazie per il
tempo che perderete a leggerla LOL
Bacioni,
Dazed;