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Autore: Giulz87    13/07/2011    2 recensioni
Storia scritta per il concorso multisezione "One Shot dell'esatate!"
"Quando vidi Marta, decisi di restare.
Prima di allora non avevo mai sentito il bisogno di fermami in luogo, non più del necessario e non più del tempo di una stretta di mano. Avevo camminato tra la gente, respirato il loro ossigeno ed ero passata come passa una melodia nel pensiero. Nient’altro e niente di diverso.
Finché non arrivai in quel cottage sulla spiaggia.
Ricordo ancora il clima caldo, le onde del mare che si muovevano lente per raggiungere la riva. L’atmosfera estiva si lasciava toccare attraverso i sensi, impregnava persino gli oggetti ed il sole vibrava di una luce straordinaria."
Buona lettura!
Genere: Dark, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Storia scritta per il concorso multi sezione “One Shot dell’estate!

Parole: 2660 (titolo escluso)
N.d.A. Racconto nato come riflessione sull’ineluttabilità del fato.




 
 
LA RAGAZZA CHE VIVEVA NEL COTTAGE SUL MARE





  Quando vidi Marta, decisi di restare.
          Prima di allora non avevo mai sentito il bisogno di fermami in luogo, non più del necessario e non più del tempo di una stretta di mano. Avevo camminato tra la gente, respirato il loro ossigeno ed ero passata come passa una melodia nel pensiero. Nient’altro e niente di diverso.
Finché non arrivai in quel cottage sulla spiaggia.
          Ricordo ancora il clima caldo, le onde del mare che si muovevano lente per raggiungere la riva. L’atmosfera estiva si lasciava toccare attraverso i sensi, impregnava persino gli oggetti ed il sole vibrava di una luce straordinaria.
          Mi colpirono, fra le altre cose, i colori freschi, il verde rigoglioso delle piante sulla terrazza al piano terra, ed il dondolo su cui sedeva Marta. Era china sulle pagine di un libro e titillava una ciocca di capelli scuri, mentre l’espressione del suo volto mutava insieme al proseguo della lettura. Alzò lo sguardo verso la mia direzione, scrutò la linea dell’orizzonte ed aprì al mondo un paio di occhi neri di rara bellezza.
           La curiosità disarmante che provai in quel momento fu il vero motivo della mia resa. Volevo osservare di persona la vita di qualcuno, assaporarne ogni singolo attimo. E scelsi il molo come dimora.
           Non so spiegare cosa provai quando i miei passi avanzarono sul legno, sentivo solo una sorta di vibrazioni che si divulgavano nello spazio sottostante e la sensazione mi piacque.
           C’era una vista meravigliosa da quel punto. Alle mie spalle si espandeva l’infinto, veleggiava il vento col suo canto armonioso, tantoché salpare diveniva un desiderio ardente tra i pensieri. E di fronte, sotto l’ispezione clinica del mio sguardo, ergeva il cottage di Marta in tutto il suo splendore.
           Compresi poco più tardi che la casa sul mare era solo un alloggio estivo. Marta adorava passare le vacanze in quel posto dimenticato dal mondo, dimenticando il mondo. Le piaceva stare in solitudine, o almeno mi piaceva crederlo, non so dare altre spiegazioni al sorriso che portava sempre appresso. Lo indossava come un distintivo, come se non avesse guai, ma mi sbagliavo. Osservandola avevo capito quanto fosse forte la sua anima, quanto coraggio avesse a ridere col mondo invece di piangere da sola.
            I problemi sono l’unica cosa che le persone hanno in comune, però non uniscono, non hanno questo potere, purtroppo.
           Qualche settimana dopo scoprii l’esistenza di un fratello, un tipo che sembrava essere l’opposto. Era inquadrato e non si scomponeva facilmente, dosava sorrisi e dispensava attenzioni nei suoi confronti. Potevo vederlo dal modo in cui la guardava o cercava, dal modo in cui le parlava sospirando alla fine di ogni discorso. Erano sospiri d’affetto, di quelli arrendevoli alle richieste e sostitutivi delle parole inutili. Erano perfetti.
          Non seppi mai, né allora né in seguito, quale lavoro facesse. Lo conoscevo unicamente come Matteo che lavorava in ospedale, il cui nome per la metà delle volte si trasformava in Teo e l’altra metà in “Kuiky”. Immagino fosse un soprannome da fratello, così come “Skiky” lo fosse da sorella.
Non indagai mai.
          Piuttosto mi domandai spesso quale fosse il suo ruolo all’interno dell’ospedale, mi divertivo ad ipotizzare quali potessero essere le sue mansioni e sorridevo ad immaginarlo alle prese con la chirurgia. Era talmente serio…
          Le rare volte che Matteo, Teo, “Kuiky”, faceva la sua comparsa ero felice. Amavo vederli insieme e chiudendo gli occhi avevo la sensazione di essere in mezzo a loro, di ridere con loro. Osservavo come lui cucinava muovendosi perfettamente nella cucina, Marta seduta sul divano che potevo intravedere solo per ¾ . Le finestre erano divenute ben presto le mie televisioni, ed accovacciata sul molo le fissavo estasiata.
Amavo stare lì.
          Quando Matteo, Teo, “Kuiky”, se ne andava mi concentravo su Marta, cercavo di capire tutto su di lei e quando lo facevo il molo mi restava stretto. Infinite volte ho pensato di lasciarlo, di lasciare il riflesso della luna sull’acqua. Era uno specchio argentato di luce dai contorni sfuocati dalle onde, il caldo del giorno sembrava avergli lasciato il testimone ed il fresco della sera condiva l’aria con brividi stuzzicanti.
           Non ricordo di avere mai guardato così tanto la natura ed i suoi frutti e tutto grazie a Marta. Perfino lei pareva scontenta quando lasciava il cottage per raggiungere il paese. Inizialmente succedeva di rado, esclusivamente per recarsi al supermercato. Lo avevo capito dalle buste della spesa con cui rincasava. Erano grandi e colme di provviste, come a voler sottolineare l’importanza del restare. Più erano e più tempo sarebbe trascorso dai successivi acquisti.
            Una volta sentii due signore parlare di un uomo, non so chi fosse di preciso ma udii chiaro il suo bizzarro passatempo. Usciva di casa solo quando era strettamente necessario, se ne stava tutto il giorno sopra una sedia a dondolo a fissare il cielo, oltre il vetro della finestra. Credo amasse guardare le nuvole in movimento, oppure il volo degli uccelli. Non saprei darmi altre spiegazioni. Alcune volte ho immaginato che fosse un pittore in cerca dell’ispirazione, altre che fosse un pazzo innamorato dell’infinito.
           Ipotizzare è sempre stato uno dei miei hobby preferiti, da una linea si crea un disegno, quello che si preferisce e non ci sono clausole di responsabilità.
Neppure con Marta.
 
Ogni tardo pomeriggio, quando finiva di sistemare le numerose compere, scendeva in spiaggia. Camminava veloce per raggiungere l’acqua e portava con sé un buffo cappello da cowboy. Lo indossava perennemente in quella occasione, come un rituale, finché i suoi piedi non immergevano nel mare. Solo allora lo gettava sulla rena, e nell’istante successivo correva a tuffarsi.
           Sorridevo vedendola sorridere, seguivo le sue nuotate spostandomi sul molo e talvolta ho pensato di tuffarmi, altre ho sperato che i miei passi potessero semplicemente essere uditi dalle sue orecchie.
           L’estate doveva essere la stagione preferita di Marta, non riuscivo e non potevo immaginarla in un altro contesto. Quando sguazzava dentro l’acqua sembrava fosse il suo elemento naturale, e quando galleggiava facendo la morta il suo corpo si fondeva con il blu. Chiudeva le palpebre e respirava in modo regolare, il suo petto si sollevava ritmicamente e piccoli cerchi le si espandevano intorno divenendo sempre più grandi, fino a scomparire.
Quando quel rituale finiva Marta tornava nel cottage, ed iniziava la sera.
          Quali fossero le sue passioni lo scoprii pian piano, senza fretta. Nella mia mente vive ancora il ricordo della sua musica, calda ed avvolgente. I miei sorrisi non potevano non diventare rumorosi davanti alla figura del suo corpo danzante. Era scoordinata e goffa. Amava mettere il volume molto alto, ballava e faceva ballare il mondo circostante al suo ritmo personale. Era come vedere in scena un’opera teatrale.
            Altre volte preferiva starsene seduta sul dondolo, come la prima volta che la vidi. E illuminata solo dallo scampolo di luce artificiale si perdeva nel buco nero dei pensieri.
            Mi ci volle del tempo per capire quanto le piacesse pensare. All’inizio mi rattristavo osservandola, credevo fosse malinconica, ma compresi solo più tardi quanto le cose fossero diverse. Marta mitizzava le idee che le passavano per la testa e da esse nutriva speranza.
            Ho bene impressa la sua figura oltre il vetro della finestra, seduta al tavolo della cucina. Davanti ai suoi occhi c’era quasi sempre un computer ed una televisione senza volume. Persone, paesaggi e cose, si alternavano all’interno dello schermo di quella scatola e lei non li vedeva. Restava fissa sul cervello elettronico, concentrata come non avevo mai visto nessuno concentrato. E scriveva.
            Non saprei dire che genere di cose elaborasse, ma erano sicuramente belle. Dovevano, essere belle. A volte, scrutandola, avevo l’impressione che le riflessioni le uscissero dalla testa e che lei le seguisse con lo sguardo prima di trasformale in parole scritte.
            Mi piaceva fantasticare sulla sua ispirazione fluttuante, potevo quasi carpirne l’essenza.
            Quando Matteo, Teo, “Kuiky”, era in casa e Marta era in vena di poesia, sedeva sul divano della cucina, quello a me visibile esclusivamente per i ¾ , e la guardava con ammirazione. In quelle rare volte lo percepivo più vicino, come se anche lui la stesse fissando dal molo. Lo sognavo al mio fianco, accomodato a godersi lo spettacolo insieme al riflesso della luna sull’acqua, insieme al rumore delle onde che si infrangevano negli spessi pilastri di legno.
             Rammento tutt’oggi la brezza serale che muoveva le tende sottili, il rumore soffuso dei tasti premuti con passione ed orgoglio. Un’eco di emozione.
 
A fine Luglio giunsero i grilli.
            Non penso di averli mai uditi prima, o almeno non con così tanto ardore. Il loro suono non mi piaceva in modo particolare, mentre Marta ne andava pazza. Forse, non li amavo solo per la paura che potessero infastidirla, distoglierla dai suoi lavori, ma mi sbagliavo. Ricordo una volta in cui sospese la scrittura per appollaiarsi sul bordo della finestra, mento pronunciato all’aria e pugno chiuso a sostenerlo. E ascoltava nel silenzio il canto.
  Fu in quel periodo che cambiò una delle sue abitudini più ferree.
            Marta iniziò a recarsi in paese più spesso, prima aveva aumentato i viaggi fino a tre volte alla settimana, finché non arrivò al sette giorni su sette. Si curava maggiormente l’estetica e sorrideva in maniera più incantevole. A volte andava per comprare poche cose ed a volte per scusa. Avevo capito che si fosse invaghita di qualcuno, ed ero felice se lei era felice. Ma probabilmente fu proprio questo aspetto ad innescare il mio declino.
  Più che la vedevo felice e più che un senso di angoscia mi invadeva.
  Non volevo vedere la fine della sua allegria, avrei sofferto.
            Nel frattempo, l’inconfondibile frinìo di quei piccoli insetti faceva da colonna sonora fino a tarda sera. Ricordo di averne visto uno da vicino una volta. Era di colore bruno nerastro e si era allontanato troppo dal suo habitat usuale, finendo con l’arrivare nei pressi del molo.
            Fu in quella occasione che capii come producevano il suono. Notai lo stridio tra le membrane che aveva sul dorso, la sua lucentezza, e me ne rallegrai.
            Quando cessava la loro melodia c’era un silenzio statuario che spadroneggiava nell’aria, rendeva il posto simile ad un’isola deserta.
  Eppure, non esistono luoghi di solitudine assoluta.
In passato li ho cercati come si cerca un ago in un pagliaio, mai trovati né pervenuti. E’ come se ci fosse qualcosa di non identificato all’interno della mente umana, qualcosa che va al di fuori della normale concezione. Nessuno è contrattualmente legato al proprio bozzolo, per ogni momento della vita in cui si desidera un po’ d’isolamento ce n’è un altro in cui si desidera un po’ di compagnia.
Una leva senza fulcro.
Non c’è equilibro fisso.
E neppure Marta ce lo aveva.
          La vedevo essere felice di stare da sola, alcune volte. Mentre altre percepivo chiaramente il suo senso di abbandono. Era bello guardarla alla ricerca di un contatto, prendere il telefono e sentirne la voce per delle ore.
          Quando succedeva mi strappava dall’angoscia in cui ero caduta. I suoi movimenti erano sempre buffi. Camminava su e giù per il cottage ed io scrutavo la sua figura comparire e scomparire dietro le finestre, e sorridevo di nuovo.  
 
La prima volta che Marta varcò la soglia del molo, sussultai.
            Non l’avevo mai vista da vicino, non così da vicino. Stava in piedi a braccia conserte, i capelli sciolti ondeggiavano con la brezza notturna ed il vestito morbido che portava le stava d’incanto.
             La osservai avanzare fino in cima, sedere e tirare fuori dalla borsetta di stoffa un pacchetto di sigarette. Ne accese una e per un attimo il suo volto venne illuminato dai consueti toni del rosso. Poi lasciò andare uno sbuffo di fumo, che vidi perdersi nel vento.
             Tornò spesso a trovarmi, o almeno mi piaceva l’idea che tornasse per me. Non potevamo vederci né parlarci, ma volevo credere in qualcosa in più grande.
             Se c’è una cosa che ho imparato è che i legami tra le persone non sono mai netti, tantomeno chiari. I loro contorni sono nebulosi, non ci sono linee di confine e, se ci sono, sono fatte per essere oltrepassate. A volte sembra che debbano spezzarsi, altre invece che debbano durare in eterno. Eppure, non è così semplice, non lo è mai.
   Quando le visite di Marta aumentarono, entrai in crisi.
            Agosto giungeva al suo termine e presto saremmo partite, entrambe. Non riuscivo ad immaginare come sarebbe stato il distacco, né per me né per lei. Non poteva vedermi, ma io sentivo che lo faceva. Ero una specie di vibrazione sul molo, un’ombra percepibile solo dalla coda dell’occhio, una voce che credeva di udire.
            Amo pensare che, in qualche modo, fosse legata alla mia particolare compagnia. Non saprei dire il motivo, ma pulsava dentro di me come il bagliore accecante di una speranza latente.
  E poi, venne il giorno.
            All’epoca provai una sorta di malessere, tutto quello che avevo creduto di sapere suoi luoghi di solitudine assoluta vacillò inesorabilmente e non ero preparata.
            Guardai Marta dalla mattina alla sera, come sempre, eppure sentivo qualcosa di tremendamente sbagliato. I sorrisi che dispensai si persero nello spazio, con amarezza. Non c’erano lati positivi. Immagino che ogni distacco porti con sé un forte senso d’inadeguatezza, un vuoto dentro la pienezza del corpo.
  E fu così anche per me, non facevo eccezione alla regola.
            Era come se ci fosse stata una stupenda cena tête-à-tête. Il copione, standard. Si comincia sorridendo, scherzando, finché non si percepisce il cambiamento. L’ospite deve andarsene. La sensazione di malessere ristagna nelle viscere, lentamente risale fino allo stomaco. Ed infine devi accompagnarlo alla porta. Solo quando segui i suoi passi che si allontanano comprendi quanto silenzio ci sia alle tue spalle. Rimane unicamente una casa con le sue quattro mura. Mura che non ti daranno niente. L’isolamento percepito graffia la tua anima e grida. Grida dal profondo della quiete. La tua mente avverte il danno ed affanna alla ricerca di qualcun altro. Qualcuno che possa riempire l’inequietà del senso di abbandono.
Quando Marta tornò dal paese, era già buio.
Seduta sul molo osservavo senza interesse alcune lucciole che giravano in tondo. Erano un bellissimo vortice d’oro.
           Il mio sguardo si posò verso il cottage a flash continui ma distaccati, abbracciavo me stessa come in una sorta di auto-protezione. E sperai, fino all’ultimo, sperai.
            L’uomo con le mani in tasca, come previsto, si avvicinò alla casa sulla spiaggia. I suoi passi pesanti lasciarono impronte nette sulla sabbia e solo il vento ne avrebbe cancellato passaggio. Bussò con riguardo sullo stipite della porta aperta ed aspettò.
           Marta sopraggiunse dopo pochi attimi sembrati eterni. Lo accolse con un sorriso a metà tra il cordiale ed il dubbioso e disse qualcosa. Non saprei riportare le parole precise, ero lontana, ma immaginai fossero sincere e cortesi. Poi, tutto accadde in un secondo. In successione, l’uomo con le mani in tasca, tirò fuori una pistola, le sparò, ed osservò inespressivo il  suo peso cadere a terra.
 Uno spasmo, due spasmi, tre spasmi. Fine.
           Mentre mi stringevo sempre di più le ginocchia al petto, l’uomo con le mani in tasca irruppe all’interno del cottage ed arraffò delle cose. Non ricordo cosa fossero, il tremolio che avvertivo non mi permetteva di essere lucida. Ed aspettai.
            Quando l’uomo con le mani in tasca se ne andò, andai da Marta. Era stesa nella stessa posizione in cui il mostro l’aveva lasciata, gli occhi erano sbarrati, privi di quella luce che non mi aveva permesso di andare via. Il colore dell’abbronzatura sembrava sbiadito, il pallore avanzava senza risparmiare né tempo né modo, come l’acqua che solca il bagnasciuga.
             I grilli intonavano ancora la loro melodia, eppure sembrava spenta. Le note di dolore impregnavano l’aria e colmavano l’omertà della notte. Niente di più e niente di diverso.
            Una piccola lacrima scese a rigare la mia guancia ed ancora guardai Marta. Socchiusi le palpebre e mi accorsi di non respirare. Presi una boccata amara di ossigeno ed osservai il mio stesso pensiero, cinico resoconto di vita, prima di trasformarlo in parola.
- Che compito ingrato, essere la Morte…
Chissà cosa avrebbe pensato, Matteo che lavorava in ospedale.
   
 
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