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Autore: LawrenceTwosomeTime    02/07/2011    1 recensioni
Una breve vicenda sentimentale che tratta di un rapporto difficile da definire, con un finale né tragico nè lieto.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Le tendo una mano per aiutarla a salire, ma a giudicare dalla sicurezza del passo non ne aveva bisogno.
Poco male, l'uomo ha il dovere morale di essere cortese e alle donne di solito non dispiace.
Ora sediamo rincantucciati in un angolo del vaporetto, il rombo rauco del motore che culla il nostro incedere. Il giorno si trascina poco per volta verso la notte, il cielo dietro i vetri appannati ha il colore dell'oro sporco.
"Siamo andati bene", sussurra lei dopo un po'.
"Tu sei stata fantastica", rincaro,"Io me la sono cavata, ma ho evitato per un soffio di fare una figura di merda"
"Come mai?", mi domanda in un germogliare di genuina curiosità.
"Mah, si era detto che dopo aver finito il mio pezzo avrei dovuto uscire dalla porta di fronte. Ma lo spazio non era organizzato tanto bene: c'era una sedia da spostare, e un tizio – uno stoccafisso, uno del pubblico – che stava in piedi davanti alla porta. Ho fatto una fatica boia"
Lei fa un risolino muto, gli occhi socchiusi.
"E poi, finalmente entro e cosa mi trovo davanti? Una stanza apparecchiata come neanche alla corte dello zar: posate d'argento, calici di cristallo, tovaglie bianche di lino o non so cosa. Qui i piani sono cambiati, mi dico. Insomma, come può essere che gli attori debbano radunarsi in una sala dove si suppone che la gente, che i beccamorti la fuori, mangino? Loro entreranno qui, e noi? Che ci staremo a fare?"
"Ma dopo saremmo usciti, no?"
"Vallo a dire al mio subconscio…"
"Insomma", proseguo"Prima mi mordo le mani, poi mi guardo intorno, poi me le rimordo"
"Infatti, hai ancora i segni", dice lei prendendomi la mano e poggiandosela sul grembo. La rivolta sul dorso come se fosse un animale raro e giocherella con le mie dita paralizzate, mentre il cuore accelera i battiti.
"Già… E così sono sgattaiolato fuori un momento prima che iniziasse il pezzo successivo, strisciando tra gli spettatori. Ho raggiunto il portone laterale e mi sono seduto sulle scale, fuori dal loro raggio d'azione. Dev'essere suonato un gesto naturale, se non altro programmato, perché neanche la capa ha dato segno di essersene accorta. Forse era troppo distratta a presentare la sua nuova pupilla, Jane la regina della giungla"
La mia amica sbircia per un momento un punto invisibile sopra la sua testa, dicendo tutto senza dire niente.
"Insomma, voglio dire, è stata oscena. Io non ne so un granché di canto, ma era evidente che l'unica cosa più sbracata delle sue arie erano le arie che si dava. Con la spallina del vestito abbassata, come una diva bohemien"
La mia compagna di viaggio ama quel modo di vestire, ma sa che per me c'è una differenza abissale tra chi "vorrebbe essere", come la ragazza che stiamo screditando, e chi "gioca a fare a", lei nello specifico.
E sa che io so che per lei il gioco è indispensabile, proprio perché frivolo. Senza frivolezza non esiste l'ironia, e senza l'ironia si finisce per prendere tutto sul serio, che è il modo più rapido per perdere di vista i propri valori.
Ma l'ultima parte sono idee mie.
E comunque, anche lei canta (decisamente meglio). Cristo, canta anche quando parla, la sua voce è fatta per cantare. Evita di esprimersi solo per non mortificare definitivamente la memoria di quell'esibizione.

Siamo di ritorno da un piccolo spettacolo privato imbastito dalla nostra compagnia di dilettanti. Per chi e dove, preferirei non dirlo: sarebbe costernante. E non fraintendetemi, avrei preferito esibirmi in un orfanotrofio puzzolente, circondato da marmocchi chiassosi, piuttosto che lì.
Ma la verità è che un attore vuole recitare, proprio come la voce della mia amica è fatta per cantare e le rondini costruiscono il nido. Anzi, no: proprio come le rondini possiedono le ali e il becco.
Sto riflettendo se valga veramente la pena anteporre le necessità biologiche alla dignità umana, ma in fondo al cuore so che il viaggio compensa ampiamente il prezzo del biglietto. Ora siamo soli, io e lei, su questo battello spolverato dalle onde, l'impegno precedente si è estinto e nessuno, dal mare ai passeggeri a noi che ci raccontiamo placidamente i fatti nostri, sembra avere fretta.
Ovviamente non stiamo insieme. Ci avevamo già provato, prima lei, poi – quando lei aveva fatto dietrofront – io. Ma non importa.
Non siamo quello che si definisce comunemente "buoni amici", del tipo che si sono appena lasciati, perché non siamo mai stati veramente una coppia.
È come se fossimo intrappolati in un limbo fuori dal tempo, in quella zona tesa e bruciante che precede l'innamoramento. Io la desidero ancora, ma so di non poter forzare una decisione del caso.
Lei, dal canto suo, conserva forse una briciola, una scintilla di quel nonsocosa che l'aveva spinta a dire di trovarmi interessante, perfino bello, e magari caro alla sua persona.
E dunque non disdegna la mia compagnia, si abbandona con cautela forzata alle mie attenzioni, e per entrambi (ma sicuramente più per me) è una dolce sofferenza.
L'usignolo è sempre cauto quando va a posarsi sulla spalla del viandante, perché sa che alle prime avvisaglie di pericolo dovrà essere pronto a involarsi.
Non è pietà, semmai il contrario: il suo buonsenso la frena dal farsi consapevolmente del male.
"Ti va di ascoltare qualcosa?", mi chiede.
Ho portato il lettore mp3, dunque perché no.
Ci dividiamo le cuffie, spalla contro spalla, e le note dei Klimt legano come acquerelli ai profili di Venezia.

Per poco non manchiamo la fermata, fortuna che io supplisco allo scarso senso dell'orientamento con la mia angoscia perenne.
Riavvolgo le cuffie, raccolgo la mia bella (o forse è lei a raccogliere me) e smonto insieme a lei sulla banchina. L'odore del porto è discreto e onnipresente.
Siamo ancora in tempo per una fuga romantica, penso. Ma questa non è una delle mie seghe mentali. Fuggire lo fanno solo i disperati. Inutile dire che nella mia testa la cosa suona disperatamente attraente.
E intanto saliamo la scalinata verso la stazione.
"Peccato non aver portato la macchina fotografica", dice lei.
Davvero. Il cielo e l'acqua e la luce sono stupendi. Saremmo stati un bel soggetto, le nostre sagome scure e dissonanti contro il tramonto opaco. Nessuno dei due sicuro di qual era il suo ruolo, nessuno dei due consapevole dell'esistenza di Facebook, con le sue stupide note e i commenti.

Mentre lei timbra il biglietto non posso fare a meno di guardarle il culo. Non è un fondoschiena da sballo, intendiamoci. Nella media, forse un po' basso. Non è la parte migliore di lei.
Ma quello che conta è che quel didietro, quel sedere, fa effettivamente parte di lei. E tanto basta a renderlo speciale.

Sul treno nessuno dei due parla molto. È confortante, il silenzio che lascia spazio a infinite divagazioni interne; l'assenza di comunicazione, con il suo potere di figliare legami ipotetici e stravolgere la nostra percezione della vita.
Desidero che la corsa duri per sempre, malgrado una delle cose che detesto di più siano i treni.
E poi arriviamo, con la promessa di un concerto a cui sicuramente andrò e i drammi scolastici ad attenderci l'indomani, zavorre d'emergenza per non farci disabituare al peso della quotidianità.
Ci salutiamo con un bacio, uno solo. Sulla guancia.

Sulla via di casa ripenso continuamente a lei. Strano, vero?
Quando si ama non si è mai sazi dell'altro, se ne vorrebbe ancora e ancora, finché l'aria non si trasforma nel suo respiro e l'unico palliativo ai mali del mondo diventa uno sperpero di carezze. È maliziosa, certo. Non malvagia o maligna, e nemmeno maliarda.
Maliziosa quanto basta a mantenere costantemente tese le corde del mio violino.

Rincasando ho la testa affollata di ricordi, in parte veri e in parte nuovi. Mi infilo sotto le coperte serrando le palpebre sfinite, sentendomi stanco nello spirito, e dormo per smettere di sognare.

  
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