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Autore: Misunderstood_    13/07/2011    4 recensioni
Saaaaaaaaaaaaaaaalve salve! Sono nuova del sito. Vedo che questa storia non sta riscuotendo un gran successo, in effetti questa storia l'ho inventata a tredici anni e non mi aspetto di guadagnarmi la reputazione di persona profonda per una storia che può sembrare così banale. Diciamo che la prendo come un'occasione per crescere, con il vostro aiuto posso migliorare il mio stile di scrittura e magari avere qualche idea in più. Recensite!
Genere: Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Spesso la gente cambia lato della strada quando vede qualcuno che considera poco affidabile.
Lì c’è la non di certo prima donna anziana e bigotta che si considera troppo al di sopra di me per essere quella che cambia strada, che alza la testa palesemente tinta, stringe la borsa squamata e guarda con disprezzo i brillantini che ho sugli occhi contorcendo le labbra sotto il rossetto carminio e io troppo insofferente storco il naso nel venire investita dal profumo dolciastro di cui è impregnata la sua pelle di vecchia. Il suo odore invadente di trucco e fibre di pelliccia intride e soffoca il colore della sua aura, qualunque esso sia.  Le sorrido con gentilezza, tanto per il diletto di vederla spiazzata dalla mia figura, un puttana che sa di asfalto e sigaretta che le sorride con il volto della bambina che è; le sorrido anche con quel filo di compassione e inquietudine che mi mettono addosso le persone anziane. Le scorro a fianco con passo veloce, senza portarmi dietro quel sorriso che svanisce nel medesimo secondo in cui non mi vede più, fregandomene del suo ancheggiare sicuro alle mie spalle che trae forza da persone rozze e inadeguate come me. Dovevo scartarla.
Io cambio strada quando vedo i genitori per mano ai figli, quando vedo le coppie anziane che si camminano vicine con quella complicità che non ha bisogno di contatto e ancora i pensionati acidi e iracondi, sparisco in fondo alle loro retine, sposto lo sguardo, scivolo dall’altro lato, mi nascondo dagli sguardi competenti degli uomini in cravatta e delle donne dall’aspetto impeccabile ed evito con accuratezza i genitori che sgridano in continuazione i figli come quelli che sorridono con la stessa sterilità che immagino abbia un medico legale davanti ai parenti del suo cliente. Non ne temo il giudizio ma l’idea che si fanno della mia generazione, non voglio rovinare la reputazione di una brava ragazza qualsiasi sulla base dello stereotipo che io sola rispecchio o lasciare alle loro menti oscene poiché obbligate alla moralità la mia immagine come una carogna da spolpare.
Preferisco che i perbenisti più oculati  vengano pressati dalla loro stessa boria senza fomentarla, non chino la testa e non lancio sguardi di scherno o tantomeno invidia.
Preferisco che le brave persone e quelle fortunate aleggino nella loro innocenza e ignoranza, senza turbarne le vite felici o non con quell’incompletezza che indosso e che non gli appartiene.
Niente mi fanno gli energumeni tatuati o le ragazze troppo truccate.
In questo sole che illumina le cose e le loro imperfezioni cammino velocemente con la mano salda sulla spalla per tenere la borsetta, scarto le persone senza toccarle, cerco di occupare poco spazio, a volte mi piace fare finta di essere invisibile ma non oggi.
Non riesco a non sorridere di nascosto dei padri di famiglia e gli ometti alteri e insignificanti che mi fissano il seno con avidità dietro alla canottiera semi-trasparente, il mio corpo mi sembra ingombrante e cresciuto con violenza senza interpellarmi, mi sembra di non sapere come usarlo, questa mia provocazione ha qualcosa di morboso che da qualche parte nel mio corpo mi disgusta anche se di fatto non provo ne fastidio ne ribrezzo nell’essere l’oggetto di una colpa che non è la mia e sono anzi divertita da questa manica di maiali che si accontentano di tanta miseria e predicano l’integrità. Quante volte mi avete incontrato?  penso, quante volte mi avete frainteso, giudicata. Mi fermo davanti a una vetrina di libri di politica ma questo non mi rende più intelligente, rido anche di quei massoni lassù in esposizione che con le loro facce sorridenti dissuadono i loro conformi fantocci dal farsi un identità senza sapere di essere immersi fino al collo nella merda che sparano sulle proprie patrie.
Già che siamo poco più che creta nelle mani di chi neanche possiamo percepire e che non formiamo ne controlliamo una buona percentuale di noi e di ciò che diventiamo non oso immaginare il sadismo o forse l’odio e la perversione stomacante che possono aver messo gli ideatori di questa trama malata e zoppicante. Per la minuzia con cui vengono delineate queste passive depravazioni, intersecate e annodate a mo di cappio intorno alle persone come delle parche feroci, come se fossero dei. Il mio disprezzo per ciò che è puro e giusto, il disgusto viscerale per la fortuna e la leggerezza delle cose. Immagino il ribrezzo che proverebbe uno qualsiasi dei miei invisibili formatori nell’apprendere quale creatura ha potuto generare la loro società, con la scienza della comunicazione invece che la scienza chirurgica di quel macellaio di Frankestain.
“Le sue membra erano proporzionate , ed avevo scelto i suoi lineamenti in modo che risultassero belli. Belli! Gran Dio! La sua pelle giallastra nascondeva a malapena il lavorio sottostante dei muscoli e delle arterie; i suoi capelli erano folti e di nero lucido, i suoi denti di un bianco perlaceo; ma tutti questi particolari non facevano che rendere più orribile il contrasto con i suoi occhi acquosi, i quali apparivano quasi dello stesso colore delle orbite, di un pallore terreo, in cui erano collocati, con la sua pelle grinzosa e le sue labbra nere…” 
Mi fermo così, a citare mentalmente quell’orrore così lungimirante nel descrivere metaforicamente una situazione così attuale. Chissà se mi trovano bella, a me, figlia del benessere, chimera di pensieri discordi, automa sterile, agonizzante  e insofferente ai suoi agi quanto alle sue sventure… tregedie, mi corregge il volto segnato più dalle lacrime che non ha pianto che da quelle liberate che si riflette nel vetro opaco.
Non riesco ad assimilare il concetto della relatività di “giusto”, io sono sbagliata, gli altri normali e di questo nutro orrore e orgoglio, poiché altra dote che il mio essere insignificante non ho. Dovrebbe essere tutto relativo, ma riesco a vedere solo me per ciò che sono e neanche a decifrarlo, e gli altri sembrano lastre di vetro trasparenti e insieme casseforti blindate dal contenuto ignoto. Sembra che gli altri camminino una spanna più in alto dell’asfalto, che ha ripreso a scorrermi sotto con indifferenza.Le piante dei miei piedi bruciano sopra alle suole, infondo alla strada vedo il mio perfetto fratellastro che non sopporto a fianco al motorino, i piedi adesso bruciano ancora di più, la via sembra sgombrarsi da ostacoli e gente che si scosta placida o seccata mentre corro in discesa senza frenare. Le gambe vanno da sole, come il resto, non ho male ai polmoni, non sento lo stomaco, mi sento avvolta da una bolla d’aria finche non inchiodo ed inspiro un gomitolo d’aria fredda, che si dipana nella gola e nel ventre. Mi fermo a qualche metro di distanza. Alessio si infila il casco e sale sulla sella, un particolare che non riesco a mettere a fuoco mi ferisce gli occhi. Sono ferma a spiarlo come uno stalker, rigida e inchiodata a terra con il fiato corto. I colori diventano tenui e vorticosi mentre tutti quei volti sconosciuti sfumano dietro alle prime lacrime. Da mesi.
« Sonia!» No.
« Sonia!!» No, ora non posso, indietreggio, mi volto. Riprendo con quel passo veloce slanciato in avanti, ridicolo.
In qualche modo anche se gli do le spalle lo vedo. Dare un colpo con la gamba e mettere in moto, girare dalla parte opposta alla mia, fare finta di niente. Svoltare e sparire come tanti altri.
« Ehi Sonia, tutto bene? » non me lo aspettavo ma non sobbalzo, mi è a fianco forse un po’ troppo vicino e non so neanche se mi fa piacere, forse lo odio, penso, forse ti odio.
L’aria entra a piccoli balzi dalla mia bocca, detesto questo stupido modo che mi viene da sbattere le palpebre, le lacrime non scendono già più.
Per quanto poco credibile dopo quella serie di smorfie dico si, che va tutto bene. Stupido idiota!, parto in quarta con quel rimprovero che non dovrà mai e poi mai sentire, mi chiede se sto bene!  la mia famiglia è…, no, nessuno lo dovrà mai sentire …e tu mi chiedi se sto bene!
Mi accendo una Chesterfield blu, sotto il suo sguardo di accusa e pena, con le mani rovinate smaltate di rosso.
Due secondi a parlare con quel bimbo scaraventato in un corpo a cui sta crescendo la barba, con la pelle bronzea e gli occhi innocenti mi fa già stare peggio.
Mi manca quell’aria tossica, sbagliata.
Satura di fumo e umido, il sapore di alcol in bocca, il sangue, il chiuso. Così nascosta e subdola da risultare rassicurante.
Immagino che sia pesante questo silenzio colmato dalle voci degli sconosciuti per lui, ma in realtà a me scivolano addosso quanto le parole.
« Ti accompagno a casa? » tamburella con le dita sul casco
« Ho una casa? » sarcasmo e malinconia.
Sono amara. Con una persona dolce che altro gusto non conosce, mi dice che sono una stronza, salgo.
Stargli vicino mi fa male, il rumore del motorino mi ronza nelle orecchie e anche se stringo gli occhi con forza non riesco a piangere di quel rumore infernale.
Non mi ricordo il nome del ragazzo, neanche il suo volto. So che era disteso. Che non c’era sangue. Alla fine è colpa sua se è morto e non si taglia la strada in quel modo, che ragazzo stupido… di colpo apro gli occhi e mi aggrappo come una disperata alla maglietta del mio nuovo fratello, affondo le dita nella sua schiena «Aspetta il semaforo stupido! » forse suono un po’ isterica..
Un ragazzo come Alessio. Forse.
 
  

  
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