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Autore: Schizophrenia    14/07/2011    1 recensioni
Buchenwald,Germania,1943.
"Il lavoro rende liberi".
Per quanto questa frase viene ricordata adesso con disprezzo, collegata ai numerosi campi di sterminio utilizzati ai tempi di Hitler, non è solo al lavoro che si badava. Non è il lavoro che devono affrontare i giovani di questa storia.
Bea Gurtsieva viene dalla Russia ed è comunista, per questo viene portata nel campo di concentramento di Buchenwald e viene affidata all'allora soldato semplice Mark Schreiber.
Mark Schreiber vuole solo andarsene. Mark Schreiber si è arruolato nell'SS sperando di essere mandato in guerra, ma si ritrova lì, con suo padre, con il quale non ha un rapporto esemplare, a gestire il campo di concentramento.
"Forse fu perché Mark non aveva mai visto un corpo così bello; forse fu semplicemente perché lo attirarono i lividi di cui era ricoperta la ragazza... ma il giovane Schreiber venne scosso da brividi profondi al basso ventre, prima di avvertire l'impulso pressante di prenderla, lì, con violenza; pur sapendo chi fosse."
Genere: Romantico, Storico, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Guerre mondiali
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Ragazzi questo capitolo... è un capitolo. xD
Lo so, lo so: ci ho messo tempo ad aggiornare ma sono stata un pochino impegnata. Comunque adesso sono qui è cercherò di aggiornare in modo regolare. Diciamo intorno ai 5-6 giorni per capitolo.
Dovrei decisamente andare a studiare qualcosina, però un paio di minuti ve li dedico, ve li strameritate. *w*
Devo dire che mi ha veramente sorpresa ricevere tante visite per questa fanfic, non pensavo che ci fossero così tante persone, oltre me, a cui interessasse l'argomento di cui tratta.
Vorrei ringraziarvi tutti, davvero *-* Siete fantastici **
Ringrazio poi le persone che hanno inserito la storia tra le seguite:
- Bbw87
- Fairness
- Mareike Tiaycia
- OlandeseVolante
Coloro che la hanno inserita tra le preferite:
- chyo
- Giulss
- kikka23
E infine le due magnifiche ragazze che hanno trovato il tempo di recensire:
- Lizzy_96
- Norine
 
Bene, detto questo, buona lettura, gente. *-*
Schizophrenia.
 
 
 
 
Salviamoci la pelle.
 
 
 
Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
15 Dicembre 1943
6:02
 
Mark Schreiber aveva già visto belle donne, era a conoscenza di quanto fosse effimera la loro bellezza. Il soldato semplice aveva già conosciuto l'ebrezza che si prova al momento del piacere; ma il giovane Schreiber non aveva mai provato affetto o compassione per una donna. Per lui, donna era solo sinonimo di "oggetto sessuale", nel migliore dei casi, ed "intralcio", in tutti gli altri.
Suo padre sapeva bene quanto quel compito fosse ingrato non solo per suo figlio, ma per tutti gli arruolati nell'SS. Forse era proprio l'inutilità di quell'incarico, l'umiliazione che può provare un giovane ragazzo armato di fucile e pronto a morire per il suo paese nel vedersi affidata una mocciosetta di non più di sedici anni, ad aver convinto suo padre a scegliere il suo unico figlio come "prescelto". Stava cercando ancora una volta di sottolineare, ma stavolta dinnanzi a tutti quanti, la sua inettitudine.
Odiava quell'uomo dal profondo del suo cuore, e non era assolutamente intenzionato a farsi dare ordini di quel tipo. Che bisogno c'era di badare ad una mocciosetta?! Non sapeva nemmeno il motivo per il quale era lì: probabilmente era ebrea... e allora perché non l'avevano mandata a lavorare come tutti gli altri?!
No, quella ragazzina aveva avuto un trattamento speciale. Era stata portata in casa loro, ai limiti del campo e lui doveva occuparsi del fatto che non scappasse. Non era nemmeno sicuro che le avessero fatto la doccia... magari aveva qualche strana infezione addosso e gliela avrebbe passata: forse suo padre voleva farlo ammalare per toglierlo di mezzo.
Probabilmente era l'odio che nutriva verso il padre a fargli partorire idee simili, ma era visibilmente irritato in quel periodo, persino durante l'allenamento, quella mattina.
L'aveva vista solo la sera prima, per poi farla chiudere a chiave nella stanza che suo padre aveva fatto preparare per lei. Già, la sera prima. Quella ragazzina aveva l'aria più insolente che il ragazzo avesse mai visto.
Il soldato rifletteva, mentre si avvicinava all'aria di addestramento dell'SS.
Forse avrebbe dovuto controllare quella ragazza. Il suo dovere di soldato glielo imponeva, ma la sua mente gli impediva di fare qualunque cosa fosse stato ordinato lui dal padre. Odiava quell'uomo per come lo trattava e per tutto quello che faceva. Prima, prima che lei morisse però, era tutto diverso. Quanto gli mancava; ma non doveva pensarci. Ricordava quel periodo e non era stato affatto bello.
Era ancora indeciso. Andare o non andar a controllare davvero la mocciosetta arrivata da solo-Dio-sa-dove e ubbidire agli ordini, oppure far scappare la suddetta mocciosetta in modo da far arrabbiare suo padre? Difficile, molto difficile.
Ci meditò tutto il giorno, mentre si allenava.
Aveva adorato l'addestramento da quando era ancora un semplice allievo milite, e non sapeva neanche se sarebbe diventato un allievo ufficiale. Lo aiutava a scaricarsi e a migliorare il suo corpo, senza dar peso a tutto quello che succedeva intorno a lui. Senza dar peso a quelle persone che venivano uccise solo perché non appartenenti alla sua razza. L'allenamento gli faceva dimenticare persino suo padre... quindi, era assolutamente la cosa migliore che fosse mai capitata a Mark Schreiber in tutta la sua vita. Il soldato, in quel momento, però, avrebbe dato la vita per essere mandato su un fronte.
Ci rimuginò parecchio, arrivano ad una conclusione: forse, se si fosse dimostrato abile, rispettoso dei suoi superiori e pronto ad eseguire gli ordini, lo avrebbero promosso e mandato di certo con qualche truppa a combattere. Lontano da Buchenwald.
Presa questa decisione, Mark passò il resto della mattina concentrandosi sul suo corpo e di come reagiva ai duri allenamenti ed esercizi ai quali si sottoponeva ogni giorno. Anche dopo il normale allenamento insieme a tutti gli altri soldati, infatti, il ragazzo restava sempre almeno un paio d'ore ad allenarsi in completa solitudine, lasciando che la sua mente si svuotasse.
 
 
Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
15 Dicembre 1943
18:46
 
Bea Gurtsieva era seduta sul letto, uno dei pochi mobili che arredava la stanza nella quale si trovava. A parte quello c'era un tavolino con sopra una lanterna e un armadio davvero in pessime condizioni; contenente qualche vestito vecchio e troppo largo per il suo esile corpo.
La ragazza se ne stava lì, ferma e immobile: osservava la finestra, piccola e troppo in alto, sebbene non pesasse più di 43 kg, non ci sarebbe mai passata; di lì a stento ci passava l'ossigeno che riusciva a respirare. Certo, sempre che si potesse considerare ossigeno ciò che inalava. Odorava molto più di sporco, terreno, umido e... bruciato.
Non sapeva esattamente cosa succedesse in quel luogo. Suo padre gli aveva parlato molto dei lager, ma non si era mai preoccupata più di tanto: la sua famiglia era sempre stata protetta. Suo padre era un Colonnello Generale dell'Amata Rossa e poi, anche in quel momento; era lì e non sapeva, per giunta, il motivo per il quale ci era finita? Perché comunista? Forse, questo suo padre glielo aveva detto: "Sono posti orribili. Ci portano chiunque sia diverso da loro e da loro ritenuto sbagliato. Ebrei, comunisti, invalidi, omosessuali e via dicendo".
Eppure c'era ancora qualcosa che non quadrava, per Bea. La ragazza non brillava certo dell'intelligenza di cui era dotato Einstein, però aveva ricevuto anch'ella una certa cultura, nonostante la giovane età; e sapeva che se fosse stata una prigioniera comunque, come tutti gli altri, l'avrebbero portata in quelle camere e le avrebbero dato uno di quei completi con le sottili righe verticali, probabilmente le avrebbero anche tagliato tutti i capelli come aveva visto qualche persona nel campo.
Invece no. Della sera prima ricordava ben poco. Ricordava tutto in modo così confuso. Probabilmente era dovuto al fatto che aveva passato tanto tempo in un treno dove c'era pochissimo spazio. Senza mangiare, né tanto meno bere. Aveva sentito il tanfo delle feci altrui e delle sue. Aveva visto anche delle persone morire, visto i loro corpi rimanere lì, in quei vagoni-merci. Erano stati dei giorni orribili.
Appena scesa dal treno, invece, un uomo la aveva afferrata in malo modo, trascinandola via dalla massa di gente che veniva fatta spogliare, sotto la neve tedesca di Dicembre e portata in delle stanze. Bea non aveva idea di cosa sarebbe successo loro, aveva però visto com'erano le persone che già c'erano, prima del loro arrivo, e temeva che quello sarebbe stato anche il suo destino.
Subito dopo aveva sentito delle voci; ma non vedeva bene le sagome di quelle persone: aveva la vista offuscata; era stanchissima. Le era stato chiesto qualcosa in tedesco: lei il tedesco lo conosceva, lo aveva studiato, ma le girava la testa e non riusciva a dire niente. L'avevano picchiata, ricordava, ogni volta che non parlava o rispondeva in russo. A Bea mancava l'accento russo, forse perché suo padre era di origini italiane e non aveva quell'accetto, o forse perché nelle donne era sempre stato più dolce e lieve.
In fine, era stata chiusa a chiave in una stanza, in quella stanza. Aveva talmente tanto sonno, era talmente stanca e priva di forze che si era addormentata subito. Sì, si era addormentata subito, ma il suo non era stato un sonno benefico. Quel tempo passato a dormire, al suo risveglio, era riuscito soltanto a metterle ancora più ansia addosso.
Non aveva più visto nessuno, dalla sera prima e stava iniziando ad avere paura, ma non l'avrebbe dimostrata a quei bastardi dei nazisti. Non sapeva perché l'avevano portata lì, riservandole un destino diverso da quello di tutti gli altri deportati, ma sicuramente non era nulla di buono, e la paura avrebbe soltanto fatto alimentare il loro potere su di lei.
Bea si alzò dal letto, iniziando a camminare in tondo per la stanza: fare qualcosa... fare qualcosa... tentare di fuggire sarebbe stato sicuramente un suicido, altrimenti le sarebbero giunte notizie di comunisti che ce l'avevano fatta. Forse avrebbe tentato ma non in quel momento: era troppo debole e il sonno leggero di quella notte non l'aveva di certo aiutata a ritrovare le energie perse.
Doveva decidere cosa fare, non che fosse una cosa facile: non sembravano esserci possibilità di fuga; né tanto meno di scappare in altro modo da tutto quello.
Bea Gurtsieva non aveva assolutamente idea di ciò che doveva fare per sopravvivere, ma decise ugualmente di affrontare quell'inferno, anche se forse volevano ucciderla: non aveva ancora visto un po' di pane o un goccio d'acqua da quando i soldati dell'SS la avevano portata su quel treno.
Eppure, nonostante tutto, lei sapeva che non sarebbe morta lì.
 
 
 
Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
17 Dicembre 1943
22:01
 
Mark aveva passato due interi giorni a chiedersi se la decisione da lui presa fosse quella giusta. Ancora non si era fatto vivo nella camera della ragazza: l'orgoglio era troppo grande, non voleva ubbidire a suo padre; ma forse era l'unico modo per riuscire ad allontanarsi da lui, quindi un tentativo doveva pur farlo.
Il ragazzo sentii bussare alla porta della sua camera e scattò in piedi: si illuminò quando si trovò davanti Walter, << Ehi, ciao. A cosa devo questa visita? >> chiese, in tono ironico; ma era felice di vederlo. Walter Hoffmann era in assoluto l'unica persona che avesse mai desiderato vedere da quando lei era morta; soprattutto in momenti difficili come quello, ma Mark non sapeva che, senza neanche saperlo, Walter stava per dargli una mano a prendere una delle decisioni più difficili della sua vita.
Il giovane Hoffmann aveva l'aria triste, << Ehilà >>, salutò a sua volta l'amico, entrando nella sua camera. Era sempre triste quando entrava a Buchenwald e vedeva tutti i deportati: nessuno si meritava un trattamento simile, nemmeno il peggiore dei criminali: come facevano Mark e suo padre a trovare giusto tutto quello che stava succedendo? Certo, Walter non voleva certo che si mettessero contro Hitler, ma trovava impossibile condividere le idee di quel dittatore.
Il soldato Schreiber tuttavia non smise di sorridere e richiuse la porta alle spalle del suo migliore amico, << Non ti sto cacciando, Walter, lo sai che non lo farei mai e tanto meno voglio essere scortese con te... ma che ci fai qui a quest'ora? >> chiese ancora, raggiungendo l'amico che era andato a sedersi sul letto e spostando la sedia da vicino alla scrivania, sedendocisi sopra.
<< Sai che papà è medico in questo campo, no? >> gli chiese l'amico.
Mark annuii, senza interromperlo: come avrebbe potuto dimenticarlo?! Il padre di Walter era un medico dell'SS, curava i soldati feriti di ritorno dalle battaglie e da poco era stato spostato dal fronte al loro campo di concentramento, anche se viveva ancora a Weimar con la sua famiglia. Nel campo il signor Hoffmann curava gli ebrei, ma non era come gli altri medici: lui li curva davvero, senza fare esperimenti su di loro e senza ucciderli con qualche intervento rischioso. A volte portava anche del materiale comprato da lui, per curarli; Mark non credeva fosse poi tanto legale e che il medico potesse farlo ma non aveva mai detto niente: sia perché era il padre del suo migliore amico, sia perché non capiva perché ci tenesse tanto a curare quegli uomini che, come sapevano tutti, sarebbero morti lo stesso. Quindi che senso aveva darsi tante pene per loro?
Inoltre Mark vedeva il signor Hoffmann un po' come il padre che non aveva mai avuto.
Il solato ricordava quando andava a scuola, alle elementari, con Walter, a Berlino e il suo migliore amico diceva al padre di aver preso u buon voto. Ricordava il sorriso caloroso che il padre rivolgeva al figlio, tutto contento, prima di abbracciarlo... e poi sorrideva anche a lui, chiedendogli: "Invece a te com'è andata la giornata a scuola, eh, Mark?"
Suo padre non gli aveva mai chiesto com'era andata a scuola.
<< Bene, oggi tuo padre gli ha dato un compito strano... ha dovuto visitare una ragazza. Occhi verdi, capelli scuri... non è sicuro sia una deportata, mio padre. Ce ne ha parlato oggi a cena >> continuò Walter.
Mark ormai aveva capito che si trattava nella ragazzina chiusa nella stanza alla fine del corridoio. Forse era bene ascoltare Walter in quel momento: quella mocciosetta poteva avere qualche malattia altamente contagiosa. Il soldato conosceva abbastanza bene il suo migliore amico però da sapere che il ragazzo era perfettamente a conoscenza della persona di cui stava parlando, ma non voleva dare l'impressione di sapere troppo.
<< Comunque sembra abbastanza in salute. In treno non ha contratto malattie, però non si nutre da giorni. E' sfinita >> concluse il suo migliore amico.
Il soldato lo guardò stupito: quindi nessuno le stava portando da mangiare? Già, in fondo perché avrebbero dovuto... era soltanto una deportata e lui l'aveva fatta chiudere a chiave nella sua stanza: non poteva neanche uscire per andare a fare la fila come tutti gli altri ebrei e quant'altro che lavoravano nel campo. D'accordo, alla fine non gli interessava per niente della ragazzina in sé, ma lei rappresentava l'opportunità che aveva di farsi promuovere e di andarsene il prima possibile da quel campo e da suo padre. Non poteva decidere di morire proprio quando gli serviva.
<< Beh, nessuno qui al campo è nutrito come si deve, Walter, comunque ne parlerò a mio padre >> rispose Mark,fingendo indifferenza.
Desiderava davvero molto andarsene da quel posto, tanto da mentire al suo migliore amico: non lo aveva mai fatto in vita sua e di certo non aveva in programma di iniziare quella sera, così, per una ragazzina che non mangiava -o, peggio, che decideva di non mangiare-, né tanto meno bere, andando così incontro a morte certa. Già, era altamente stupida, ma in quel momento al giovane Schreiber quella ragazzina altamente stupida serviva per scappare da quel campo.
 
 
Campo di sterminio di Buchenwald, Germania.
18 Dicembre 1943
23:01
 
Al soldato era servito un altro giorno per prendere una decisione quantomeno ragionevole. Alla fine aveva deciso di obbedire a suo padre, sebbene il suo orgoglio se risentisse.
Passò a prendere un po' di zuppa dalle cucine. La sua visita era unicamente a scopo di tenerla in vita, non sana, ma quanto meno capace di testimoniare, con la sua presenza, quanto il ragazzo fosse un ottimo soldato e, quindi, pronto ad andare in battaglia come tutti gli altri. Forse sarebbe servito a poco, ma valeva la pena tentare.
Il giovane Schreiber percorse frettolosamente i corridoi: non aveva mai parlato con un deportato prima di quel momento. A volte lì vedeva, passando per il campo, ma non si era mai fermato a salutarne uno o a dirgli qualcosa: che senso avrebbe avuto?
A lui, tutti quei prigionieri, neanche interessavano. Lui voleva solo fare carriera, ovviamente. Non gli interessa di quell'inutile razza richiusa lì dentro; non era affar suo. Gli avevano insegnato che quello era l'unico metodo plausibile. Gli era stato insegnato che Soluzione Finale era l'unico modo nel quale la razza ariana poteva assicurarsi rispetto e sottomissione da tutte le altre.
Oltre Walter e il padre di quest'ultimo, non aveva mai parlato con qualcuno di opinione diversa, ne tanto meno ascoltato le lamentele di uno di loro. Non si era mai fermato ad osservare un bambino, sporco di fuliggine, costretto a lavorare: sapeva che quello stesso bambino entro un paio di giorni sarebbe morto.
Si fermò davanti alla porta della ragazzina, indeciso se bussare o meno: cos'era giusto fare?
Sbuffò, spazientito. Non credeva che l'incontro con una persona tanto inutile potesse far crescere in lui tanta ansia.
Aprì la porta velocemente: quella era casa sua, non aveva bisogno di bussare, soprattutto non per annunciare il suo arrivo a una... come lei. Richiuse altrettanto velocemente la porta: non voleva rischiare che la mocciosa tentasse uno stupido tentativo di fuga. Non gli andava di sprecare proiettili per una donna.
La ragazza alzò gli occhi verso di lui.
Mark Schreiber aveva avuto tante ragazze, più che ragazze amiche di letto; ma mai aveva visto degli occhi come quelli. Il ragazzo non era stupido: lei non aveva paura.
Gli occhi erano verdi accesi, canzonatori. Sembravano solo... stanchi. Erano gli occhi di chi ancora sperava; di chi non era stato ancora annientato psicologicamente, come il resto dei deportati nel campo.
Era una sua impressione o quegli stessi occhi stavano... ridendo di lui?
Gli occhi cioccolato del giovane soldato erano freddi, in quel momento. Lui doveva essere un buon soldato e il suo ordine era di essere il carceriere di quella ragazza. Un carceriere non trattava bene quella che era solo merce di scarto o, se andava bene, di convenienza.
La ragazza si scostò una ciocca di capelli corvini dietro l'orecchio, osservando il ragazzo in divisa da capo a piedi: era imponente, certo, e aveva l'aria cattiva.
Il soldato Schreiber non poteva restare lì, senza fare nulla. Ormai era entrato in quella stanza e doveva rompere quella specie di bolla che sembrava proteggerla. << Mangia >> disse, posando a terra, accanto ai suoi piedi, la ciotola con la zuppa.
Bea Gurtsieva guardò prima la zuppa e poi di nuovo lui. Stavolta il ragazzo non aveva dubbi: lo stava decisamente prendendo in giro. << E' un ordine? >> chiese, e nessuno gli aveva mai rivolto quel tono ironico, eccetto Walter.
Mark la fulminò con lo sguardo. << Sì >>, rispose telegrafico. Era ovvio che lo fosse. Non pensava avrebbe mai visto qualcuno disposto a deriderlo, o a mettere in dubbio un suo comando; quando era così chiaro, poi!
La russa scrollò le spalle. Stava sorridendo.
Il ragazzo si ritrovò a chiedersi a lungo, anche anni dopo quel giorno, come si potesse sorridere quando costretti in un lager, con occhiaie profonde, senza scelta e senza possibilità possibilità neanche di vedere la luce. Certo, per adesso era viva... ma come poteva essere allegra? Come poteva essere allegra lei, in un lager di cui era prigioniera, e lui era così... insoddisfatto?
Forse era semplicemente pazza.
<< Voi nazisti siete sempre così asociali? >> quella domanda gli era stata rivolta in modo così innocente che fu tentato dal desiderio di chiederle quanti anni avesse: cinque o sei? Sapeva che probabilmente aveva appena qualche anno in meno di lui... allora dov'era finita tutta la sua innocenza, quando nel viso della ragazza sembrava così... palese?
Invece si limitò a guardarla male, come era giusto che facesse. << Solo con chi non riteniamo degno di parlarci >> fu la sua risposta, fredda come una lama di ghiaccio puro.
Mark Schreiber ebbe la tentazione di prendere la pistola quando gli occhi verdi della ragazza si fissarono nei suoi. Stavano cercando qualcosa dentro di lui, perché nessuno lo aveva mai guardato in quel modo, come se non fosse poi così privo d'interesse; e al giovane Schreiber non piacevano quegli sguardi.
Poi la ragazza si alzò dal letto su cui sedeva. Era una bella ragazza, sicuramente, ma non aveva nulla di nemmeno lontanamente simile ad una ragazza tedesca.
Gli si avvicinò e gli porse la mano, << Bea Gurtsieva >> disse, facendo una cosa così strana nei confronti del suo nemico che Mark non poté non sfiorare quelle dita nivee e piccole, con le proprie.
<< Mark Schreiber >>
 
 
Con questa foto di pura gioia,
e di un bambino con la sua pistola
che spara dritto, davanti a sé.
A quello che non c'è.
[Quello che non c'è, Afterhours]
   
 
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