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Autore: Joya    10/07/2011    0 recensioni
Marina era ancora addormentata o forse fingeva di esserlo.
«Buon giorno, come andiamo oggi?», chiesi, percorrendo a grandi passi la stanza e aprendo le tende, la luce forte del sole, che si rifletteva sull’erba appena bagnata del guardino della villa, quasi mi accecò.
Sentii un mormorio dietro di me e mi voltai.
«Bene», biascicò una la voce ancora impastata dal sonno.
La donna fece per alzarsi e mettersi a sedere sul letto, mi affrettai a raggiungerla per aiutarla, ma lei alzò la mano per fermarmi.
«Faccio da sola, grazie», disse, un po’ burbera.

(In fase di verifica, a quanto pare ho perso una parte quando l'ho postata)
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Alba

Prima di entrare nella stanza, feci un respiro profondo e bussai. Come al solito non ricevetti nessuna risposta, così aprii la porta, lentamente.

Marina era ancora addormentata o forse fingeva di esserlo.

«Buon giorno, come andiamo oggi?», chiesi, percorrendo a grandi passi la stanza e aprendo le tende, la luce forte del sole, che si rifletteva sull’erba appena bagnata del guardino della villa, quasi mi accecò.

Sentii un mormorio dietro di me e mi voltai.

«Bene», biascicò una voce ancora impastata dal sonno.

La donna fece per alzarsi e mettersi a sedere sul letto, mi affrettai a raggiungerla per aiutarla, ma lei alzò la mano per fermarmi.

«Faccio da sola, grazie», disse, un po’ burbera.

Aveva un aspetto più fragile degli altri giorni, ma i suoi occhi erano sempre decisi e severi come al solito.

«Posso almeno aggiustare i cuscini dietro la schiena?», la donna mi guardò un attimo sospettosa, per poi accettare questo piccolo aiuto.

Mentre le aggiustavo i cuscini la aiutai anche a drizzarsi meglio, dopo tanti anni di lavoro avevo capito come fare per aiutare qualcuno in difficoltà, senza che l’altro se ne accorgesse.

«Grazie», disse, «anche se ti avevo chiesto di non aiutarmi a sedere».

Beh, immagino che quella donna fosse un caso a parte.

Mentre le misuravo la pressione e controllavo il suo battito, ci fu un pesante silenzio, quando poi mi diressi verso il vassoio con la colazione, Marina parlò di nuovo.

«Signorina», fece, «non ricordo lei chi sia», la guardai un attimo, mentre speravo che nei miei occhi non si leggesse alcuna tristezza.

Poi un luccichio di comprensione le brillò negli occhi.

«Lei è l’infermiera, vero? Sì mi ricordo di lei, ieri sera è venuta a spegnermi la TV».

Mi sorrise ed io le sorrisi di rimando.

C’erano dei giorni in cui Marina sembrava avere una memoria di ferro, tanto da riuscire a ricordare tutto della sua vita, anche gli avvenimenti più recenti, altri invece in cui non ricordava neanche di essersi sposata ed aver avuto dei figli.

A volte mi veniva da chiedermi quale fosse peggiore se una malattia che ti uccide togliendoti il futuro, o una che ti succhia via man mano passato e presente.

«Vorrei proprio tornarmene a casa mia», la sentii sospirare.

Mi voltai verso di lei.

«Ma che dice, questa è casa sua», la donna mi fissò di rimando, per poi scoppiare a ridere.

«Assolutamente no. Sa io sono un po’ anziana, ma non rimbambita del tutto», sorrise, «Crede davvero che con la mia pensioncina da vecchia impiegata statale potrei permettermi una villa del genere?», sbattei un attimo gli occhi.

«Questa villa è di mio figlio, Alberto.

Tanti soldi per questa casa, tanti anni, la Basilica di San Pietro la chiamavamo, perché non finivano mai di costruirla, inutile dire che si arrabbiava come un  matto», si fermò un attimo, sorridendo a qualche scena di parecchi anni prima.

«Secondo me se glielo chiedesse,m Alberto mio le direbbe che la casa non è ancora finita e che deve ancora costruire un deposito per gli attrezzi o un gazebo sul tetto», sorrisi, mentre mi affacciavo al balcone e vedevo degli operai portare delle pesanti lastre di vetro per la serra che sarebbe sorta da lì a poco sul retro della villa.

«Sì», dissi, distogliendo gli occhi dal giardino, «credo di sapere a cosa si riferisce».

«Sai, io non volevo venirci in questa casa, volevo restarmene nella mia casetta. Ah ma non pensare che fosse un buco eh, ci ho cresciuto ben tre figli lì dentro, però è normale chiamarla con un vezzeggiativo visto che ci sono affezionata», ridacchiai un po’ a quel discorso, sembrava quasi quello di una bambina.

«Purtroppo, però, mi sono ammalata e mio figlio ha detto che dovevo assolutamente venire a vivere con lui», sospirò di nuovo con un tono quasi esasperato, «e proprio adesso che ha finalmente deciso di mettere la testa a posto e si è trovato una brava ragazza, quello scapolone incallito».

Poggiai il vassoio da letto, mentre lei mi guardava un po’ storto.

«Sai a me non sono mai piaciute queste cose delle colazioni a letto come nei film…»cominciò.

«Mi spiace ma il medico è stato chiaro, non deve assolutamente alzarsi dal letto né sforzarsi», la donna sospirò di nuovo, rivolgendomi una occhiata truce, poi prese la tazza di camomilla che avevo poggiato sul vassoio e cominciò a sorseggiarlo.

«Eh ma più tardi dovrò alzarmi», disse, mentre io mi accomodavo su una sedia vicino al letto.

«Perché?», chiesi.

«Più tardi viene a trovarmi mia figlia, Lucia, con suo marito e la figlia», poggiai i gomiti sulle ginocchia e il viso sui palmi delle mani, guardandola, mentre parlava.

«Sai, mia figlia abita molto lontano, quindi può venirmi a trovare solo ogni tanto ed è difficile muoversi ora che mia nipote è cresciuta. Quante ne ha passate con quella ragazza negli ultimi anni. Non che sia una poco di buono, eh? E’ sempre stata una ragazza modello, brava a scuola, con uno stretto giro di amicizie e sempre giudiziosa, ma da quando si è diplomata, non riesce a trovare la strada giusta, non so quante università abbia cambiato fino ad ora. Non lo dica ai miei figli, ma a volte credo di voler più bene a lei che a loro», fece un sorriso complice, che ricambiai.

«Sa quando stavo un po’ meglio, le avevo detto di lasciar perdere tutto e di venirsene a stare un po’ con me, per cambiare aria», disse, sorseggiando un altro po’ dalla sua tazza.

«E l’ha fatto?», chiesi, dopo qualche minuto di silenzio.

La donna mi rivolse uno sguardo stralunato, il filo del suo discorso perso tra chissà quale grigio gomitolo di ricordi.

«Di cosa stavo parlando?», mi chiese, intontita.

«Di sua nipote», le dissi con un sorriso.

«Sì, giusto. Quando nacque, mia figlia voleva per forza darle il mio nome, dico io con nomi così belli, proprio il mio, Marina. Non mi è mai piaciuto questo nome, sa io da bambina abitavo sul mare, figurarsi come gli altri ragazzini mi davano fastidio, ricordo che mio fratello tornava sempre a casa pieno di lividi perché faceva a botte per difendermi. Così glielo vietai».

Mi alzai e presi delle vitamine e le medicine, insieme con un bicchiere d’acqua, per poi poggiare il tutto sul vassoio, mi risedetti.

«Le dissi che se proprio voleva che io e la bambina fossimo legate da un nome, sarebbe stato un nome bello che avrei scelto io», fece, «però l’avrei scelto solo quando l’avrei vista per la prima volta».

«Sa, ricordo ancora il giorno in cui è nata. Alle 5.38 del 10 luglio, pioveva a dirotto, dico io a luglio come poteva esserci una pioggia del genere.

Mi disperavo pensando a mia figlia nella sala operatoria e cercavo di trattenermi dal non urlare ad ogni tuono, ne ho sempre avuto paura.

Così quando mio genere mi venne incontro per dirmi che potevo entrare, cominciai a correre per il corridoio, preoccupata per mia figlia.

Tuttavia, quando entrai nella sua stanza e vidi la mia nipotina tra le braccia di Lucia, la presi subito tra le braccia.

Il medico disse che era stato solo uno spasmo muscolare quello che fece quando la presi, ma secondo me fu un sorriso. Non sentii più nulla, né mia genero che mi continuava a dire quanto fosse bella, né i tuoni all’esterno che non smettevano di rombare, la sua luce, mi accecò gli occhi», sentii la sua voce tremare appena, «Mi ricordati di quando ancora bambina correvo con mio fratello sulla spiaggia, salutando la barca di mio padre che tornava il mattino presto dopo una pesca con le lampare. Mi sembrò di sentire il profumo del mare e di vedere il sole che nasceva veloce dal mare».

Sospirò, mentre io mi immaginavo la scena davanti agli occhi.

«Alba, dissi e le diedi un bacio sulla fronte», fissò per un attimo il vuoto, per poi continuare con aria corrucciata.

«Anche se non credo che poi la scelta di quel nome le abbia evitato di essere infastidita, dopotutto», scoppiai a ridere, mentre Marina prese le sue medicine e butto giù l’acqua in un sorso.

 

«Ferma, ferma!», mi voltai, mentre scendevo le scale ed una piccola peste di sei anni, dagli occhi nocciola ed i capelli rossi come i miei correva verso di me.

«Piano, Marina, così cadi!», dissi, scendendo gli ultimi scalini e afferrandola, mentre stava per inciampare sull’ultimo gradino.

«Come sta oggi la noooooonna?!», chiese, mentre le facevo fare un giro su se stessa.

«Un po’ meglio, se vuoi puoi andare a salutarla», dissi, sorridendole.

«Davvero?!», disse sgranando gli occhi e sorridendo e mettendo in mostra i suoi dentini.

«Certo», le aggiustai il frontino, che stava man mano cadendo dalla sua testolina.

«Allora vado!», si girò su se stessa e poi si fermò, «Secondo te oggi sa chi sono», mi chiese fissando il pavimento.

«Può darsi di sì e può darsi di no, Marina», dissi, mettendo una mano sotto il mento ed alzando il suo viso per cercare i suoi occhi. Mi piegai sulle ginocchia fino a raggiungere la sua altezza.

«Lo sai che la nonna è malata e a volte perde un po’ quel che succede, però ti vuole bene lo sai, no? Ti ricordi quando eri piccola e ti faceva volare sull’altalena», la bambina annuì.

«Visto? Fai come se tu e la nonna steste facendo un gioco in cui recitate entrambe la parte di qualcun altro. Quindi se lei non ti riconosce o ti scambia per qualcun altro…», mi interruppe.

«Faccio finta di essere qualcun altro», disse sorridendomi.

Avvicinai la sua fronte alla mia.

«Sei una brava bambina, grazie», dissi, dandole un bacio sulla fronte, lei mi regalò un sorrisone.

«A me piace stare con la nonna e giocare a recitare, come fanno quelle signorine per televisione», disse, mentre mi alzavo e lei prendeva a salire le scale di corsa.

«E poi la nonna quando non mi riconosce mi scambia sempre per te, Alba e mi racconta un sacco di cose buffe su papà», disse rivolgendomi un altro sorrisone.

«Dov’è zio Alberto?», chiesi.

«Ah! Papà ha detto che ti ha chiamato un tipo dalla voce buffa dall’ospedale, dicendo che rivoleva la sua miglior dottoressa al più presto», disse, saltellando sull’ultimo gradino, prima di arrivare sul pianerottolo, alzai gli occhi la cielo.

«Papà ti aspetta giù nel giardino con zia», urlò, prima di correre nella stanza, facendomi un segno di vittoria.

«Buon giorno!», sentii la voce squillante della mia cuginetta urlare gioiosa, «come andiamo oggi?!»

 

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Questa storia partecipa a The One Hundred Prompt Challenge

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