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Autore: Lilla Wright    10/07/2011    8 recensioni
"..Gli importava poco di molte cose a dire la verità. Non gli importava di fare carriera, non gli importava di quello che pensava la gente e non gli importava dei soldi, se non per poter vivere.
[...]
“Come posso trovare una speranza in tutto questo?” si chiese, scendendo dalla metro alla stazione di Archway.."

Storia dedicata alla mia Sister (Deathnotegintama)
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Matthew Bellamy
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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A Londra pioveva quel giorno

Titolo: Hope

Autore: Lilla xD
Disclaimer: I personaggi non mi appartengono e non scrivo a scopo di lucro, altrimenti non sarei qui ma a Londra dove vorrei essere da una vita <3

Rating: Giallo
Pairing/Personaggi: Matthew Bellamy

Avvertimenti: Alternative Universe and Slash
Note: La dedico alla mia Sister (Deathnotegintama)

Ti voglio un mondo di bene Coniglietta <3

 

Chiedo scusa per eventuali errori di battitura o peggio di grammatica.

Buona lettura!

 

 

 

A Londra pioveva quel giorno.

Gli abitanti della grande città, fin troppo abituati alla pioggia, aprirono i loro ombrelli variopinti per dirigersi alla stazione della metropolitana più vicina.

Tra il fiume di persone che si riversavano all’entrata della fermata di Stockwell, una di loro non aveva protezione dall’acqua che si schiantava al suolo e sul suo cappotto nero.

Matthew camminava a passo svelto tra la folla dei tanti uomini d’affari che lavoravano negli uffici vicino al suo e che, come lui, cercavano di raggiungere la stazione il prima possibile. Molti lo fissavano curioso, altri con occhio critico, chiedendosi che cosa ci facesse un giovane teppista in quel posto.

Matthew aveva poco più di 25 anni e il suo abbigliamento un po’ trasandato, fatto di un jeans nero, strappato all’altezza della coscia, e di una camicia bianca, mettevano in discussione il suo status di lavoratore per la Johnson, uno degli studi legali più importanti di Londra.

Scese insieme alla massa le scale della stazione, cercando di non cadere sugli scalini bagnati e trovando finalmente riparo dalla pioggia, e, in breve, raggiunse lo spiazzo dove lui e tutte quelle persone avrebbero atteso la metro.

Vicino a lui due uomini discutevano animatamente della giornata appena conclusa. Matthew li guardò con sufficienza, riconoscendo in quelle due figure John Sanders e James Baker, due suoi colleghi, se tali si potevano definire.

Sostanzialmente erano due idioti. Lavoravano in coppia come avvocati di diritto civile ma a detta di molti, e anche di Matthew, non facevano proprio un lavoro pulito.

Provava odio per quelle persone. Non solo erano due incapaci nel loro lavoro, si divertivano anche a prendere in giro quello degli altri. I loro bersagli preferiti erano principalmente due: la signora Ferguson dell’amministrazione, una donna di circa 40 anni, divorziata ma buona come il pane, e Matthew.

Lui lavorava sotto il signor Johnson in persona, un uomo tanto ricco quanto stupido, che gli affidava piccoli compiti come portargli il caffè o ritirargli i vestiti in tintoria. Non c’era d’esser fieri di un lavoro degradante come quello, ma lo pagavano e a lui basta quello.

Si ritrovò ad ascoltare la conversazione dei due. Sanders raccontava a Baker della vittoria conseguita qualche ora prima in tribunale, per il caso di una povera signora di mezza età derubata dalla domestica. Il colletto bianco si vantava della sua impresa. Era riuscito a convincere il giudice che la signora aveva dei problemi di memoria e che non ricordava dove avesse messo il denaro, scagionando così la sua cliente.

Matthew dovette trattenersi dal spaccargli la faccia davanti a tutti. Conoscevano tutti il suo caratterino e aveva avuto un sacco di richiami dal suo capo per questo, ma quando, in qualche modo, centravano quei due non riusciva proprio a stare calmo.
Pochi giorni dopo che era stato assunto, quei due bastardi, per puro divertimento, avevano anche convinto il suo capo a dei cambiamenti. Dopo varie discussioni, Matthew aveva ceduto alle richieste del superiore, ma solo per non perdere il lavoro e, di conseguenza, la paga.
Si era dovuto tagliare i capelli blu, facendoli tornare al suo colore naturale, e aveva dovuto mettere un polsino per coprire il tatuaggio che aveva al polso. Forse piccolezze ma che a lui costavano, lo limitavano, facendolo sembrare uno dei tanti che lavoravano in quegli squallidi uffici.
L’unica cosa su cui non avrebbe mai ceduto era l’abbigliamento. Non metteva né giacca né cravatta, ma solo la camicia, il più delle volte lasciata fuori dai jeans, che non erano apprezzati dal suo capo per via dei tagli e dei buchi. Gliene importava poco.
Gli importava poco di molte cose a dire la verità. Non gli importava di fare carriera, non gli importava di quello che pensava la gente e non gli importava dei soldi, se non per poter vivere. Voleva solo essere lasciato in pace.

Matthew sentì un fastidioso rumore metallico, segno che la metro era arrivata, e salì in un vagone lontano da i due idioti. Si sedette al primo posto libero e mise le cuffie, scegliendo tra le tante canzoni Don’t Stop Me Now dei Queen.
Visto da fuori poteva sembrare un teenager in fase ribelle ma dentro di lui si muoveva uno tsunami di sensazioni. Il vero ribelle era il suo cuore.

Senza prestare troppa attenzione al signore vicino a lui, alzò la manica sinistra del suo cappotto e tolse il polsino che nascondeva il suo tatuaggio. Ci passò sopra un dito, felice di rivedere quel piccolo scarabocchio sulla sua pelle, ci era affezionato.
Quello era stato il suo primo gesto di ribellione. Il giorno del suo quindicesimo compleanno, aveva disegnato con un pennarello il tatuaggio sul polso, facendolo poi ripassare al tatuatore, in modo da farlo rimanere per sempre. Le lettere un po’ storte, scritte con la sua scrittura infantile e un po’ incasinata, formavano una sola parola: hope.

Speranza.

Ormai aveva rinunciato a trovarne una. Fin da quando era bambino aveva pensato che tutto ciò che gli servisse fosse solo una piccola speranza per poter superare i brutti momenti, la speranza che presto tutto sarebbe cambiato. Si era aggrappato a quella piccola nuvoletta di sogni anche quando la sua famiglia si stava lentamente disgregando ma non era servito a molto.
Aveva dubitato. Aveva dubitato tanto. Poi, un giorno, qualcuno gli era venuto incontro, con un sorriso e una mano aperta, pronta a stringere la sua, rimasta vuota per troppo tempo. Che fosse la Speranza, la Fortuna o il suo Angelo Custode non avrebbe saputo dirlo. Sapeva solo il suo nome: Dominic.

Lo ricordava come se fosse ieri. Dopo quell’incontro era tornato a casa a sera tarda e aveva raggiunto la sua camera in silenzio, senza neanche annunciare il suo ritorno. Seduto alla scrivania, aveva preso un pennarello dal mucchio e si era scritto quelle quattro lettere sul braccio. Il perché neanche lo sapeva. Sapeva solo che mai sarebbe dovuta scomparire.

Iniziò a sbiadire nel momento in cui vide i suoi sogni morire davanti ai suoi occhi, uccisi dalle parole uomini corrotti, che avevano smesso di credere alla Dea Musica per venerare il Dio Denaro. E più passava il tempo e più quella parola perdeva significato, lasciando a Matthew la convinzione che la ribellione che aveva cercato da ragazzo gli si stesse rivolgendo contro.

Il ragazzo scacciò via quei pensieri non appena la metro di fermò, permettendo ad alcune persone di scendere e ad altre di salire. Tra queste, una signora anziana, che a stento si reggeva in piedi, si era appoggiata a un lato del vagone, reggendosi a una delle maniglie. Il ragazzo guardava prima la signora poi il signore seduto vicino a lui e a poca distanza dalla donna, che mai si sarebbe alzato per cederle il posto.

Emise un ringhio in direzione dell’uomo, poi si alzò, invitando la signora a prendere il suo posto. L’anziana donna gli sorrise riconoscente, un sorriso dolce al quale Matthew rispose, per poi voltarsi verso il signore vicino e guardarlo malamente. L’uomo lo fissava a sua volta ma i due non si dissero niente, “inutile sprecare fiato con certa gente” era il pensiero di entrambi, così Matthew si allontanò andando ad appoggiarsi alle porte del treno.

Per molti quello sarebbe stato un semplice episodio di circostanza, uno di quelli che poi dimentichi facilmente, ma non per lui. Non ci poteva fare niente, odiava le persone come quel tipo, che tutto dovevano avere ma che non davano mai niente agli altri. Molti lo avrebbero definito un pregiudizio ma Matthew ci lavorava con quella gente e sapeva benissimo che, se non ci guadagnano qualcosa, non ti aiutano.

Rimase in quella posizione per tutto il viaggio, troppo assorto nei suoi pensieri.

Vogliamo essere spudoratamente sinceri? A lui quella vita gli stava stretta, e anche tanto.

Faceva un lavoro schifoso, umiliante, che gli permetteva a malapena di vivere con quel poco che lo pagavano. Viveva in un piccolo quartiere alla periferia nord di Londra, in un appartamento che non valeva ciò che lo pagava, con l’intonaco che si staccava a pezzi e la pessima acustica che ti faceva sentire quando il vicino andava al bagno la notte.

Non aveva una vita sociale che potesse definirsi decente, se non un paio di amici con cui si faceva una birra ogni tanto al pub all’angolo. Durante la settimana non faceva altro che fare avanti e indietro tra casa sua e l’ufficio mentre nel week-end, stacco di avere troppa gente intorno, se ne stava a casa a farsi i fatti suoi.

“Come posso trovare una speranza in tutto questo?” si chiese, scendendo dalla metro alla stazione di Archway. Arrivato all’esterno della stazione, si incamminò a passo svelto verso la propria abitazione, cercando di prendere meno acqua possibile. Fortunatamente la metro non era distante da casa.

Entrò dalla porta del condominio con il cappotto bagnato e i jeans zuppi alla base. Imprecò a bassa voce, tanto non era giornata quella. Salì le scale fino al secondo piano e, facendo il minimo rumore, percorse il pianerottolo fino alla porta del suo appartamento.

Una volta all’interno, alzò l’interruttore della luce, illuminando la stanza e trovando il consueto disordine ad accoglierlo ma non Dominic. Che non fosse ancora tornato?

Voltò lo sguardo verso il suo pianoforte, dormiente in un angolo del salotto, e come di consueto vide una rosa bianca adagiata sulla chiusura che copriva i tasti dello strumento. Ogni sera il suo amico gliene faceva trovare una fresca sul pianoforte e, anche se non conosceva il motivo di quel gesto, Matthew lo apprezzava tanto.

Andò in cucina, magari stava cenando, ma tutto ciò che trovò fu solo un bigliettino vicino a un piatto di pasta, coperto dalla pellicola e pronta per essere scaldata. Il biglietto era scritto un po’ di fretta ma con una scrittura semplice ed ordinata che recitava: “Sono stanco morto, vado a dormire. Scusami se non ti faccio compagnia. Spero che la cena ti piaccia“.

Matthew posò il bigliettino sul tavolo, guardando il piatto di pasta tentatore, il quale lo chiamava con voce suadente, ma il moro non ci cascò e uscì di corsa dalla cucina, per andare in camera da letto.

Aprì piano la porta e, sbirciando all’interno, vide una figura distesa sul letto, avvolta in un gomitolo di coperte. Entrò facendo il minimo rumore, non volendo svegliarlo, e si tolse i vestiti bagnati dalla pioggia, adagiandoli su una poltroncina e mettendosi la sua amata tuta.

Fece il giro del letto, arrivando alla sua metà, ma non si stese. Rimase a fissare la schiena del compagno che si muoveva a ritmo con il suo respiro e un pensiero gli penetrò il cervello.

Aveva sbagliato tutto.

Era stupido da parte sua continuare a negare perfino a sé stesso di essere innamorato di quel ragazzo. Lo amava, oh eccome, ma aveva una fottuta paura di perderlo, vederlo andare via da un giorno all’altro e ritrovarsi di nuovo solo. Non l’avrebbe sopportato.

Eppure troppe volte si era ritrovato a chiedere a sé stesso come facesse quell’angelo disteso davanti a i suoi occhi a stare con lui. Poteva avere chiunque e avere anche una vita più dignitosa, ma rimaneva al suo fianco, senza chiedere nient’altro che un abbraccio sul divano o un bacio prima di dormire.

Nella penombra della stanza, Matthew guardò ancora un volta il suo tatuaggio e sorrise. Aveva finalmente trovato la risposta.

Si stese sul letto, avvicinando il suo corpo a quello del compagno e stringendolo forte per la vita, per abbracciarlo. In risposta, Dominic gli strinse la mano ferma sulla sua pancia in una stretta forte e girò lentamente il capo, aprendo piano gli occhi.

- Ciao - biascicò Dominic con un tono di voce tipico di chi sta ancora dormendo.

- Ciao - gli rispose Matthew in un sussurro.

- E’ già mattina? – il giovane si stropicciò gli occhi, cercando di svegliarsi e di mettere a fuoco la figura del compagno nel buio della stanza. Il moro sorrise e gli accarezzò i capelli biondi, in un attimo di tenerezza, rispondendo negativamente alla sua domanda.
- Sono solo le 8 di sera –

- Hai mangiato? – continuò il biondo, guardando con lo sguardo stanco il compagno.

Matthew scosse la testa e, anticipando l’ennesima domanda di Dominic, gli disse: - Volevo stare un po’ con te –

Dominic si sciolse in un sorriso, felice come non mia di quelle poche parole, e cercò le labbra del compagno, per un leggero bacio a fior di labbra.

- Sei tanto tenero ma io sta sera non credo di essere di molta compagnia. Sono tanto stanco – esclamò il biondo con voce bassa, in procinto di riaddormentarsi.

- Mi basta averti vicino – fu la risposta del moro – Tu dormi, non preoccuparti – continuò stringendolo più forte a sé e accarezzandogli piano i ciuffi biondi.

- Me lo dai il bacio della buonanotte? –

Senza proferir parola alcuna in risposta, Matthew si chinò quel poco che bastava per sentire le labbra di Dominic sulle sue, questa volta in un bacio un po’ più lungo del precedente.

- Buonanotte Matthew –

- Buonanotte Dominic –

I due si strinsero ancora di più l’uno all’altro, chiudendo gli occhi. Ci vollero pochi minuti per sentire il respiro del biondo regolarizzarsi, segno che dormiva, ma ce ne vollero un po’ di più al moro, che prima di abbandonarsi alle braccia di Morfeo, lasciò uscire in un sussurro poche parole.

“I love you, my hope”

 

 

   
 
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