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Autore: billiejoe    07/07/2011    0 recensioni
La storia di un ragazzo alla deriva in una piccola città di provincia, diviso tra i sogni di diventare famoso, il ricordo del passato felice che non ritorna, e l'angoscia dell'aver perso l'amore di tutta la vita.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Caravan


 
Colchester era deserta già a quell’ora. I piccoli negozietti addobbati avevano sigillato le porte con allegri festoni per riaprirle solo il giorno dopo Natale, e anche il grande magazzino a due isolati da casa sua ormai aveva chiuso i battenti. Damon aveva percorso quella strada nella neve, sentendone il peso leggero sulle spalle ogni volta che sollevava gli occhi al cielo, infreddolito e depresso. Non riusciva mai a trovare nulla di buono nel giorno di Natale, e non poteva riuscirci quella sera.
 
Era tornato a casa senza neppure aver comprato qualcosa da mangiare. Aveva acceso le luci e sbirciato da lontano il piccolo alberello poggiato sul tavolino accanto alla finestra, lì dove il portatile era ormai coperto di polvere. Aveva aperto il primo cassetto e ne aveva tirato fuori una tovaglietta di canapa blu, e ci aveva poggiato sopra un tovagliolo di seta color panna, e un piatto, e le posate, e il bicchiere a calice, quello delle grandi occasioni. Tutto sommato era Natale.
 
Aveva aperto il frigo e ci aveva trovato una vaschetta di improponibile lasagna italiana da scaldare al microonde, e l’aveva messa dentro programmandolo. Era rimasto per un po’ a fissare quel piatto girare e girare, e quella flebile luce gialla illuminare quel poco di cucina che aveva. Si era voltato lentamente, e aveva esaminato uno ad uno tutti i mobili che arredavano quel piccolo appartamento di provincia, il divano, il televisore, il letto e il tavolino davanti alla finestra.
 
Era tutto lì, in quei quattro mobili, in quelle quattro pareti, che si era svolta la sua vita negli ultimi sette anni. Il timer del forno lo aveva ridestato ed aveva preso la teglia con la punta delle dita, per non scottarsi. Si era seduto con maestosità a capotavola, ed aveva poggiato la forchetta sulla besciamella anemica che ricopriva quel piatto di pasta.
 
Era bianca, bianca come la neve, bianca come le pareti della sua casa, e quelle dell’ospedale psichiatrico. Era bianca come la luce del neon che dondolava sulla sua testa, riflettendo le sottili forme dei suoi capelli chiari. Era bianca come la sua vita, un foglio di carta intonso, privo di segni, di simboli, di passato, di presente, di futuro.
 
Quando quella besciamella insipida e incolore aveva raggiunto le sue labbra, Damon si era ritrovato a singhiozzare come un bambino caduto dalla bicicletta. Era solo. Era un miserabile psicopatico di ventisette anni seduto davanti a un miserabile tavolino imbandito a festa, con uno schifoso piatto di pasta precotto e un calice di vino in brick da quattro soldi. Si era sentito sprofondare nel più buio e angosciante baratro che potesse immaginare.
 
Era il giorno di Natale. La gente festeggiava allegramente con la famiglia e gli amici. Le urla dei bambini coprivano le conversazioni amene e il sapore del vino confondeva gli animi e le pietanze. Il tacchino ripieno arrivava in gran trionfo davanti al padrone di casa orgoglioso del suo ruolo, e il purè di patate veniva servito come la calce nei piatti. I regali sotto l’albero erano una tentazione irresistibile per i più piccoli, e la carta lucida che li ricopriva veniva continuamente stropicciata e maltrattata perché il pacco svelasse, al suo suono, il suo dolce e tanto atteso contenuto.
 
Nelle famiglie più tradizionaliste, il fratello più grande sedeva dopo cena al pianoforte e iniziava a intonare qualche canto di Natale seguito dalla sorella graziosa in pullover rosso e gonnellina in tinta, e poi da tutti gli adulti col bicchiere in mano. Cliché, si ripeteva nella testa Damon, sono solo cliché. Ma sapeva che non era così, sapeva che quella scena si stava ripetendo come ogni anno a casa dei suoi genitori a Londra, a casa di Maria, e chissà in quante altre case, e paradossalmente quella stessa atmosfera quella sera si sarebbe presentata anche negli ospedali, nei dormitori e nelle mense per i poveri. Ma non da lui. Era solo, era solo il giorno di Natale, la notte di Natale.
 
Si era sentito invadere da un profondo senso di vuoto e solitudine, era scoppiato a piangere e non riusciva a smettere di farfugliare parole scomposte e di invocare il nome di sua madre, e di cercare di ricordare il suono della sua voce che gli mancava tanto. Piangeva e non sapeva neppure perché, ormai non c’era più nulla in quel fottuto mondo che avrebbe voluto continuare a vedere, ad ascoltare, a vivere. Gli era venuta in mente quella canzone depressa che aveva scritto la notte in cui Maria era andata via.
 
Caravan. Aveva avuto tante occasioni nella sua vita. No. Non era così in effetti, aveva avuto poche occasioni, ma evidentemente le aveva miseramente sprecate tutte quante. E adesso, il treno era passato, e lui era rimasto a terra. Aveva cercato conforto tra le panche e le colonne della staxione, prima di rendersi sconto di essere rimasto solo. Non sarebbero passati altri treni, the day will come when you’ll get away from it.
 
Si era alzato e in uno scatto d’ira aveva buttato per aria la sua cena e il suo vino, e il tavolino traballante e l’alberello spoglio, e aveva cercato di asciugarsi gli occhi almeno quel tanto per riuscire a vedere dove stesse andando, per raggiungere il suo divano.
 
Aveva acceso il portatile, e aveva cercato un segno, un segno qualunque, della sua presenza nel mondo. Ma gli unici segni del mondo che lo riguardavano erano le sue prescrizioni mediche, e la mail di licenziamento che il suo titolare gli aveva spedito dopo che si era assentato per due settimane dal lavoro, senza dare spiegazioni.
 
Aveva scritto un messaggio di auguri a Beatrice, perché sapeva che lei gli avrebbe risposto, prima o poi, e perché non voleva lasciarla così, senza una parola, un messaggio, un biglietto. Aveva pensato anche a quello, al biglietto d’addio, ma sarebbe stato davvero stupido pensare che qualcuno avrebbe voluto leggerlo. Aveva preso il suo cellulare e aveva composto il numero di Londra, e James, o come cazzo si chiamasse in realtà, aveva risposto col solito tono ufficiale, e lui stavolta non aveva semplicemente riattaccato. Gli aveva parlato, gli aveva chiesto di suo padre. Non sapeva che cosa avrebbe detto quando il padre avesse sollevato la cornetta, ma non aveva dovuto preoccuparsene. Suo padre aveva detto al suo maggiordomo di chiudere la comunicazione, perché non ricordava di avere un figlio di nome Damon.
 
Damon aveva sorriso. Si era alzato lentamente dal divano e aveva iniziato a ciondolare sereno per tutta la casa. Aveva raccolto tutto, aveva pulito il pavimento e sistemato ogni cosa. Poi si era acceso una sigaretta ed era sceso in strada a buttare la spazzatura. Doveva essere tutto pulito, tutto in ordine.
 
Tornando a casa, aveva lasciato la chiave dentro la serratura, perché aveva speso trenta sterline per farla sistemare, e gli dispiaceva che qualcuno dovesse forzarla per entrare. E lì, sulla porta, aveva lasciato un biglietto giallo, di quelli autoadesivi, di cui non riusciva mai a ricordare il nome.
  
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