Storie originali > Introspettivo
Ricorda la storia  |      
Autore: Bricta    14/07/2011    1 recensioni
Un breve viaggio fuori dalla realtà in una metafora di vita.
"Era donna ogni volta che la Luna la lasciava sola e lei sanguinava sulla Terra, quando sorrideva a se stessa, quando intrecciava i fili d'erba, quando danzava sotto lo sguardo delle stelle. Era donna mentre amava.
Era albero ogni volta che si lasciava scaldare dal Sole, si nutriva di vita e creava vita."
Genere: Drammatico, Fantasy, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
La betulla solitaria

Voglio raccontarvi una storia. La storia di un albero e di una donna. Non di un albero qualsiasi per la verità, di una Bianca Betulla.

C’era quindi una volta un albero che dall’altezza della sua collina, osservava tutto il territorio circostante. Non era un alto larice, una quercia centenaria, un forte abete…non si ergeva come un forte, una torre di guardia…non dominava il territorio, semplicemente se ne stava lì, quasi come se soffrisse le vertigini lottando contro il vento, ad osservare quello che accadeva ai suoi piedi. D’altronde cosa può fare un albero? Eppure i castagni sottostanti ospitavano i bambini nei caldi giorni d’estate, ascoltavano il canto degli uccelli e il movimento degli animali che avevano visto nascere sui loro rami, tra le loro foglie o sotto la terra dalla quale prendevano nutrimento. Regalavano i loro frutti all’autunno, e in primavera lasciandosi spingere dal vento si cullavano accarezzandosi dolcemente.
Solo in inverno cessavano questo abbraccio, salutavano i bambini, i fiori e il verde e attendevano il freddo, nudi. La betulla invece se ne stava sulla cima della collina, come una ballerina in punta di piedi, sempre sola mentre in equilibrio precario tendeva verso l'infinito. Era circondata da una solitudine strana, era sola in mezzo a centinaia di insetti e animaletti che vivevano negli aridi pascoli dove trovavano rifugio le sue radici. Non c’erano altri alberi con cui potesse tentare un timido contatto, raramente gli uccelli decidevano di nidificare tra i suoi esili rami, non aveva frutti da donare alla terra e gli uomini, erano troppo impegnati per avventurarsi per quel sentiero impervio fino a lei. A che scopo poi?
Per questo valeva meno di un castagno? No... ma non ne era convinta fino in fondo, le sembrava che la Vita vera esistesse solo dove lei non poteva viverla. Perfino che le stagioni avesse senso solo più in basso. E chi poteva biasimarla? Quale stagione può essere chiamata estate se nei boschi non riecheggiano le grida vivaci dei ragazzi? Boschi, grandi foreste pullulanti di vita, era questo il punto: lei non apparteneva a quei luoghi. Qualcuno o qualcosa aveva voluto che crescesse lì, in quel punto, proprio su quel piccolo appezzamento di terreno dove c’era spazio per un solo albero. Mica poteva spostarsi in cerca di conforto, in cerca di foresta, in cerca di Vita...

La betulla attenta ad ogni forma di vita, dai fenomeni maestosi ai granelli spostati dalle formiche, apprezzava le cose che la circondavano e perfino la loro assenza. Era libera di godere interamente della luce solare senza che nessuno le potesse fare ombra, per esempio, ed era più vicina al cielo di quanto lo fossero gli altri alberi. Nessun umano si preoccupava di recidere i suoi rami, o peggio ancora di rubarla alla terra per farla diventare cielo. Era in alto e sovrastava gli altri, avrebbe potuto
esserne orgogliosa, e a volte lo era, a volte invece le sembrava una cosa senza il benché minimo significato.
Era Felice, di una felicità insoddisfatta però, non totalmente appagata. Non stava male, ma avrebbe potuto stare meglio nonostante non sapesse bene cosa le mancava per raggiungere quel “meglio”. Non era solo il bosco che desiderava, era di più.

Questa betulla non era però una semplice betulla, era una donna e nello stesso tempo non lo era. Era una betulla-donna, un inspiegabile scherzo del Fato: quando la luce del sole illuminava il mondo lei era un vegetale, mentre sotto la coperta della notte era umana. Non era niente e tutto contemporaneamente, non era un albero e non era una donna. Era un quasi albero e una quasi donna ma non era completa, non raggiungeva l’intero.

Era albero nell'ultimo istante di giorno e donna nel primo istante di notte. Proprio tra questi due istanti avveniva il mutamento: le radici tornavano rapidamente in superficie accorciandosi sempre più formando lunghe e slanciate gambe di donna, il tronco prendeva timide forme femminili perdendo la rigidità di albero e acquistando una nuova corporeità, una nuova morbidezza, una nuova Libertà. Le ramificazioni lanciate verso il cielo si ritiravano verso il tronco, ormai diventato il centro del corpo dove pulsava un cuore umano. Si creavano così le braccia. I ramoscelli più piccoli si trasformavano invece in piccolissimi fili di seta che le ricadevano fluidamente alle spalle coprendole quasi interamente la schiena. 

Ogni giorno, negli ultimi raggi di sole moriva albero per rinascere donna e moriva donna appena prima di ogni alba per rinascere arbusto.

Ogni giorno trovava rifugio nella Madre Terra e ogni notte si staccava da quell'intimità per correre sulla sua superficie. Ogni giorno era diversa, cambiata, nuova, rinnovata, appena nata e appena morta.

Danzava, nelle notti d'estate seguendo il canto dei grilli. Rincorreva le lucciole quand'essi si erano ormai zittiti.  Ascoltava i rumori della notte, il richiamo degli uccelli notturni e il movimento degli animali. Rubava gli ultimi barlumi di calore che le rocce ancora conservavano, si arrampicava sugli alberi, per sentirsi più in alto. Camminava, mentre l'erba lunga le solleticava le gambe nude. Riconosceva l'odore dell'aria, della terra, dell'acqua. Correva a perdifiato, fino a sentire il cuore in gola solo per sentire il vento quando questo riposava. Ascoltava l'eco della sua voce tra le nere grotte, cantava imitando i suoni della notte. Si abbandonava al vento, alla tempesta, all'acqua dei temporali che le scrosciava addosso e a quella delle piogge autunnali che formavano piccoli torrenti sulla sua pelle. Non opponeva resistenza al caldo delle sere d'estate, nè al freddo degli inverni più pungenti. Si lasciava cullare da questi come in un amoroso abbraccio. Solo così era certa di essere viva.

Si muoveva per i campi, vestita di foglie, per i boschi di castagno che osservava durante il giorno, come una dea caduta dal cielo. Il suo corpo, non conoscendo la luce del sole era bianco come la neve appena caduta. I lunghi capelli che ondeggiavano nella notte mentre correva erano così chiari da essere quasi bianchi e perfino le sue iridi brillavano di un grigio perla appena sfumato. Era un essere incolore al quale non era stato permesso godere della vitale luce solare e del mondo dei colori. Era la figlia della notte, la figlia della Luna. Come Lei splendeva e come Lei vegliava sul mondo. Con una sola piccola differenza: dentro di sè custodiva un'anima

Era donna ogni volta che la Luna la lasciava sola e lei sanguinava sulla Terra, quando sorrideva a se stessa, quando intrecciava i fili d'erba, quando danzava sotto lo sguardo delle stelle. Era donna mentre amava

Era albero ogni volta che si lasciava scaldare dal Sole, si nutriva di vita e creava vita

Spesso si recava al fiume che scendeva su un lato della collina facendosi lambire dalla foresta di castagni e arrivando poi fino al villaggio. Si recava lì, dove non poteva essere di giorno, per contemplare il piccolo torrente. Saltava sulle sue rocce scivolose e faceva il bagno dove le sue acque erano più calme. Osservava i bagliori della luna su quella superficie mutevole e si faceva cingere dalle sue primaverili acque irrequiete,  da quelle glaciali dell'inverno, o da quelle piacevoli d'estate.  Aveva imparato a nuotare, cercando di inseguire i pesci e raccogliendo le pietre sul fondo. 
Una notte, mentre ripuliva il suo corpo dal fango, la sua mano risalì le lunghe gambe fino a fermarsi nel mezzo. Guidata da un nuovo istinto si fermò lì. Iniziò a studiare quelle labbra... a stringere la peluria chiara... a dischiuderle lentamente... dapprima a sfiorare innocentemente il clitoride per poi arrivare a muoversi su di lui con una nuova consapevolezza, la stessa che la fece affondare nel suo corpo... la stessa che le fece contrarre il muscoli dal piacere, alzare gli occhi al cielo e fermarsi, inconsapevole di quello che aveva vissuto, in un ultimo spasmo. Aveva conosciuto Piacere.

L'albero-donna, o la donna-albero oppure la Bianca Betulla amava. Amava, sia come albero che come donna, non solo la Vita, non solo se stessa, non solo tutto il resto, amava anche un uomo.

L'aveva conosciuto in un pomeriggio di fine estate, era il primo uomo che saliva fino a lei. Era un poeta. 
Risaliva la collina per sedersi ai suoi piedi portando con sè solo il suo cuore, la sua anima, una penna e un quadernetto rosso. La betulla non poteva sapere cosa scrivesse in quei brevi pomeriggi, lei non sapeva che gli umani scrivessero, non sapeva nemmeno come era fatto un umano, non sapeva che quei tratti sul foglio si potessero leggere, non sapeva che si potesse dare forma ai sentimenti e alle emozioni. Forse il poeta scriveva per un amore perduto, per un sè smarrito, per una paura segreta, per una passione irrefrenabile, ma lei non sapeva cos'erano queste cose...non poteva immaginare. La Bianca Betulla si limitava ad aspettarlo, a rattristarsi quando ritardava o non veniva, a illuminarsi quando lo vedeva comparire, a ripararlo dal sole e dal vento, a sfiorarlo con un tocco di ramo, ad osservarlo da vicina...ma pur sempre così lontana ai suoi celati occhi di donna.

Non sapeva che avesse un nome quello che provava. Per lungo tempo andò avanti così, vivendo nell'attesa del poeta. Nel susseguirsi di giorni e notti, di albero e donna. Le sue foglie smisero di creare giochi di luce illuminate dal sole e iniziarono a cadere, arrivò l'inverno e il poeta smise di farsi cullare tra le braccia della betulla per farsi scaldare dal fuoco della sua capanna. Lei era nuovamente sola, in un inverno quasi interminabile.

Nei primi accenni di primavera la bianca fanciulla si recò al torrente, felice di poter finalmente bagnarsi nelle sue limpide acque senza l'impedimento della neve. Era notte, ovviamente, e il suo sospirato poeta passeggiava angosciato sulle rive del fiume in piena cercando di placare il suo animo. La Bianca Betulla aveva nuotato sul letto del fiume per molti minuti contrastando la corrente e ora, irrompendo in superficie analando ossigeno richiamò l'attenzione dell'uomo su di sè. Lui la vide, per la prima volta un occhio umano la guardò a fondo, vedendo nella notte...sotto l'albero che era di giorno. Mai sarebbe riuscito ad immaginare cosa più divina. 

Il suo corpo bianco era illuminato dalla Luna che giocando con l'acqua dipingeva su di esso sfumature argentee. Si muoveva sinuosamente, inconsapevole di essere osservata. I lughi capelli si lasciavano trascinare dalla corrente, abbastanza placida in quel punto, le membra si muovevano scivolando nell'acqua gelida. Si avvicinava così alla riva, in cerca di acque ancora più calme, dando la schiena all'osservatore. L'uomo credeva di essere di fronte ad un angelo, ad una ninfa delle acque...a uno scherzo dell'immaginazione. Tutto fuorchè una donna. Quale umana poteva solo pensare di fare un bagno in acque così fredde senza andare incontro a morte certa? Tutti questi pensieri gli arrovvellavano la mente, finquando lei si voltò, e incrociò il suo sguardo, per la prima volta lei vide con occhio umano un altro umano e rimase pietrificata. Dal canto suo mai il poeta aveva visto quello sguardo in una donna, e in quel momento seppe con certezza che quella era tale. Vedeva in lei la paura, l'incertezza, il bisogno di protezione che nessun essere soprannaturale avrebbe potuto provare. Desiderava accostarsi a lei, parlarle, cullarla, stringerla a sè, rassicurarla ma aveva paura di commettere un errore, al suo più piccolo movimente avrebbe potuto scappargli via...forse per sempre. Iniziò così a cantare di una storia d'amore sotto un cielo invernale, cantò di dei potenti, di fanciulle danzanti, di lacrime sfuggenti, di sorrisi bambini... cantò poesie e melodie, cantò una musica che gli usciva dal cuore per arrivare a quello della sua musa. La ragazza, ancora in acqua, non poteva capire le parole struggenti ed emozionanti di quelle poesie ma ascoltava la voce dell'uomo, la musica che usciva da lui, assaporandola per la prima volta. Si rilassò così, abbandonandosi alla musica e allo scorrere del fiume che portava lontano, con sè le parole dell'uomo. Quando questo smise di cantare, la ragazza che non conosceva Pudore si alzò dall'acqua e nuda, come sotto incantesimo, si avvicinò lentamente al poeta. Questo la prese per mano, accertandosi che davvero non fosse solo un miraggio della sua mente, tentando di scaldare le sue membra e il suo cuore affogò nei suoi occhi limpidi, si aggrappò al suo corpo esile e chiese rifugio tra le sue labbra. La Bianca Betulla non conosceva già più Timore, voleva solo perdersi in lui, sentire sempre con più forza, con più desiderio le sue morbide labbra tra le sue, le mani dell'uomo scorrerle addosso, il contatto tra le loro pelli nude, le labbra carnose dell'altro che la esploravano delicatamente e lei che imparava a conoscere il corpo dell'uomo come fosse quello della Madre Terra sulla quale correva. Sempre più bramosi l'uno dell'altro, sempre più ansiosi di conoscenza, sempre più bisognosi di amore, sempre più vivi...fu con un'urgenza implacabile che l'uomo fece forza nel corpo della donna e lei ferità d'Amore e nella carne si abbandonò a lui. L'uomo dalla pelle nera come la notte e la donna luminosa come il giorno erano ormai la stessa cosa, una massa indistinta di colore e incolore protetta dalla notte. La Bianca Betulla, stretta tra la braccia possenti del poeta, come un fiume in piena, giunse all'apice del piacere. 

Vegliò il sonno dell'amante, stretta a lui, memorizzando il ritmo del suo respiro, per tutta la notte. Fu una notte troppo breve però, a malincuore la donna corse sulla collina rischiando di farsi sorprendere dall'alba
Quando il poeta si svegliò il sole era già alto e la sua ninfa era scomparsa, forse per sempre. Non si sarebbero più incontrati infatti. La fanciulla vagò notte dopo notte, sempre più disperata, tra i boschi di castagno e attorno al torrente, in cerca del suo amore. Questo, ingenuamente, aveva confidato la sua unione al villaggio che lo aveva esiliato considerando la sua consorte un demonio e lui un dannato che avrebbe attirato su tutti loro il rancore degli dei... ma lei questo non poteva saperlo, non poteva nemmno immaginare le insulse norme umane. Così vagava, ogni notte addolorata chiamando il suo amore, piangendo per quella perdita, per l'abbandono dell'unico uomo che aveva conosciuto, dell'unica cosa che avesse mai amato e desiderato così tanto, dell'unico che l'avesse compresa e protetta, dell'unico che l'avesse posseduta... Piano piano, con il sussegiursi di notti vane e infruttuose nel cercare segni della presenza del poeta iniziò a perdere le speranze.  Conobbe Afflizione.  Affianco a questa era però nata una nuova forza dentro di lei, una forza datale dalla consapevolezza di portare dentro di sè il frutto di quella unione. Ben presto si accorse dei cambiamenti sul suo corpo e si preparò a dare alla luce il suo unico figlio.

Trascorse l'estate, mentre il bimbo cresceva nel grembo della donna la betulla diventava sempre più forte e ora perfino gli uomini del villaggio alzavano gli occhi alla collina per contemplare quel inusuale albero. Passò anche l'autunno e illuminata da un'invernale luna piena la Bianca Betulla conobbe per la prima volta Dolore fisico nel tentativo di dare alla luce suo figlio.

Quest'ultimo mai conobbe il cielo stellato. Naque senza respiro

La madre disperata cullò il bimbo morto ogni notte di quel triste inverno e pianse su di lui tutte le lacrime che aveva fino a seccare. Crollò sotto il peso della neve e a primavera di lei non rimase che un ammasso di rami ripiegati su se stessi. 

Conobbe Disperazione e Tormento. Conobbe Morte. 

La Bianca Betulla diventò così Terra. 

Sulla cima della collina si trovano ora due sorgenti, una di acqua ferrugginosa, rossa come il sangue del figlio che non conobbe Vita e una di acqua salata, come le lacrime disperate della madre che aveva vissuto ed era morta di dolore.

Alcuni vanno sostenendo che la Bianca Betulla non sia mai esistita, altri assennano che sia un'invenzione del poeta che avrebbe scritto questa storia alla sua ombra, altri ancora credono che sia la linfa vitale che scorre nelle nostre vene e che non dobbiamo mai lasciar morire.

 

 

  
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Introspettivo / Vai alla pagina dell'autore: Bricta