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Autore: Roberta87    11/07/2011    24 recensioni
Storia vincitrice del concorso "One shot dell'estate" di Efp
Storia inserita tra le "Storie Scelte" del sito
Certi ricordi appaiono dolci alla nostra mente anche se apparentemente, per qualcun altro, non hanno nulla di straordinario. Questo succede quando quei ricordi ci legano a persone che amiamo. Questo succede quando sappiamo che quel giorno, quel momento in particolare, lo ricorderemo per il resto della nostra vita.
E Jacob Black non potrebbe essere più d’accordo.
Genere: Fluff, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Isabella Swan, Jacob Black
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Precedente alla saga
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A Serena,
Perchè senza di lei questa storia non sarebbe stata così speciale.


* * * *

" Dovrei paragonarti ad un giorno d'estate?
Tu sei ben più raggiante e mite "
-William Shakespeare-






Le femmine non si toccano




« Le femmine non si toccano, Jake ».
Lo sapevo a memoria, mamma me lo ripeteva ogni giorno. Ed io mi arrabbiavo tantissimo perché non era giusto.
Perché Rachel poteva spingermi se tagliavo i capelli alle sue stupide bambole?
Perché Rebecca poteva darmi i pizzichi sulle braccia quando disegnavo su quel quaderno col lucchetto che nascondeva ogni giorno in un posto diverso?
Perché quando io reagivo la mamma doveva sgridare sempre me?
« Perché tu sei un ometto e le ragazze non vanno sfiorate nemmeno con un dito », mi spiegava.
Secondo me, forse la verità era che lei mi voleva meno bene di quanto ne volesse a loro. Ma non glielo dicevo. Perché io veramente non capivo quella cosa o perché la ripetesse continuamente.
Anzi no, ero proprio sicuro che la verità fosse quella.
Altrimenti davvero non aveva senso quello che diceva. Genoveffa e Anastasia erano più grandi di me, quasi sempre erano più cattive e soprattutto, quando litigavamo, mi facevano molto più male di quanto io ne facevo a loro. Quindi perché non potevo toccarle?!
Quella era l’unica cosa che mi faceva passare la voglia di sorridere.
Non lo capivo, mi arrabbiavo e mettevo il broncio. Andavo a nascondermi ogni giorno in un mobile diverso della cucina.
Poi va beh, sì, come sempre, la mamma veniva subito dopo a cercarmi. E non capivo come faceva, ma mi trovava sempre. Apriva l’anta, mi sorrideva, mi tirava fuori e mi stringeva forte forte, immergendomi la faccia nei suoi lunghi capelli morbidi, che profumavano sempre di buono. Io scalciavo sempre perché, ehi, mica poteva fregarmi così? Allora lei – altra cosa che non capivo – tirava fuori da una tasca del grembiule da cucina una caramella, solo per me. E tutto passava.
Forse la mamma era magica. O forse lo erano le sue caramelle. Ma a me passava sempre tutto.


O almeno questo succedeva quando ero piccolo. Ma non adesso, no. Adesso ero cresciuto e, cavoli! Avevo quasi otto anni, io!
E quel giorno la spinta di quell’antipatica di Rachel proprio non mi era andata giù. Così l’avevo spinta anch’io. Due volte. Lei ovviamente aveva chiamato la mamma – brutta spia – e io ero stato sgridato. E allora ero stato lì, a dovermi subire ancora sempre la stessa ramanzina.
Non lo avevo capito, mi ero arrabbiato e avevo messo il broncio. Però col cavolo che mi andavo a nascondere stavolta!
Non ci pensavo proprio a farmi fregare come un mocciosetto, con un abbraccio e una caramella e tutto passava. Non mi avrebbero fregato così. E non era vero quello che diceva Rebecca, che avevo smesso di farlo solo perché non entravo più nei mobili. Avevo smesso di farlo perché ero grande adesso!
Così ero corso fuori. Non ero scappato, ero solo corso fuori.
La mamma mi aveva gridato dietro ma io non mi ero voltato, così lei si era messa a ridere. Mi ero arrabbiato ancora di più ed ero corso via anche dal giardino. Erano tutte così antipatiche quando facevano così.
Cavolo! Allora ecco perché! Non mi diceva sempre quella cosa stupida perché voleva più bene alle gemelle che a me, diceva sempre quella cosa stupida perché era una femmina anche lei!
Era ovvio, perché non ci avevo pensato prima? Le femmine erano tutte uguali e a me stavano antipatiche tutte, nessuna esclusa. Sì, anche la mamma.
Scalciai un sasso e alzando gli occhi vidi il mare, ero arrivato in spiaggia. Forse se mi avessero cercato, lì mi avrebbero trovato subito, ma me ne fregai. Anzi, se la mamma mandava una di quelle due lucertole a cercarmi era anche meglio. Stavolta le avrei spinte sul serio, e forse avrei assestato anche un paio di pizzichi al momento giusto, senza genitori intorno. Gliel’avrei fatta vedere io. Così cominciai a fantasticare sul loro arrivo, sulla mia rivincita e sui loro ridicoli piagnucolii e quasi non mi accorsi di quello strano verso.
Smisi di calciare i sassolini per capire che rumore fosse. Era proprio una roba strana, come qualcosa che squittiva. Mi venne da sorridere all’idea che potesse essere un topo, finalmente qualcosa con cui divertirsi! Mi piegai un po’ sulle ginocchia e cominciai a camminare piano verso i tronchi bianchi. Raccolsi un rametto abbandonato e nella mia testa quello diventò immediatamente una lunga freccia appuntita, ed io un indiano a caccia.
Lo squittio veniva da dietro il tronco bianco più grande di tutti, lo raggiunsi, mi accovacciai dietro le enormi radici e mi preparai all’attacco.

Uno … due … e tr..


La cosa lì dietro singhiozzò. Un momento, i topi non singhiozzavano. Ma allora cosa c’era lì dietro? Mi alzai in piedi e feci il giro del tronco lentamente. Accovacciata contro il legno bianco, di spalle, con le ginocchia al petto e la fronte poggiata sulle braccia, c’era una bambina.

No! Un’altra femmina no!


Sbuffai e pensai di andarmene, ma quella singhiozzò ancora più forte. Possibile che sapessero fare solo questo le femmine? Lamentarsi!
Aveva le braccia pallide, troppo pallide per essere una della riserva. Per un momento i capelli lunghi e scompigliati non mi fecero vedere altro, poi alzò la testa dalle braccia. Non si era ancora accorta di me, così allungai un po’ il collo per vederle la faccia. Stava piangendo, aveva le guance e la punta del naso rossi, ma per il resto era pallidissima. Perfino la bocca era chiara, rosa chiaro, tutta bagnata di lacrime. Le uniche cose scure che aveva erano i capelli e gli occhi. Se li asciugò con una mano.
Erano proprio grandi, accidenti! Gli occhi più grandi che avessi mai visto. Scuri come quelli della mamma, ma più belli. Con tutte quelle lacrime, così bagnati, mi sembravano liquidi. Mi ricordavano proprio tanto la cioccolata calda che mi preparava zia Sue in inverno.
Io la conoscevo quella ragazzina! Era l’unica con quegli occhi così e tanto pallida, me la ricordavo. Era la figlia di Charlie e quasi ogni estate veniva a trovarlo per un po’. Sì, però non l’anno scorso. Mi ricordavo che avevo chiesto di lei, ma Charlie aveva sbuffato ed era sprofondato nel divano di casa mia.
Non lo dicevo a nessuno – perché altrimenti che figura ci avrei fatto? – ma mi piaceva giocare con lei. Non era come le altre femmine. Non era antipatica e cattiva come le gemelle dell’orrore, e non era nemmeno noiosa e ingiusta come la mamma. Okay, forse era troppo timida, ma almeno non si tirava indietro se c’era da sporcarsi il vestito nel fango!
Ero contento che fosse tornata, ma chissà perché stava piangendo. Volevo chiederglielo ma … oh, com’è che si chiamava? Mi ricordavo qualcosa di strano, un nome veramente molto, molto strano. Ma non strano nel senso di brutto, anzi, mi pareva che fosse anche bello … Bella! Ecco come si chiamava!
Che poi che razza di nome era? E tra l’altro qualsiasi ragazzina avrebbe fatto la scema con un nome così, invece lei non lo aveva mai fatto. E poi … le stava anche bene.
Oh mamma mia, ma che cosa cavolo stavo dicendo?! A furia di stare con le femmine stavo diventando scemo anch’io. Non che avessi mai pensato che Bella fosse il tipo di femmina scema, ma … Oh, basta!
« Ciao » dissi, e mi avvicinai di un passo.
Lei si spaventò tantissimo e mi fissò per qualche secondo, con quegli occhi grandi e lucidi tutti spalancati. Mi sa che non aveva capito chi ero.

Forse sono tutte un po’ sceme, le femmine.


Poi però si ricordò di me, perché gli occhi le tornarono normali e abbassò le spalle, dopo lo spavento. Tirò su col naso e con una mano sporca di terreno si asciugò le lacrime e un po’ di moccio sotto il naso.
« Ciao » mi rispose, e a me sembrò una ranocchietta.
« Perché stai piangendo? »
« Sono caduta »
Si girò e mi fece vedere il ginocchio. C’erano un po’ di graffi, uno più lungo e profondo degli altri dal quale usciva del sangue.
E piangeva per quello? Io mi riducevo sempre molto, ma molto, ma mooolto peggio di lei e non piangevo mai. Bah, le femmine.
« Ti fa male? »
« Non tantissimo »
Spalancai gli occhi. « E allora che hai da piangere?! »
Bella piegò le sopracciglia, le tremolò il labbro di sotto e ricominciò a piangere più forte di prima. Oh, ma che bravo! La mamma sarebbe stata proprio fiera di me! Anche se, ehi, chi se ne fregava della mamma, io non volevo che Bella piangesse.
Mi faceva tenerezza e poi, anche se non ricordavo più il perché, mi venne in mente che mi piaceva farle spuntare il sorriso. Così mi avvicinai un pochino. Cosa dovevo fare?
Di solito la mamma mi abbracciava sempre quando mi facevo male. Anche se non ce n’era bisogno perché io non piangevo. Dovevo abbracciare anch’io Bella? Forse …
… «Le femmine non si toccano, Jake» …
Bleah! E chi voleva farlo! Io no di certo.
Però … però Bella non era come le altre femmine. E poi piangeva così tanto. E poi io volevo davvero consolarla …
« Non lo dire a Charlie, per favore » disse improvvisamente.
« E perché dovrei farlo? »
« E che ne so! »
Ecco, qualcosa come le altre femmine ce l’aveva. A volte poteva essere antipatica anche lei.
« Per favore » aggiunse dolce e puntò quegli occhi così grandi nei miei « Lui mi porta sempre in ospedale e io non voglio »
« Non glielo dico. Non sono mica una spia come Rachel »
« Che? »
« Niente » sbuffai.
La guardai ancora e pensai che forse era arrivato davvero il momento di fare qualcosa. Mi tirai su il bordo del pantalone e le feci vedere il ginocchio dove avevo la mia cicatrice più grande. Ne andavo fierissimo, Quil era invidiosissimo dei miei dodici punti e aveva tentato per mesi in tutti i modi di farsene una così anche lui, ma non era per quello che gliela mostrai.
« La vedi questa? Dodici punti » sorrisi soddisfatto « me la sono fatta su quegli scogli laggiù. Però ho continuato a tuffarmi con i miei amici per il resto della giornata »
Bella mi guardò senza capire e tirò ancora su col naso. Almeno aveva smesso di piangere, però forse era davvero un po’ stupida come le altre femmine. Però … cavoli … con quegli occhioni così e con quella pelle pallida era la femmina più carina che avessi visto. Molto di più di tutte le altre della riserva.

Woh! Frena, frena. Da quando le femmine sono carine?!

Forse il sole di quel giorno e la spinta di Rachel mi avevano frullato il cervello.
« Bella, ci devi mettere l’acqua sopra. Così se la pulisci non si fa quella roba bianca e poi se ci togli un po’ di sangue Charlie non si spaventa e non ti porta all’ospedale »
Gli occhi lucidi di Bella tremarono appena. Poi si passò ancora il polso sotto il naso sporco e si alzò. La portai a riva e quando l’acqua fredda ci bagnò i piedi solo a lei vennero i brividi. Ridacchiai.
Poi mi guardò ancora come per chiedermi se fossi sicuro, con i capelli tutti scompigliati che sotto il sole diventavano un po’ rossicci, le guance ancora rosse e quegli occhioni grandi e bagnati. Forse davvero, ma davvero, ma proprio davvero ero diventato tutto scemo, però volevo prenderle la mano.
 … «Perché tu sei un ometto, e le ragazze non vanno sfiorate nemmeno con un dito» …
Lo sapevo che le femmine non si toccavano, la mamma me lo ripeteva tutti i giorni. Ma la mamma non mi aveva mai detto di non toccare le ragazze così, come io volevo toccare con la mia mano quella di Bella.
Insomma, a me le femmine mi facevano arrabbiare e basta, ma non Bella. Io me ne fregavo tantissimo quando Rebecca si faceva male, anzi la prendevo anche in giro se si metteva a frignare. Però Rebecca quando piangeva non era come Bella. Gli occhi di Rebecca non erano così grandi e di cioccolata, e i suoi capelli non profumavano di buono.
Mi chiesi se anche due estati fa, l’ultima volta che era venuta a Forks, Bella aveva avuto sempre gli stessi capelli, gli stessi occhi e la stessa espressione. Io mica me la ricordavo così.
Non ricordavo affatto che le mani mi sudavano se mi guardava così. E non ricordavo nemmeno di essere mai arrossito per quegli occhi così. Forse era meglio se guardavo da un’altra parte, perché mi sentivo come quando la mamma scopriva con una sola occhiata che le stavo dicendo una bugia. Anche Bella ci poteva riuscire? Avevo proprio paura di sì.
No, ecco, questo bastava: Bella era proprio diversa. Bella non era una femmina come tutte le altre e a me non importava più né di fare la figura dello scemo, né di andare contro quello che la mamma mi ripeteva da sempre. Insomma, ma che cavolo! Stavolta si sbagliava e avrei fatto quello che dicevo io!
Così la toccai. Le presi la mano nella mia e non fu mica tanto grave! Tanto casino per niente. Non successe esattamente nulla, né la fine del mondo né fulmini e saette.
Almeno fin quando non sorrise.
Le sue dita strinsero forte le mie e sorrise. Quegli occhi grandi così scintillarono e mi ricordai perché mi piaceva farla sorridere.
Mi sentivo soddisfatto ma soprattutto mi sentivo felice. Bella non piangeva più, le guance non erano più rosse di pianto ed io – proprio io, accidenti! – avevo fatto tutto questo.
« Dai, Bells » e le avevo anche trovato un soprannome!
Sorrise ancora di più, ma chiese comunque « Farà male? »
« Un po’ brucia »
Mi aspettavo che si tirasse indietro, invece Bella strinse più forte la mia mano e poi, senza pensarci ancora sopra, prese dell’acqua e iniziò a sciacquare il ginocchio. Dopo poco il sangue era sparito del tutto e il graffio era meno profondo di quanto ci fosse sembrato.
« Grazie, Jake » trillò felice.
Mi lasciò la mano, cominciò a correre sulla riva dove i sassolini non potevano farci male ai piedi e mi sfidò a prenderla. Partii carico come un razzo, più felice di lei. Avevo disobbedito alla mamma, ma cosa importava? Anzi, quando sarei tornato a casa le avrei spiegato che si sbagliava di grosso, sulle femmine.

17 luglio, Bells. Era il 17 luglio. Dieci anni che ti amo. 
   
 
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