Don’t Fear the Reaper
優しい 死
Grazie a chi con pazienza legge i miei lavori e li commenta.
Tributo all’omonima canzone dei Blue Oyster Cult, sulla quale peraltro è
stato fatto un bellissimo AMV di Yami no Matsuei… ok ^_^’
Alzarsi fu esattamente come tutte le altre mattine dell’anno, io questo non
me lo sarei mai aspettato. Forse un ruolo fondamentale lo aveva da subito
giocato il fatto che non ero solo. Tuttavia, il mio stato d’animo era ben
diverso da quello che indossavo nei giorni di scuola l’anno prima e che
pazientemente stiravo ogni sera, senza però averlo prima lavato. Temevo che
perdesse il colore dell’indifferenza, che da sempre mi aveva contraddistinto.
L’abito emotivo che l’abile sarto mi aveva confezionato appositamente per
quella mattina, era piuttosto diverso dallo scolorito mood liceale. Era anonimo
e sufficientemente comodo per non stare troppo a riflettere, avrebbe favorito
la corsa ma non mi avrebbe permesso di andare eccessivamente lontano.
Un sole splendido come quello, non l’avevo mai visto.
“ Ti fai una doccia?” mi chiese con l’immancabile sorriso di chi ad ogni
costo è deciso a proteggerti, ma non te lo vuole far pesare.
Non risposi, non ne avevo la minima voglia. Sapevo che non mi avrebbe
rimproverato e che non si sarebbe lamentato minimamente. Considerare il mio
atteggiamente sbagliato era assolutamente fuori discussione quel giorno. Ero
intenzionato a perseverare nel mio silenzio, sarebbe sicuramente stato
esteticamente più bello di qualsiasi parola.
E comunque la doccia me la feci sul serio, preoccupandomi che lui non mi
sentisse. Non volli neanche che entrando in bagno potesse accorgersi del mio
passaggio. Spalancai le finestre e stetti per qualche secondo sul davanzale per
assaporare quella commistione tra aria gelata e calore domestico. Nudo, in
quella posizione, ero quando di più perfetto e fragile ci potesse essere sulla
faccia della terra, comparabile unicamente alla specie di corallo più rara. Ero
sicuro che nessuno mi avrebbe toccato. Nessuno tocca una pietra preziosa in formazione,
nessuno osa invadere la perfezione che si forma e si addensa intorno ad una
roccia.
Se non altro, l’aria ghiaccia avrebbe evitato l’appannamento dello
specchio,e sarebbe stato già un punto a mio favore, senza contare che non si
sarebbe avvertito il calore dell’acqua. Per ovviare a questo avrei potuto anche
farmi una doccia fredda: lo specchio non si sarebbe appannato e le nuvole di
vapore acqueo intrise del mio odore non si sarebbero propgate nella stanza.
L’acqua fredda lava via anche il più sporco dei peccati, è sterile e non è
familiare all’uomo a causa del suo estremo rigore.
Io la doccia me la sarei fatta calda, perché così la adoravo. Assuefacente,
mi avrebbe chiesto il permesso di entrare nei meandri più segreti e sconfinati
del mio corpo e della mia anima, e io le avrei consentito l’ingresso, ansioso
di scendere a patti con la libidine e curioso di scoprire come il diavolo ama
lavarsi.
Quando mi fui infilato l’accapatoio notai che effettivamente il vetro non
si era appannato, e fui tentato di chiudere la finestra. Tuttavia la mia
prudenza mi portò a desistere, non era ancora detta l’ultima parola, il piano
non era ancora perfetto. Non appena fui sufficientemente asciutto presi un
asciugamano e mi misis pazientemente ad asciugare ogni angolo della doccia, non
avrei lasciato neanche l’odore dell’acqua, tantomeno il mio, di odore.
Asciugai anche il pavimento.
Trattai i miei capelli con cura maniacale. Le ciocche bionde mi scendevano
disordinatamente sulla fronte e tutt’intorno, come fiocchi di neve grandi e
lenti nella loro discesa, ma estremamente intrisi di bellezza. Alla luce del
sole li vedevo assumere riflessi aurei.
Chiusi la finestra.
Lo trovai in cucina alle prese con una fetta di torta. Doveva essersi
alzato presto apposta per andarla a comprare, pensando che potesse servire a
dipingere un sorriso sulle mie labbra. Mi guardò sorridendo, in maniera
piuttosto stupida, a dire il vero. Mi sedetti accanto a lui. Profumava di
dopobarba, e i suoi capelli erano stranamente ordinati. Il suo profilo
scomparse pochi secondi dopo dietro una tazza di caffè. Rimasi con le mani in
mano per qualche minuto, facendo attenzione che non mi scoprisse mentre lo
guardavo.
“ Uhm, dopo la doccia devi essere affamato…” disse dopo aver appoggiato la
tazza sul tavolo. Sorrideva come non mai, la fronte mi bruciava, e anche lo
stomaco inizava a a cedere. Se n’era accorto che mi ero fatto la doccia. Quando
mai ero riuscito a fargliela? Aspettava una risposta, e sapevo che si sarebbe
accontentato di un movimento indefinito della mia testa. Al mio annuire si alzò
e canticchiando si mise ai fornelli. Adesso era inevitabiole guardarlo, ce
l’avevo sotto gli occhi anche se di spalle. Era allegro. Sapevo benissimo che
tutta quell’allegria non poteva che essere un suo tentativo di farmi almeno
sorridere, ma doveva esserci qualcos’altro. Mi rifiutavo categoricamente di
credere che tutto ciò fosse per lui innato e spontaneo, e non volevo neppure
pensare che lo facesse solo per me, nascondendo una grande tristezza. Ma quel
giorno non avrebbe avuto di che essere triste, non direttamente. Doveva avere
una precisa motivazione per comportarsi in quel modo. Se non fosse stato più
grande di me di sei anni – era quindi in tutti i casi mio senpai*- e molto più
robusto e alto di me (già non ero un gigante, e lui era 15 cm più alto di me, e
molto più muscoloso… io ero sempre stato fragile. Una bambola di porcellana)
l’avrei picchiato già dalla prima volta che l’avevo visto.
Capelli scuri, occhi chiari. Nel pieno dei suoi venticinque, recentemente
compiuti e visibili in tutto il loro splendore sulla pefezione di quel ragazzo
che tra non molto tutti avrebbero chiamato “uomo”. E mio malgrado avrei dovuto
rassegnarmi anche io; rassegnarmi a essere un ragazzino insieme ad un uomo.
“ Ecco qua “ mi disse servendomi qualcosa da mangiare “ spero che ti
piaccia!” sorrideva mentre tratteneva la frustrazione che gli causavo. Sembrava
così beato e contento di sé, pareva proprio che avesse trovato una dimensione
nella quale poter sostare per molti anni senza dover sentire il peso di vivere
e l’incalzare del tempo. Rimboccarmi le coperte lo faceva stare davvero bene?
Erano i miei capricci che gli davano tutta quella gioia di vivere?
“ Quando imparerai a usare il sale?” gli dissi sospirando dopo il primo
boccone. Stavolta non stavo fingendo, era davvero schifosamente salata quella
roba…Comunque, se avessi avuto intenzione di ferirlo mi sarei sbagliato di
grosso, perché articolò la sua solita risata a metà tra il divertito e il
rassegnato. Allungò una mano. Sapevo troppo bene cosa desiderasse. La
sensazione di movimento e calore che pervase d’un tratto i miei capelli ne fu
la prova. Se ne stava lì seduto davanti a me, sorridendo beato… il mento
appoggiato su una mano.. il braccio destro proteso in avanti per raggiungere i
miei capelli; in quel momento sembrava davvero beato, avrei giurato che stesse
assaporando i fumi della frustrazione e che li stesse trovando deliziosi e
assuefacenti. Era soddisfatto delle sue sicurezze, sapeva che avrebbe rivisto
quella scena ancora a lungo.
Abbassai lo sguardo e continuai a mangiucchiare qualcosa, ma lo stomaco mi
si era chiuso. Lasciai andare istintivamente le posate. La sua mano era sempr
elì sopra la mia testa, se avessi alzato gli occhi avrei visto il suo braccio,
ma non mi mossi. Sentivo un fiume bussare disperato alle porte della diga, ma
non lo lasciai passare per nessun motivo, non senza un pedaggio adeguato. Ma
quel tipo di fiume cosa poteva darmi? I muscoli iniziarono a farmi molto male,
erano ormai diversi minuti che l’armonia mi aveva abbandonato, ma non appena la
sua mano tornò a posarsi sul tavolo, essa tornò ad animarmi, portandosi dietro
una lacerante nostalgia. Come al solito.
Sorrise un’ultima volta ed iniziò a sparecchiare. Tornai in camera.
Sulla porta un rumore mi fece sussultare. Doveva aver fatto cadere un
piatto. Dolcemente irrecuperabile, come era sempre piaciuto a me.
Pur essendo convinto di dovermi vestire, mi arresi –passando davanti allo
specchio- al fatto che vestito ero già.
Il corridoio era vuoto. Non mi piaceva, la possibilità di incontrare i miei
pensieri in quel momento era troppo alta. Prima che potessi accorgemene, lui mi
aveva appoggiato il cappotto sulle spalle.
“Andiamo?” l’avrei seguito anche all’inferno quando si rivolgeva a me con
quel tono e con quello sguardo… non c’era nulla di più umiliante per me…
Non volli assolutamente che mi prendesse per mano, non lo potevo tollerare
in quel momento, il suo passo misurato e elegante mi urtava terribilmente, non
riuscivo a reggermi in piedi. Il pomeriggio lo passammo in giro per negozi.
Volle comprarmi per forza una camicia che secondo lui mi sarebbe stata
benissimo.
Il cimitero non era affatto affollato, ma essendo sabato me lo sarei
aspettato… Il sabato è fatto per divertirsi e portare a termine le aspettative
di una settimana di scuola o di lavoro. Poi, in realtà, è sempre piuttosto
deludente, quasi risentisse della troppa importanza che gli viene data.
Immaginavo che quella sera lui mi avrebbe portato a cena fuori da qualche
parte.
Un carro funebre ci passò accanto. Al suo interno i resti di un bouquet di
camelie. Mi ricordava il carro sul quale fu portata via la persona che stavamo
andando a trovare.
Scollinammo. E apparve la laguna costellata di graziosi puntini rosa che si
muovevano disordinatamente. Le ali dei fenicotteri tuttavia, mostravano il loro
cuore rosso soltanto quando si alzavano in volo in seguito a rumori sospetti o
al passaggio di qualche pescatore.
Il sole iniziava a dare i primi segni di cedimento, regalando allo specchio
d’acqua salmastra riflessi rosa e arancio. Guardai lui… mi stava accanto, da
quando eravamo entrati nel campo santo non mi si era allontanato un attimo, e
io non me ne ero accorto. Mi stupii di non averlo allontanato e comunque di non
essermi fatto da parte. Stava guardando i fenicotteri anche lui. Per scrutarlo
bene in viso dovevo alzare non poco la testa.. La sua pelle splendeva non meno
dell’acqua, sebbene con un riflesso leggermente diverso: intriso di vigore e di
apparente onnipotenza. Lo avrei creduto capace di qualsiasi cosa in
quell’istante, non mi sarebbe sembrato strano vederlo mentre spiccava il volo
mostrando le sue ali… io non avevo mai visto le sue ali.
“ Mi piace quando mi fissi… sai?” proruppe dolcemente senza rivolgermi lo
sguardo. Se n’era accorto allora. Arrossii con violenza. Mi bruciava il cuore.
Mi cinse le spalle con un braccio.
“ Tu sai volare?” gli chiesi strattonandogli la manica del cappotto e
cercando la sua mano con la mia.
Sorrise in modo ancora più evidente.
“ E chi lo sa… magari un giorno volerò anche io… come loro” mi disse
indicandomi gli uccelli rosati che piano piano si alzavano in volo. Di nuovo
sentii quel calore alla testa. Se ne approfittava perché era più alto di me.
“ Secondo te perché i fenicotteri fanno vedere il rosso delle loro ali solo
quando si alzano in volo?” gli chiesi allora. Malgrado stessi facendo del mio
meglio per evitarlo, sentii un abbozzo di sorriso disegnarsi sugli angoli della
mia bocca. Lui schignazzò e si mise in bocca un dolcetto.
“ Uffa, dovevamo mangiarli dopo…” commentai trattenendo il sorriso.
“ Uhm –gnam- comunque –gnam-“ iniziò tra un dolcetto e l’altro. “lasciamene
un paio però..” aggiunsi.
Buttato giù l’ultimo dolcetto, si fece serio.
“ Beh, secondo me sono semplicemente troppo orgogliosi!” disse poi
lasciando trasparire una sorta di allegria.
“ Uhm…” risposi io “ Dici?”
“Beh, non è proprio esatto.. Io credo che vogliano mettere al sicuro la
loro bellezza e mostrarla nel momento della fuga, mentre si allontanano
lasciandoti solo e senza parole. Stordito da questo spettacolo. Magari sono
solo un po’ spaventati. In un certo senso.. “ si interruppe e sorrise. “ … sono
un po’ come te, vero?”
Arrossii nuovamente, ma stavolta non evitai il sorriso, e una volta per
tutte gli afferrai la mano. In confronto alla sua, la mia mano non era affatto
più piccola, soltanto più gracile.
Si girò verso di me.
“ Te la senti?” mi chiese con dolcezza, facendo attenzione ad usare un tono
di voce che non suggerisse sfida, ma solo un camminare su un cavo sospeso in
aria, con un’immensa rete sotto, in modo tale da non dover temere una caduta.
Feci cenno di sì con la testa.
La lapide era ornata da fiori di svariati tipi e colori, tutti freschi ,
segno evidente che qualcuno doveva essere passato quella mattina. Non ci feci
molto caso, tuttavia mi fece molto piacere osservare che il mondo della
quotidianità non aveva ancora escluso la persona che adesso giaceva là.
La data di morte però era sbagliata, e l’avevo notato fin dalla prima
volta. Non era stato il 13 Gennaio di due anni prima, bensì l’11.
Mi tornavano sempre in mente molte cose quando lo andavo a trovare nella
sua ultima dimora. Il suo modo di baciare, il suo accento, come vestiva. Mi
ricordavo ogni singola espressione del suo viso, il rumore che facevano le scarpe
sulla neve. Poi ovviamente ero pervaso da vere e proprie sensazioni fisiche e
finivo per crollare. Ero capace di stare lì per ore nel tentativo di ravvisare
qualcosa che testimoniasse la sua presenza vicino a me. Che ne sapevo io se
quello là sotto fosse davvero la persona che reclamavo disperatamente?
Ma quella volta, quasi nulla. Solo gli occhi e i capelli. E il dolore.
Ecco, quella volta pensai che quello di morire fosse stato un grande favore
e gli fui profondamente grato. Da quando se n’era andato, mi avevano insegnato
a non temere il mietitore, proprio come il vento e la pioggia. E le stagioni.
Guardai la persona che in quel momento mi stava accanto. ero stato richiamato
dalla sua voce che si era fatta strana. Lacrime rigavano il suo volto, e sebbene
esprimessero la frustrazione pura erano meravigliose.
Mi guardò.
“ Vuoi che muoia anch’io?” gridò. Non me l’aspettavo.
Prima che potesse aggiungere altro io stavo sorridendo. Cadde in ginocchio.
Mi inginocchiai anche io, davanti a lui, e asciugai quelle lacrime.
Forse qualcuno era morto due anni prima, ma se questo doveva essere il
risultato… beh, non dovevo piangere. Era tutto molto chiaro. Visto che ormai la
paura di umiliarmi era un ricordo lontano…
“ Shu, mi sposi?”
E quella sera ce ne andammo a cena fuori come previsto, ridendo a
crepapelle di come sia meraviglioso fare certe proposte in un cimitero… Ma
nessuno di noi due aveva paura.
*senpai: in Giappone un senpai è uno compagno/collega più grande di te, al
quale solitamente bisogna tributare un certo rispetto.