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Autore: crystalemi    29/06/2011    8 recensioni
Donnie ghignò quasi allegramente. Si rigirò su un lato e prese ad osservarlo in silenzio per un po’. June stava per interrompere quel momento snervante quando il ragazzo lo zittì con un dito davanti alle labbra perfette. «Sai, a furia di essere psicanalizzato fin da quando hai tredici anni diventi più sensibile a certe cose. Tu sei felice qui e sai perché? Perché nel tuo stupido appartamento fai quello che vuoi, ma non ti sei mai reso conto che hai sempre fatto in modo che quello che vuoi sia anche la stessa cosa che gli altri vogliono da te. Quante volte hai pianto da piccolo pensando che qualcosa mancava o era sbagliato? Voi psicologi dovreste prima curare voi stessi, poi le altre persone.»
Come due vite, intrecciandosi, arrivano perfino a sconvolgersi.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questo racconto è la mia tesina per la maturità. Se penso che ho davvero portanto un mio racconto all'esame, torno a morire d'ansia. Avrei dovuto portare qualcosa di più classico. E' andata e a quel che ho capito nemmeno troppo male.
E mentre presentavo la tesina ho avuto eccezionalmente l'attenzione di tutti i membri della commissione, perciò vado piuttosto fiera di June e Donnie.

June Porter



Tre uomini stavano seduti dietro ad un lungo tavolo di forma ovoidale e sembravano persi in un mare di carte. Ad un’occhiata più attenta si capiva velocemente che si trattava di una mole di curricula quasi spaventosa e nessuno dei tre uomini sembrava in grado di resistere alla sonnolenza e alla noia che li aveva attanagliati ormai da qualche ora.
«Come va con il divorzio?» chiese l’uomo più a sinistra, smettendo di sfogliare l’alta pila davanti alla sua postazione di lavoro. L’interpellato, seduto al centro, sbuffò sonoramente, ma continuò a osservare i volti delle persone, scartando quelli che non apprezzava particolarmente. Si fermò per qualche secondo sulla fotografia di una ragazza bionda dal viso perfettamente ovale, le labbra ben disegnate e un paio di occhiali dalla montatura enorme e nera che pesavano sul piccolo nasino alla francese. Sospirò è la spostò nella pila da archiviare.
«Ormai anche questo calvario è quasi finito. Se andasse ancora avanti credo mi ritrovereste come paziente!» esclamò suscitando qualche sorriso comprensivo.
«Suppongo che i gemelli resteranno con Pauline. Non ti mancheranno?» domandò l’uomo sulla destra con un accenno di compatimento. Una risata quasi stizzita si levò dal centro, preoccupando gli altri due.
«Lizzy e Sean hanno chiesto di stare con me. Sean ha pianto perfino.» C’era un’espressione compiaciuta vagamente inquietante sul suo viso, mentre pensava a come i suoi due figli avevano praticamente ripudiato la loro stessa madre. Pauline lo aveva accusato di averli manipolati per portarli dalla sua parte, ma presto era stato chiaro che se lui aveva avuto il tempo di manipolarli era perché lei in casa non c’era mai stata per anni. «D’accordo, propongo una pausa.» esclamò il più anziano dei tre, seduto sulla destra, irritato dalla discussione oltre che molto stanco.
Entrambi gli uomini annuirono ma mentre gli altri uscivano dalla stanza quello seduto in centro rimase lì, ad osservare con uno strano cipiglio la foto di una ragazza.
Era bruttina, ma tipicamente irlandese: stessa pelle pallidissima, stesse lentiggini, stesso colore pel di carota, stesso sorriso ironico e stessi occhi acqua marina di molti irlandesi, eppure in lei c’era qualcosa che gli riportava alla mente un irlandese particolare; forse era l’espressione dolce e distaccata, forse il senso di estraneità che le conferivano gli occhi.
La sua mente volò a dieci anni prima, scucendo ferite che credeva da tempo cicatrizzate, riportando in vita quello che poteva considerare il sentimento più intimo che avesse mai provato in tutta la sua vita.

***



June Porter poteva essere facilmente considerato una persona felice, tale lui stesso era certo di essere.
Per prima cosa, viveva nell’agio, sostenuto nelle sue scelte da un buon conto in banca, due genitori facoltosi e di grande carisma, tanto che erano consueti in casa sua i via vai di persone più o meno importanti nella cultura, nella politica e nell’economia dell’Inghilterra e talvolta del mondo.
Per di più, le scelte che aveva dovuto compiere erano esigue: aveva seguito il suo talento innato per la psicologia, ma sarebbe stato strano se da un professore di psicologia forense e una criminologa di fama internazionale fosse nato un incompetente nel settore. Era sempre stato naturalmente portato alla professione di criminologo e tale era stato il suo percorso universitario.
Oltre che ricco e talentuoso, era bello e aveva una ragazza che amava profondamente, una con cui la calma regnava sovrana e che non era in grado di fare scenate o di arrabbiarsi, ma questo a lui andava benissimo, visto che non aveva mai amato discutere con le perone che amava. Pauline, la sua fidanzata, non era bella quanto lui, perciò il briciolo di narcisismo che viveva in lui era accontentato quando in pubblico sentiva le persone chiedersi come lei avesse potuto conquistarlo. A Pauline non piaceva quanto a lui, ma bastava assicurarle che era stata la sua personalità ad attrarlo che lei subito prendeva a gongolare, dimenticandosi delle malelingue e esaltando perfino la supposta sensibilità del fidanzato.
L’importante però per June era la tranquillità: adorava la tranquillità del suo mondo perfetto e quando qualche volta, avvertiva che qualcosa mancava, un buco nella sua anima che niente e nessuno era mai riuscito a colmare, lo attribuiva subito alla tendenza che aveva nel fare di tanto in tanto capricci come i bambini: era perfettamente conscio di essere viziato, ma aveva ventitré anni e nessuna intenzione di cambiare.
La sua vita era perfetta, sarebbe venuto il momento dei cambiamenti, presto o tardi.

Purtroppo, arrivò presto.
Che sua madre fosse sempre stata un’arpia non aveva dubbi, sebbene l’amasse, ma certo non si era aspettato quella stoccata.
Una mattina dei primi di agosto mentre pisolava sul divano del suo appartamento a Londra a causa di una nottata in bianco passata a studiare, Anice Porter piombò sul suo zerbino ed entrò in casa usando il mazzo di chiavi che aveva fornito stupidamente ai suoi genitori. Prelevarlo di peso e trascinarlo al posto del suo nuovo tirocinio fu tutt’uno.
Lo presero, benché lui non fosse particolarmente convinto del lavoro, forse era un po’ troppo delicato per un novellino, ma sua madre non volle sentire le sue (flebili, dovette ammetterlo) proteste.
E quello fu il dannato cambiamento che non avrebbe voluto che accadesse.
Quell’anno di tirocinio necessario alla laurea l’avrebbe passato su un’isola che come unica attrazione vantava un riformatorio dove pesti dai dieci ai diciotto anni passavano l’infanzia a causa di reati minori o perché qualche tribunale aveva deciso di tirarli fuori da un contesto familiare sbagliato e ancora non erano stati affidati a qualcuno. Il suo vero lavoro però era un ragazzo di nome Donald O’Connor sui diciassette anni scarsi e un terribile passato alle spalle, con tanto di omicidio sulla fedina penale a completare il quadro.
Sua madre lo aveva definito un “caso interessante” su cui cominciare a imparare, perché il tempo dei libri era finito e ora doveva “farsi le ossa” e questo ragazzo riassumeva in sé tutto ciò di cui June aveva bisogno per capire se era davvero tagliato per fare il criminologo.
June, dal canto suo, era abbastanza certo che fosse troppo delicato come compito per lui, un novellino. A diciassette anni avrebbe potuto completamente rovinare un ragazzo se non lo avesse trattato coi guanti, senza contare che aveva una differenza d’età davvero esigua e, poco ma sicuro, si sarebbe ritrovato a provare pena per quel suo coetaneo. La paranoia divenne per tutto il mese d’agosto sua fedele compagna, ma cominciò anche a fantasticare su questa isola, sull’anno intero che avrebbe passato lontano dalla realtà e su questo fantomatico ragazzo che perdeva sempre più spesso la rappresentazione da energumeno violento per diventare talvolta un angelo biondo che scivolava nel buio per uccidere e un demone moro, carismatico e terribile che prima di usare la pistola, uccideva con un sorriso.
Non aveva osato guardare alcuna foto del ragazzo in tutto quel tempo, benché avesse passato ore e ore a studiare gli atti giudiziari e ciò che la psicologa che s’occupava di lui al Centro aveva scritto come resoconto dei loro incontri.
Ad ogni parola un tassello s’aggiungeva e tutto continuava ad avere sempre meno senso, spaventandolo un po’ sulle sue capacità di criminologo.

Un senso e un volto il ragazzo li ottenne la prima volta che June arrivò al Centro di Rieducazione e finalmente lo conobbe.
Non era né biondo né moro, né angelo né demone: aveva una chioma di capelli pel di carota lunga fino alle spalle, scalati e disordinati, una pelle chiarissima tempestata di efelidi sugli zigomi e sulle braccia (uniche parti del corpo visibili dall’abbigliamento), un naso piccolo, gli occhi color acqua marina e un sorrisetto strafottente dipinto sulle labbra sottili. Per essere un ragazzo in grado di uccidere era un po’ troppo magro e dolce. A pelle però Donald diede a June un senso di fastidio, forse per il languore che sembrava possedere senza farci nemmeno caso, stesso languore che sarebbe potuto appartenere ad un piccolo demonio troppo innocente, o ad un angelo decaduto da così tanto da aver dimenticato la forza del suo desiderio.
Geraldine, la psicologa del Centro, li presentò nervosamente sotto lo sguardo fisso di Donald e June si rese conto che lei aveva effettivamente paura del ragazzo, sebbene apparisse subito come una donna forte, risoluta e incrollabile. June sentì con forza di essere stato dato in pasto ad una belva, tramite il comportamento di Geraldine e un po’ si spaventò.
Furono presto lasciati soli mentre la donna usava la scusa del fare conoscenza per svignarsela, ma June restò costernato quando Donnie – così gli aveva chiesto di chiamarlo – si rivelò una persona disponibile e di buona compagnia. Parlarono, scherzarono e risero su argomenti totalmente neutri e Donnie diede perfino mostra di acume, intelligenza e cultura come poche persone normali avrebbero potuto vantare. Il mostro che Geraldine gli aveva annunciato pian piano ritornò alle sue fattezze eteree.

C’erano stati giorni in cui June si era chiesto cosa fare con Donnie, perché se le conversazioni erano splendide e condite da un’ironia irresistibile, nelle sedute non si facevano progressi. Per quasi tre mesi Donnie si limitò a sedersi, guardarlo con aria insofferente mentre gli poneva domande che sperava lo aprissero nemmeno fossero formule magiche, e semplicemente non scucì le labbra né sulla sua famiglia, né sul processo, né sull’omicidio in sé. Nei suoi vestiti troppo larghi pareva quasi un bambino capriccioso con la fenomenale capacità di tenere il muso per ore fino a che June non si sentiva troppo sfibrato dal silenzio o dalle domande – sempre le stesse, sempre più stupide – che non trovavano risposte.
Aveva una frustrazione addosso che lo faceva impazzire e per di più non vedeva Pauline da mesi tanto che dentro lo stress e l’insoddisfazione aveva preso a ribollire come in una pentola di fagioli.
Stava per cedere, lo avrebbe ricordato tutti gli anni a seguire in cui un paziente particolarmente ostico sarebbe parso un caso senza speranza, ma il miracolo accadde all’improvviso, com’è giusto che i miracoli avvengano.
Donnie era impossibile da trovare dalla mattina a colazione, da quando precisamente il “boss” – come tutti chiamavano il responsabile della struttura – l’aveva fatto chiamare nel suo ufficio.
Il Centro di Rieducazione vantava una struttura strana, moderna, sì, ma piena di anfratti e corridoi ciechi che avrebbero fatto invidia a qualsiasi castello del centro-Europa. Ce n’era uno particolare che aveva spesso catturato l’attenzione di June, senza in realtà farlo davvero, visto che mai era stato tanto incuriosito da andare alla sua scoperta. Era un giardinetto interno, non più grande di tre metri quadri, ben curato, molta erba e un albero che con la sua chioma d’estate rendeva impossibile vedere dall’alto cosa accadesse sotto le sue fronde: era visibile da sotto la finestra della sua camera da letto che stava al secondo piano della struttura. June verso le quattro di un monotono pomeriggio di dicembre si era messo ad oziare leggendo un libro che avrebbe dovuto studiare per la tesi e nel frattempo chiedendosi che fine avesse potuto fare quella piaga di Donnie, cosa che decisamente lo innervosiva dal momento che ci teneva a fargli gli auguri di compleanno e quella mattina proprio non ce l’aveva fatta a bloccarlo in refettorio.
Fu un caso fortuito, ma affacciandosi svogliatamente dalla finestra per prendere una boccata d’aria e cercare di riprendere le funzioni cerebrali vide quell’inconfondibile matassa ramata fra i rami spogli e neri dell’albero al centro del giardinetto. Col cuore in gola, esaltato nemmeno fosse tornato all’infanzia, gettò all’aria il libro per la tesi, caracollò per le scale e infine si bloccò davanti alla grande porta antincendio che conduceva all’esterno. Riprese fiato, osservò le spalle curve di Donnie, piegato su se stesso e molto concentrato, poi tornò ad indossare la solita maschera di compostezza e spinse il maniglione verso il basso.
Donnie non si voltò, s’irrigidì solo per qualche secondo, poi appena richiuse la porta alle sue spalle si rilassò di nuovo e riprese a muoversi. Solo in quel momento June si rese conto che il ragazzino stava armeggiando con un set di attrezzi da lavoro poggiati accanto ad una sua coscia, ormai tutti sparsi nell’erba bagnata e sul suolo freddo.
Gli si sedette accanto e lo udì sbuffare, ma così facendo si rese conto di quello su cui stava lavorando: pareva in tutto e per tutto un circuito, benché non fosse in grado di capire altro. Lì accanto, giaceva una radiolina sventrata con cura quasi maniacale.
«Auguri.» gli mormorò gentilmente mentre si chinava oltre la sua spalla per cercare di richiamare alla mente alcune delle poche conoscenze di elettronica e fisica che aveva acquisito a quindici anni.
Donnie smise di torturare un componente e poggiò tutto delicatamente sulla radiolina sventrata.
Schiacciò un punto particolare del braccio e morse il labbro inferiore. Sapeva cosa avrebbe potuto trovare sotto la felpa June e un po’ ne aveva paura. Lo avevano avvisato che molti ragazzi finivano col farsi male dopo un certo tempo in quel posto. Donnie, comunque, lo sorprese appoggiandogli il capo contro la spalla.
«Sei la seconda persona che me lo dice oggi.» mormorò indicando con il braccio probabilmente ferito l’ammasso di fili e componenti che giaceva lì accanto. «Il Boss mi ha regalato quello e un’altra decina di cose simili.» ammise poi andando ancora a stringere sul braccio. June gli allargò piano la presa, ascoltandolo soffiare come un gatto contrariato e gli tirò su la manica: un lungo taglio profondo qualche millimetro partiva dal gomito e creava una spirale sull’interno del braccio, vicino alla vena. Doveva aver sanguinato parecchio e doveva fare ancora più male, ma Donnie strattonò il braccio quando glielo afferrò il più gentilmente possibile al polso. June lo lasciò andare ma lo strinse in un abbraccio per le spalle.
«Me la dici una cosa?» mormorò cauto, consapevole che Donnie era una mina vagante, ma senza aspettare risposta continuò: «Perché Geraldine ha paura di te?»
Donnie rise, non la sua risata spenta e smorzata, ma una dal suono cattivo e sarcastico che gli spediva brividi lungo tutta la colonna vertebrale.
«Ma dove hai vissuto in questi tre mesi?» gli chiese quando si fu calmato un po’. June boccheggiò irritato e umiliato, ma Donnie si spinse con più decisione contro il suo petto, con una ricerca di conforto estremamente dolce. In quel momento June capì di essersi guadagnato la sua fiducia, ed erano bastati degli auguri.
«Vedi, quando isoli delle persone, dei componenti della stessa specie, si viene a creare un microcosmo, una società in miniatura. Ma noi, io e i ragazzi, ma un po’ tutti ormai, non siamo civili. Ne abbiamo vissute troppe per esserlo, capisci? Viviamo liberamente e in modo quasi animale stabiliamo le nostre catene alimentari, le nostre gerarchie. Io sono in cima alla gerarchia perché sono l’unico ad aver ucciso, sono l’unico che viene visto come estremamente pericoloso da tutti: dai ragazzi, dal personale... Benché, se ci fai caso, gli stronzi non manchino. Qui ognuno sta per conto suo e ci governa la legge dell’occhio per occhio e quella del più forte. Quando entri qui dentro impari in fretta che o diventi la puttanella di uno dei più grandi o devi essere in grado di difenderti. Tutti, tutti!, dimenticano che questo è comunque un carcere! Siamo qui per un motivo, non in vacanza! Il mio motivo, però, batte i loro e questo li spaventa, senza contare che quelli che mi si piazzano fra i piedi passano un pessimo quarto d’ora.»
Per la prima volta June pensò a quel posto sotto quella luce, a come tutti quei ragazzi fossero davvero soli e spersi e probabilmente nemmeno fuori di lì avrebbero trovato comprensione; si rese conto, con cieco dolore, di quanta fortuna avesse avuto lui nella sua vita. Perché allora non poteva essere come Donnie? Tranquillo, ma al contempo deciso e disinteressato. La vista gli cadde sulla spirale incisa sulla carne: forse nemmeno Donnie era così calmo, forse quel vuoto lo provava anche lui.
«Vuoi raccontarmi altro?» gli chiese stringendogli le spalle desideroso di dargli conforto, visto che il ragazzo pareva essere quasi sull’orlo delle lacrime. Alla fine, dopo svariati minuti passati a riprendersi, Donnie scosse il capo.
«Ne parliamo domani. Sempre la solita ora?» gli chiese sciogliendo quel loro goffo abbraccio e riprendendo il suo materiale di lavoro fra le mani. Conscio che non avrebbe più cavato un ragno dal buco e che per quel giorno aveva intravisto fin troppo del ragazzo in confronto al solito, fece per alzarsi. Poi, gli sovvenne che forse era quel posto ad aiutare Donnie a parlare e gli propose di rivedersi lì l’indomani.
Il ragazzo scosse la testa e saluto con una mano il Direttore della struttura che li scrutava pensieroso da una delle finestre del secondo piano.
«Vengo io da te.» aggiunse infine Donnie rivolgendogli un’ultima occhiata obliqua.

Il giorno dopo June non riuscì a concentrarsi su nulla in particolare: passò il tempo a sistemare lo studio, mandando al diavolo la tesi e il suo nervosismo in contemporanea.
Donnie, puntualmente in anticipo, scivolò silenziosamente per la porta un quarto alle tre e si sedette con grazia mal celata sul divanetto dal pessimo gusto vittoriano che era appartenuto a Geraldine. Si scrutarono per un po’, bevvero del tè e infine il più giovane sbuffò, si levò le scarpe, un paio di converse nere, e si sdraiò sul divano.
«Facciamo un gioco.» esordì fissando il soffitto. «Uno fa una domanda a cui entrambi devono rispondere. Puoi farla solo se hai una risposta tua. Vera. Non mentirò.» concluse guardandolo appena di sottecchi.
«Comincio io.» rispose June e si prese qualche minuto per pensare «Ieri hai detto che qui dentro siete soli. Non c’è nessuno a cui tieni?» Donnie storse il labbro infastidito ma a quanto pareva, era un uomo di parola, perciò, seppur controvoglia, rispose.
«Ora no, fino a due anni fa c’era un ragazzo più grande che appena arrivai mi prese sotto la sua ala. L’hanno spostato in carcere quando è diventato maggiorenne. Non mi capiva, ma mi ha fatto apprezzare cose che consideravo abominevoli.» June fremette dal desiderio di chiedergli altro (e di appuntarsi quelle rivelazioni) ma si limitò a rispondere alla sua stessa domanda con un po’ di difficoltà.
«Non fosse per te e Geraldine probabilmente mi darebbe molto fastidio stare qui.»Donnie abbozzò un sorriso, forse felice, forse disincantato.
«Quindi ti trovi bene qui?» chiese con un sorriso scaltro.
«Abbastanza. Mi mancano un po’ gli amici e Pauline, la mia ragazza.»
Donnie ghignò quasi allegramente. Si rigirò su un lato e prese ad osservarlo in silenzio per un po’. June stava per interrompere quel momento snervante quando il ragazzo lo zittì con un dito davanti alle labbra perfette. «Sai, a furia di essere psicanalizzato fin da quando hai tredici anni diventi più sensibile a certe cose. Tu sei felice qui e sai perché? Perché nel tuo stupido appartamento fai quello che vuoi, ma non ti sei mai reso conto che hai sempre fatto in modo che quello che vuoi sia anche la stessa cosa che gli altri vogliono da te. Quante volte hai pianto da piccolo pensando che qualcosa mancava o era sbagliato? Voi psicologi dovreste prima curare voi stessi, poi le altre persone.»
June rimase di stucco, la rabbia presto però gli montò dentro, una rabbia cieca e disperata, mentre una parte di lui pareva morta e un’altra in giubilo. Il vuoto, sembrava starsi colmando di rabbia per quel marmocchio. Donnie gli sorrise con dolcezza e andò languidamente a sedersi sulle sue ginocchia, quasi non avvertisse il pericolo, ma quando lo strinse June avvertì la sua rigidità, la sua paura.
«Non sono sicuro di trovarmi bene in questo posto. Fuori mi trovavo male, ma qui dentro non ho nessuno, nemmeno mia madre che, per quanto vigliacca fosse, mi aveva sempre curato alla buona. Lui, mio padre, i lividi che mi lasciava, comunque, voleva rivederli.»
June si placò piano quando la piccola vipera si ritrasformò in un gattino sperduto e gli si premette contro.
«Perché hai ucciso?» gli chiese con dolcezza, direttamente nell’orecchio, facendolo tremare un po’. Fosse stato davvero un gatto, June ne era sicuro, ora avrebbe fatto le fusa.
«Tu non hai una risposta. Non hai ucciso nessuno.» mormorò cupo, affondando la fronte nell’incavo fra spalla e collo. June lo strinse un po’, con tutta la dolcezza possibile e gli venne in mente un episodio stupido di quando era bambino. Aveva ucciso anche lui.
«Ero piccolo, volevo sapere cosa sarebbe successo, ero curioso e la curiosità dei bambini è ciò che di più crudele e innocente possa esistere. Con degli amici catturammo molte lucertole e le “sezionammo”, anche se ovviamente non sapevamo nemmeno cosa stavamo facendo.» gli sussurrò e Donnie sorrise gentilmente.
«Perciò la vita di due o tre lucertole vale quanto quella di un uomo?» chiese, poco in vena di dargli risposte.
«Certo, di sicuro vale più di quella del tuo mostro.»
Donnie tremò, certo non di freddo, ma continuò a tacere a lungo. June si maledisse, perché era troppo presto per porre quella domanda, non avrebbe dovuto ed in più aveva banalizzato la cosa. Era ufficialmente un idiota.
Ma Donnie, fra i tremori, alla fine parlò.
Gli raccontò di suo padre, di sua madre e sua sorella, degli abusi che aveva sopportato fin dai sei anni, della falsa indifferenza di sua madre, del desiderio di proteggere la sorellina, della paura, delle urla, del vuoto, del dolore, dell’umiliazione... lo calò parola per parola nel suo inferno personale. Più volte si dovette fermare per calmare il corpo che tremava come una foglia nel rinnovare quelle sensazioni, più volte la mano di June dovette andare a liberare la spirale incisa nel braccio, che veniva torturata violentemente dalle unghie che grattavano via le croste, incidevano e graffiavano senza alcuna pietà.
Donnie era un fiume di parole, quasi June poteva vedere la vita scorrere violentemente dalle sue labbra all’intero mondo, trascinando con sé le paure di un ragazzo che stava riconquistando con le unghie e coi denti la sua dignità.
Non pianse Donnie, nemmeno una lacrima lo infastidì e June non poté che ammirare quella forza, quell’orgoglio che gli impediva di piangere davanti a lui.
Poi, accadde l’irreparabile. Più avanti avrebbe ripensato a quegli istanti con vergogna e desiderio: aveva tradito la sua professionalità, ma era stato per la prima e unica volta se stesso. Donnie lo baciò piano in una pausa, venuta prima del racconto nei dettagli dell’omicidio. Il ragazzo stesso parve stupito di quello che aveva fatto e fece per andarsene subito, accampando delle deboli e poco sentite scuse, ma June lo trattenne. A distanza di sicurezza si fece raccontare il resto. Donnie, con uno sguardo duro e deluso finì brevemente il suo racconto.

In seguito June aveva dovuto riconquistare la sua fiducia perché di nuovo Donnie s’era chiuso a riccio, benché qualche pensiero profondamente sbagliato lo vezzeggiasse facendogli presente che forse il ragazzino stava semplicemente digerendo una delusione d’amore. Quei pensieri lo spaventavano a tal punto che più volte chiese permessi per tornare a casa un paio di giorni, quando partiva e quando tornava Donnie vestiva sempre un’espressione di indifferenza, ma Geraldine l’aveva informato che diventava piuttosto scontroso.
Evidentemente, presto si abituò a quelle fughe e riprese anche a parlare, talvolta senza nemmeno ricorrere al loro gioco. Non che parlasse solo del passato, anzi, talvolta si perdeva in strane considerazioni filosofiche sul senso della vita e del dolore, mentre altre volte si perdeva in sogni ad occhi aperti sul futuro che talvolta gli era benevolo, mentre più frequentemente diventava uno specchio del passato dove era lui il mostro. Donnie era intelligente ma soprattutto acculturato e curioso: conosceva bene molti casi di serial killer che parevano aver vissuto il suo stesso passato e pareva sia terrorizzato che affascinato dall’idea stessa che avrebbero potuto capirlo meglio di chiunque altro, non fossero stati morti o in carcere a vita. Diversamente da quello che gli atti prevedevano – quasi ovunque sul suo fascicolo si ricordava che era psicologicamente labile – June trovò il ragazzino di una lucidità spaventosa quasi: cosa certa era la sua totale sanità mentale. L’omicidio, come Donnie stesso l’aveva informato era stato frutto di una cieca rabbia momentanea, quando l’ultima secchiata d’acqua aveva fatto traboccare il suo vaso di sopportazione; e il padre era stato un idiota a minacciarlo più volte con una pistola carica: Donnie aveva premuto il grilletto senza nemmeno sapere se fosse carica o meno, avrebbe voluto solo spaventarlo per farlo allontanare dalla sorellina.
Nei mesi a seguire sia June che Donnie abbandonarono qualsivoglia inibizione durante le sedute e finirono a parlare di tutto, come amici di vecchia data.
June se ne andò in agosto, Donnie fu rilasciato in dicembre, finalmente maggiorenne; ma non si cercarono mai.

***



L’aveva rintracciato solo dopo dieci anni e aveva preteso che la segretaria lo chiamasse e lo convocasse a suo nome in un bar del centro; si vergognava come un ladro ma sapeva di doverlo fare, perché in fondo aveva già cominciato a risistemare quella vita che proprio lui aveva tanto criticato: il divorzio da Pauline, la decisione di aprire uno studio e lavorare come psicologo per bambini e ragazzi, l’idea con i suoi due colleghi di quel centro per ragazzi che la società considerava problematici, il mandare del tutto a quel paese sua madre e suo padre che lo volevano laureato in criminologia e con un buon posto a Scotland Yard... ci aveva provato a tornare a vivere come nulla fosse accaduto, ma proprio quella vita soffocante non faceva per lui, non dopo aver conosciuto Donnie, non dopo aver conosciuto se stesso attraverso il ragazzo.
Era semplicemente naturale desiderare che il ragazzo facesse parte di quella vita: era l’unica persona, oltre ai suoi figli, che voleva accanto.
Perso in quei pensieri e nelle fantasie su come fosse diventato Donnie in dieci anni, passò dieci minuti buoni al tavolino di quel bar famoso che adorava. Puntualmente in anticipo di qualche minuto arrivò il ragazzo che attendeva e che lo spaventava incontrare di nuovo, perché quella era la svolta definitiva ed essere rifiutato in quel momento avrebbe significato fallire in tutto.
Donnie era cambiato parecchio: non era più etereo, era un uomo fatto e finito. I capelli erano sempre lunghi e ramati, più curati però, da sotto la canotta nera e larga si intravedevano i muscoli e l’enorme felpa multicolore non nascondeva le spalle larghe. I jeans lunghi e larghi – la passione smodata per gli abiti più grandi di lui non gli era evidentemente passata – nascondevano probabilmente delle gambe muscolose che sicuramente non avevano nulla a che fare con quelle delicate e femminee dei suoi diciassette anni. Persino la pelle era meno chiara e le lentiggini erano molto più evidenti ora che mai. Doveva aver preso il sole di recente.
Donnie si sedette con la solita grazia malcelata e ordinò subito una cioccolata calda. I suoi occhi acquamarina ignorarono la cameriera e i suoi sguardi languidi e si posarono su di lui, con calore e affetto.
«Non pensavo potessi diventare più bello, June.» esordì con dolcezza, tirando fuori dalla tasca del cappotto un pacchetto di Marlboro e un accendino con il suo segno zodiacale come decorazione. Fosse stato meno felice di vederlo così rilassato e aperto al dialogo, June sarebbe arrossito per quel complimento che mai nessuno gli aveva fatto.
«Hai un lavoro stabile?» gli chiese ringraziandolo con un sorriso, ben sapendo che quella volpe di Donnie aveva recepito il complimento che gli aveva fatto appena era entrato, mentre aveva passato in rassegna ogni centimetro di lui.
«No, sto aiutando dei conoscenti in alcuni bar e fino a settimana scorsa ero a scaricare e scaricare navi. Sembra assurdo ma non è male fare lo scaricatore di porto!» gli sorrise discretamente, accettando la tazza di cioccolata e che June offrisse.
«E io che pensavo di offrirti un lavoro con contratto a tempo indeterminato.» Donnie si fece attento.
Gli spiegò l’idea del centro per ragazzi e la necessità di trovare qualcuno che potesse capirli fino in fondo, si perse a raccontargli anche di tutti i curricula che aveva dovuto esaminare e del fulmine che aveva scosso la sua memoria e la sua volontà: chi meglio di Donnie avrebbe potuto aiutarli, capirli, guidarli?
Quando il ragazzo sollevò la questione del titolo di studio – non possedeva nemmeno il diploma – June fece spallucce, quello che gli interessava era l’esperienza e aveva le giuste conoscenze ai piani alti dell’istruzione per fargli ottenere quel diploma inutile, senza considerare che Donnie sapeva più di molti altri psicologi sparsi per l’Inghilterra e laureati.
Donnie accettò con un sorriso dolcissimo e June si ripromise di chiedergli quanti salti mortali aveva dovuto fare per mantenersi in quei dieci anni. Nel frattempo, gli raccontò del divorzio da Pauline e gli espresse il desiderio di vederlo occupare la stanza lasciata libera dalla moglie e quello di fargli conoscere Lizzy e Sean, i suoi due monelli di nove anni. Donnie annuì e timidamente gli sfiorò la mano che June teneva sul tavolo.
«Sono passati dieci anni Junie e non puoi nemmeno immaginare quello che passavo ogni volta che ti pensavo.» Lo informò con un sorriso mesto Donnie e June stavolta quasi arrossì davanti a quel nomignolo che solo sua madre aveva utilizzato e solo quand’era un bambino.
«Avevo paura. Ho ripreso a nascondermi tentando di vivere la famiglia, la società e il mondo così come gli altri mi volevano, ma non posso più resistere a questa trappola quando l’unico desiderio che ho è quello di averti accanto. Pensavo d’impazzire, poi ho deciso di cambiare ed essere un pazzo. In fondo, Donnie, anche se verremo considerati malati, siamo i veri sani perché viviamo come abbiamo bisogno di vivere. Tutte le convinzioni di cui mi hanno infarcito i miei genitori, i professori, Pauline... che senso hanno se non riesco a viverle? Che pensino quel che vogliono, la mia vita non è quella, nella mia vita ho bisogno di te, di aiutare e non di giudicare, di crescere i miei figli con amore, non voglio ambizione e aspettative, non voglio che siano dei burattini, non voglio infarcirli con le mie convinzioni.» ammise stringendo quella mano ora grande e non più delicata ma callosa e chiaramente maschile.
«Junie, non puoi privare i tuoi figli di ciò che pensi. I tuoi valori devi passarglieli perché altrimenti non saranno mai persone vere, non negargli l’amore e l’educazione.» mormorò Donnie guardandolo quasi intenerito. June sorrise mesto, accettando che le dita del ragazzo s’intrecciassero alle sue.
«No, non voglio togliergli il mio amore, hanno sofferto fin troppo con Pauline. Voglio che crescano amati ma senza pregiudizi e certezze preconfezionate. Capisci?» domanda inutile, si rese conto June quando vide Donnie sorridergli con una dolcezza che nessuno gli aveva mai rivolto. Si sentiva quasi un bambino davanti a lui.
Poi, lasciarono stare uno le dita dell’altro, mentre la cameriera portava lo scontrino con un sorriso forse un po’ deluso. Quando se ne fu andata Donnie mise via il pacchetto di sigarette e propose un giro per il centro.
«Possiamo provare June, ma non voglio fare promesse. Sono comunque dieci anni.»
Nonostante non si fosse aspettato di più, June provò una punta di delusione. Donnie però sorrise e per una ventina di minuti gli parlò dei primi anni di libertà vigilata, dei primi lavori e dei primi amori.
Verso mezzogiorno si separarono con la prospettiva di una nuova vita assieme, entrambi consci di non aver mai desiderato altro.


Note finali: Spero sia piaciuta. Potrei allegarvi la trattazione come nota al testo, ma non interessa di certo a nessuno, perciò vi risparmio. In cambio di tale atto di clemenza, commentate? xD
EDIT: allego la tesina per quei pochi interessati: Joyce, darwinismo, Svevo, Pirandello e Freud

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