A J.
La mia persona, il mio migliore amico.
La mia vita è una somma più o meno infinita di ridicoli clichet. No, dico sul serio.
Clichet numero uno: sono innamorata di un ragazzo
che non mi guarderà mai.
Clichet numero due: si da il caso che sia, guarda un
po’, il mio migliore amico.
Clichet numero tre: sono finita a letto con il suo migliore amico, per puro sbaglio,
una calda notte di Ferragosto in cui ero talmente ubriaca da essere andata a
chiedere ad un tizio vestito da leone perché avesse ucciso Mufasa. Traumi infantili, sapete com’è.
Fatto che sta che quando mi svegliai mezza nuda, mezza congelata e
completamente insabbiata di fianco a lui con ancora la maschera da Zorro mezza
storta sul naso, compresi di aver davvero toccato il fondo.
Ma per capire meglio dobbiamo fare qualche passo indietro.
*
20
ore prima
- Viola, smettila.
La vocina irritante di Emanuela mi giunge da lontano, quasi ovattata.
- Di fare cosa? – chiedo svogliata, rigirando con la cannuccia verde la
granita nel mio bicchiere di plastica, ormai quasi completamente sciolta.
In risposta mi arriva uno sguardo di tutto rispetto, uno di quelli che ti fanno
dire “Ehi, wow, questa ce l’ha davvero con me”.
Sospiro appena, riavviandomi una ciocca nera sfuggita alla treccia dietro
l’orecchio e concentrando finalmente la mia attenzione sulla ragazza
seduta al mio fianco, su quelle sedie di stoffa dei baretti
sulla spiaggia.
- Non faccio apposta.
- Senza dubbio, ma lo stai guardando come fosse un pasticcino alla crema.
L’ironia della mia amica è sempre un toccasana, in momenti come
questi: ti da giusto quella spintarella in più verso il baratro della
più nera disperazione.
Mi rabbuio, scoccando un’ultima occhiata all’oggetto della mia
contemplazione, impegnato a giocare a calcio sul bagnasciuga e ignaro di tutto,
felice e beato.
Pietro e la sua ingenuità
disarmante.
- Cosa dovrei fare, sentiamo? – la frustrazione è palese, mentre
fisso Emanuela esasperata – Andare lì e dirgli “Ciao,
guarda, ti ricordi di me? La tua migliore amica? Ecco sì, io ti amo
ancora”?
- No, ma potrebbe essere un buon inizio.
La fisso stralunata, mentre sorseggia come nulla fosse la sua lattina di cola,
come se avesse appena detto la cosa più ovvia e scontata
dell’universo.
Ok, certo: è davvero la cosa
più ovvia e scontata dell’universo, ma non potrebbe mai
funzionare. Non in questo caso. Vedete, io e Pietro siamo amici più o
meno da sempre, o per lo meno da quando riesco a ricordare. Sì sì, lo so, la classica storiellina di “Lei ama lui ma lui non lo capisce”,
che probabilmente avviene dalla notte dei tempi. O forse all’epoca dei
primitivi era tutto più semplice, io con la mia donna e la mia caverna,
tu con il tuo campicello e i tuoi figli pidocchiosi. I rapporti umani erano
molto più semplici all’epoca, quando per corteggiare qualcuno ti
bastava andare lì e trascinarlo per i capelli.
Dicevo, prima di perdermi in digressioni storiografiche: ci abbiamo provato.
Certo, c’è stato quel periodo della nostra amicizia in cui abbiamo
sperimentato cosa vuol dire “stare insieme” in tutti i sensi, sesso
e affini ad una relazione vera e propria. Ci sono state belle parole, parole
sincere. Quelle parole, insomma,
quelle che per pronunciarle ci metti una vita e poi ti sembra la cosa
più facile da dire. Ci sono stati progetti di vita, di casa, di
condivisione della libreria.
Ma poi, tutto sparito. Un giorno, praticamente dal nulla, si presentò da
me con un discorsetto confuso e stralunato su quanto fosse cambiata la
situazione, sulle nostre divergenze insanabili, sull’affetto che ci
legava ma che forse era solo quello, un bene dell’anima e stop.
Lì ho capito cosa vuol dire davvero farsi spezzare il cuore.
E così abbiamo continuato a vederci come prima, a “stare
insieme” ma non in quel senso, ad essere due carissimi amici che
condividono praticamente ogni aspetto della loro vita. Senza essere innamorati.
Per lo meno, lui non lo è più; lentamente si è lasciato
scivolare addosso questo sentimento, l’ha chiuso da qualche parte in un
cassetto polveroso etichettato “Esperienze di Vita”, un cassetto
che apre ogni tanto e guarda con affetto a bei periodi della sua vita.
Ecco, io no.
Io sono ancora qui, dopo quattro mesi, a ventidue anni, a chiedermi
perché diavolo non abbia anch’io un cassetto così, da
stipare di questi sciocchi sentimenti che eviterei volentieri di provare,
sentendomi sempre più patetica e innamorata ogni giorno di più.
Credo di funzionare al contrario, rispetto alle persone normali.
- Viola, ci sei?
Emanuela mi riporta alla realtà, passandomi educatamente una mano
davanti agli occhi.
Scuoto il capo tornando alla realtà, un caldissimo ferragosto sul
litorale di Rimini, in vacanza con il succitato Pietro, la mia consulente
fidata Emanuela e un altro gruppetto di gente.
- Sì… Certo. – rispondo, svuotando in un sorso la granita
sciolta – Dove sono finiti gli altri?
Lei mi fa un sogghigno sornione.
- Se per altri intendi Pietro,
è andato a farsi un bagno con Carlotta e Giacomo. Riccardo l’ho
perso di vista anch’io.
Mordicchio con non curanza la cannuccia, tentando di far finta di niente;
inutile, il mostro verde della gelosia mi dilania lo stomaco senza tregua. Un
altro aspetto davvero irritante della questione è che sono gelosa come
una ragazzina, mentre lui ovviamente non mi deve niente e fa quello che vuole,
com’è giusto che sia. Ma io continuo a sostenere che il mio karma
mi odi e che nella mia vita passata devo aver di sicuro combinato qualcosa di
molto, molto brutto per meritarmi tutto questo.
- Violetta!
Mi arriva una pacca così forte sulla schiena che per poco non ingoio la
cannuccia. Sento Emanuela ridere senza ritegno, mentre avvampo sotto le
lentiggini e scocco un’occhiata al vetriolo al mio attentatore.
- Ciao Ricky! Viola mi stava appunto chiedendo dov’eri finito. –
saluta la mia amica, travisando completamente il senso della mia richiesta e
dando campo libero a Riccardo per le sue battutine.
- Oh che onore, sentivi la mia mancanza?
Sbatte le ciglia con aria stucchevole, passandosi tronfio una mano tra i
riccioli castani.
- Ti piacerebbe. – è la mia glaciale risposta, mentre torno a
fissare il mare cercando di adocchiare i tre andati a fare il bagno.
Riccardo è il miglior amico di Pietro, credo dal primo momento che
l’ho conosciuto. Sono un pacchetto unico, sempre insieme. Al tempo della
mia storia con Pietro, ci mancava poco che si smezzassero anche la
sottoscritta. L’ho sempre trovato fin troppo pieno di sé, conscio
di essere un bel ragazzo, lui e le sue battutine maliziose su praticamente
qualsiasi cosa, ma in fondo è simpatico. Ed è stato l’unico
che, dopo la fine della relazione amorosa tra me e Pietro, non ha affatto
smesso di trattarmi come prima; detestavo la finta comprensione degli altri del
gruppo, come se da quel momento fossi solo Viola dal Cuore Spezzato, scaricata
dal suo migliore amico e nonostante ciò ancora dietro a lui come un
cagnolino. Credo sia l’unico a capire realmente cosa c’è tra me e il suo migliore amico, qualcosa che
a parole non si riesce a spiegare, ma che Riccardo sempre aver compreso almeno
in parte.
- Allora siete pronte per sta sera, sì?
Torno per l’ennesima volta con i piedi per terra, fissando con aria
assente Riccardo: devo essermi persa qualcosa del discorso.
- Per cosa?
- Ah già che non te l’ho detto! – si scusa la mia amica, scuotendo
una mano come a voler minimizzare la questione – Il Barracuda ha
organizzato una festa in maschera sulla spiaggia per festeggiare Ferragosto.
Ricky annuisce a conferma.
- Già, ho una maschera meravigliosa. Anche Pietro, modestamente è
stata una mia idea…
- Ma io non so come vestirmi! – mi lamento a vuoto, dato che quei due
sono tutti presi a valutare i rispettivi costumi.
Non ho neanche una mezza idea.
- Puoi venire nuda e dipinta di viola, Violetta. – considera Riccardo,
interrompendo la sua discussione – Sarebbe un gran bel vedere. –
conclude facendomi l’occhiolino.
Emanuela, per la seconda volta, scoppia a ridere.
Apro la bocca, indignata, facendo per dire qualcosa di molto offensivo ai danni
di entrambi i miei amici lì presenti, quando anche Pietro e gli altri
due decidono di palesarsi.
Pietro ha un fisico asciutto, non eccessivo, ma non posso fare a meno di seguire
con lo sguardo le gocce capricciose che scendono dai pettorali al bordo del
costume, costeggiando l’ombelico.
Sono veramente indecente.
- Vi, tu da cosa ti vesti?
Alzo gli occhi ad incrociare quelli del mio miglior amico, verdemarroni dico sempre io, color
delle nocciole acerbe. Mi sono sempre piaciuti i suoi occhi. Mi è sempre
piaciuto, soprattutto, quando mi lamentavo dei miei, semplicemente marroni, e
lui mi diceva che avevo uno sguardo splendido, dolce come il cioccolato.
A pensarci ora, mi sento veramente ridicola.
- Sorpresa, vero Viola? Non l’ha voluto dire neanche a me.
Emanuela santa subito, giunta a salvarmi in corner. Così siamo pari,
direi.
Annuisco a conferma delle sue parole.
- Ci vediamo alle nove e mezza al Barracuda, quindi?
Fisso Carlotta, intromessasi nella conversazione. Carlotta è carina, con
i capelli ricci castano chiaro, piccola e minuta. E’ dolce, simpatica,
sempre disponibile con tutti. La conosco dal liceo, era in un’altra
sezione ma ci siamo sempre frequentati molto, tutti noi.
Io la odio, Carlotta.
- Siamo nello stesso albergo e nella stessa camera, non ho capito perché
ci dobbiamo trovare là. – chiedo, senza riuscire a trattenere una
vena sarcastica. Non è certo per mia scelta, ma Emanuela si è
rifiutata di sottostare ai miei “capricci
da bambina piccola, ci devi solo dormire, arrangiati. E poi ci sono
anch’io”. Cito testualmente. Quanto mi vuole bene, vero?
- Perché ho chiesto a Pietro di accompagnarmi a comprare un’ultima
cosa per il mio costume, quindi già che siamo fuori rimaniamo fuori.
– spiega paziente, sorridendo.
La coltellata finale è l’annuire del mio miglior amico.
Probabilmente Giacomo e Riccardo sono più ricettivi di lui, visto che mi
stanno fissando preoccupati, come se dovessi svenire da un momento
all’altro.
Mi costringo a sorridere, ingoiando l’ennesimo boccone amaro.
Non mi deve niente, è giusto
così. Sono io che sono stupida.
- Giusto. Allora a sta sera.
*
8
ore prima
Stringo convulsamente tra le mani il bicchiere di plastica contenente il
secondo cocktail della serata, qualcosa di non ben identificato che non ho
voluto sapere, e mi sento decisamente male.
No, non ho bevuto troppo – anche se pianifico di sbronzarmi fino a
dimenticare come mi chiamo – è solo che sono le dieci e Pietro e
Carlotta non sono ancora arrivati.
Sono qua sulla spiaggia affollata davanti al Barracuda, un bar sempre strapieno
affacciato giusto sulla sabbia, vestita come la cosa più banale del
mondo, ad aspettare inutilmente il mio migliore amico con un groppo alla gola.
Nemmeno la vista di Emanuela vestita da figlia dei fiori che flirta senza
ritegno con Giacomo-Pirata mi esalta più di tanto.
Bevo d’un fiato il fondo del bicchiere, sentendo la botta
dell’alcool salirmi violentemente allo stomaco. Credo che la mia serata
finirà abbracciata al gabinetto della nostra camera d’albergo.
Spero almeno tocchi Carlotta reggermi la fronte.
- Violetta, tutto bene?
Ricky ha uno sguardo sibillino sotto la maschera nera da Zorro, ma colgo un
lampo di apprensione sul fondo dei suoi occhi grigi, quegli occhi che hanno
incantato svariate ragazze, o così dice lui, e che ora stanno fissando
proprio me.
Sospiro, stringendomi nelle spalle.
- Si tira avanti, Ricky, come sempre. – scuoto il bicchiere vuoto –
Se me ne offrissi un altro magari starei un po’ meglio.
Lui ridacchia, accennando un inchino teatrale e facendosi da parte.
- Le faccio strada, miss gattina.
Ve l’avevo detto che era la cosa più banale al mondo. Un paio di
orecchie, quattro baffi disegnati, canottiera e shorts neri. Con il poco
preavviso e la poca voglia, non ho avuto idee brillanti. E la proposta di
Emanuela di vestirmi da Marie Antoinette mi è
sembrata decisamente troppo impegnativa.
Mentre seguo Riccardo, sgomitando tra la folla, scorgo con la coda
dell’occhio la sagoma di Pietro appena arrivato, che pare vestito da
militare. Spinge delicatamente Carlotta, una leggera pressione della mano sulla
sua schiena nuda, poco sotto due trasparenti ali da fatina. Quel semplice,
innocuo contatto mi manda in fiamme il cervello.
- Ricky, offrimelo doppio, ti va?
Lui inarca perplesso un sopracciglio, ignaro della scena a cui ho appena
assistito.
- Certo… Viola, davvero, stai bene?
No, per niente.
- Con lo stomaco pieno d’alcool starò meglio.
*
4
ore e mezza prima
Come un essere umano può ridursi a livelli di dignità
praticamente inesistenti.
Ho perso il conto di quanti cocktail Riccardo mi ha offerto, forse per lenire
le mie pene, forse perché anche lui ha cominciato ad essere bello brillo
dalle parti del terzo mojito e non si rendeva conto
di spingermi lentamente verso il coma etilico.
Ora è sparito, balla come un pazzo assieme ad Emanuela e Giacomo. Credo
di aver intravisto anche Carlotta con loro, così carina con quel vestito
da fatina. E io rimango qui, seduta sui gradini del bar, piedi scalzi nella
sabbia, un bicchiere di plastica pieno di ghiaccio sciolto in mano.
Quanto mi manca Pietro. Mi manca il modo in cui mi toccava, in cui mi baciava,
quando mi poggiava la mano sulla schiena proprio come faceva prima con
Carlotta. Mi manca il poterlo chiamare “mio”, il pensare a come
sarà il nostro futuro insieme, il giorno in cui mi aveva disegnato su un
foglio spiegazzato la piantina della casa in cui saremmo andati a convivere,
quando entrambi ci saremmo laureati e saremmo stati indipendenti. Mi manca
l’idea di me e lui insieme. Mi manca lui.
Mi manca così tanto che senza neanche accorgermene mi metto a piangere,
silenziosa, lacrime che sbavano i baffi da gatta disegnati sulla guance a
matita nera.
- Viola?
Parli del diavolo, ed eccolo qui.
Alzo lo sguardo annacquato, asciugandomi in tutta fretta le lacrime, e fisso il
mio migliore amico, in piedi davanti a me.
- Stai bene? – chiede con cautela. E’ forse la decima volta che mi
viene posta questa domanda questa sera, ma a quanto pare lui è
esattamente la persona che non doveva farmela.
- No. – mugugno, prima di scoppiare a piangere senza ritegno,
singhiozzando lì, in mezzo alla gente che balla, ride, si diverte.
Ottengo solo occhiate perplesse e preoccupate.
Pietro sospira, tirandomi in piedi con delicatezza e sostenendomi.
- Andiamo a fare una passeggiata, vieni…
Tiro su col naso, passandomi una mano sotto gli occhi e annuendo appena, mentre
lo seguo con passo malfermo, il suo braccio saldamente piantato attorno alla
mia vita mentre ci allontaniamo piano piano, verso la
spiaggia libera lì accanto, buia e silenziosa. Solamente l’eco
della musica proveniente dal Barracuda rompe il silenzio, lo sciabordio del
mare ha quasi un effetto calmante.
Respiro a fondo, sedendomi sulla sabbia aiutata da Pietro, che si siede accanto
a me.
Passano minuti di profondo silenzio, in cui io mi limito a fissare davanti a me
per riprendere il controllo e lui mi accarezza dolcemente la schiena, come fa
sempre quando sono agitata per qualcosa.
E’ questo, proprio lui, il mio
Pietro.
Sospiro, facendomi forza e ricambiando il suo sguardo.
- Grazie.
- E di cosa?
- Di… – mi stringo nelle spalle, non sapendo bene come dirlo.
– Di tutto, in realtà. Di questo.
Lui si limita a stare zitto e fissarmi, e il modo in cui lo sta facendo non mi
piace per niente. O per lo meno, mi piace eccome, ma sarebbe tutto sbagliato,
farebbe troppo male.
- Sono troppo ubriaca, devo andare. – borbotto, facendo per alzarmi, ma
le gambe sono malferme e finisco per piombare mezza seduta nel suo grembo. Mi
agito a disagio, facendo per spostarmi, quando le sue mani si piantano
saldamente sui miei fianchi.
Non riesco a fissarlo negli occhi, lo sguardo saldamente piantata sulla
maglietta a fantasia militare.
Se mi bacia adesso sarà ancora peggio.
- Vi, mi dispiace che tu stia così… - mormora, non sapendo bene da
che parte cominciare probabilmente, i pollici che carezzano piano la striscia
di pelle scoperta sopra la cintura dei miei pantaloncini. – E’
tutta colpa mia.
- Sì bè, direi che è un
po’ tardi per questo discorso, Pietro.
Quando sono ubriaca il sarcasmo non riesco a controllarlo. Lui ha sempre
detestato questo mio tratto.
Aggrotta appena le sopracciglia.
- L’abbiamo già fatto tante volte, questo discorso.
- Appunto. – taglio corto io, provando nuovamente ad alzarmi. –
E’ a me che dispiace, di darti ancora problemi con i miei comportamenti,
di essere ancora innamorata di te, ma purtroppo non…
Non faccio in tempo a finire la frase che Pietro poggia le sue labbra sulle
mie, d’improvviso. Chiaramente non è in sé, altrimenti non mi
avrebbe mai baciata. Non più, almeno.
Dio, da quanto non mi baciava
così…
Qualcosa dentro di me scatta violentemente, un misto di rabbia e disperazione,
prima di spingerlo via con fermezza e alzarmi, finalmente.
Lui mi guarda, spaesato, come se non capisse bene cosa fosse successo. Come se
non si rendesse conto che, così facendo, mi fa solo stare peggio.
- Non ci provare, Pietro, non adesso.
Il mio tono è ferito e sento le lacrime pizzicarmi nuovamente le ciglia.
No, maledizione, non ancora.
Il mio migliore amico continua a guardarmi, senza sapere cosa fare, forse
troppo ubriaco per sapere appieno cosa stava facendo. E forse domani mattina se
ne sarà già dimenticato.
- Ma… Viola…
- Ti ho detto di no! – esclamo, prima di correre via.
Sto piangendo ancora, il mio livello di patetismo ha ormai raggiunto vette
inenarrabili. Non gli darò la possibilità di compatirmi, non
questa volta.
Non mi rendo neanche conto di dove sto correndo, quando sento lo stomaco
rivoltarsi e ho bisogno di fermarmi ad esprimere tutta la mia “indignazione”
lì, sul bagnasciuga. Ok, mi correggo: questo è ancora più
patetico.
Sdraiata lì, sulla sabbia umida, vorrei che tutto tornasse com’era
prima. Prima che io m’innamorassi di lui, prima di metterci insieme,
prima di fare sesso, prima di pensare ad un futuro diverso per me e per colui che
credevo essere davvero la persona della mia vita. Per me lo rimarrà
sempre, io per lui non credo d’esserlo più.
Mi sento così vuota e insensibile che quasi non mi accorgo della sagoma
malferma che barcolla verso la sottoscritta, per poi lasciarsi cadere al mio
fianco.
- Violetta, credo di aver bevuto troppo. – ridacchia Riccardo, la
maschera da Zorro mezza storta sul naso, la camicia bianca con le maniche
arrotolate sbottonata sul petto, malamente fuori dai pantaloni.
Lo guardo: è bello. E’ davvero bello. E’ simpatico,
strafottente. E’ stato l’unico a fregarsene davvero di me, in
questa ferragosto da dimenticare.
Così, senza pensare, mi ritrovo a poggiare le labbra sulle sue, decisa,
senza davvero aspettarmi una qualche risposta. Mi stacco appena, fissandolo
dubbiosa.
Lui ricambia il mio sguardo, con aria perplessa.
Devo essere un disastro, con i baffi da gatta sbavati sulle guance, i capelli
in disordine e gli occhi rossi di pianto. Per non parlare della nausea
martellante.
Ma quando Riccardo schianta prepotentemente la bocca contro la mia, chiedendo
subito un accesso più intimo, mi rendo conto che non me ne frega niente.
*
E quindi eccoci qui, ore sei di mattina.
Io con il solo pezzo sotto del costume che indossavo sotto i vestiti, Riccardo
sdraiato – o svenuto, spero di no – a pancia in giù, nudo
come mamma l’ha fatto, la camicia bianca gettata casualmente a coprire il
suo lato b. Se non ci denunciano per atti osceni in luogo pubblico è un
miracolo.
Mi porto una mano alla bocca, inorridita, incapace di fare qualsiasi cosa che
non sia fissare Ricky e chiedermi che cazzo ho combinato. In realtà
nella mia testa sta avvenendo un dialogo molto più scurrile di questo,
ma forse è meglio sorvolare.
Quando adocchio il succhiotto viola che quasi certamente, al momento non
ricordo, devo avergli lasciato come regalo nell’impeto di questa notte,
reprimo un urletto di disperazione.
E adesso che cosa faccio…
La mia domanda retorica cade nel vuoto quando sento mugugnare il cadavere al
mio fianco, prima che apra gli occhi e si alzi a sedere di botto, incurante di
essere su un spiaggia di Rimini, alle sei del mattino, nudo e con i postumi
della sbornia, e che molto probabilmente a breve passeranno già i primi
mattinieri a correre. E’ già un miracolo che non siano passati.
Oppure l’hanno fatto e hanno già chiamato la polizia. Merda!
- Viola…
La sua voce impastata mi fa sobbalzare, impegnata a pensare ai modi più
tragici in cui questa esperienza si avvia alla sua conclusione. Sospiro,
ricambiando il suo sguardo confuso e sfoderando un sorrisetto sconsolato dal
mio repertorio. Da dove sono riuscita a prenderlo, non lo capirò mai.
- Ehilà.
- Cosa… Che è successo? – borbotta, massaggiandosi il collo
e passandosi le dita tra i riccioli per togliere almeno un po’ di sabbia.
– Mi ricordo che c’eri tu, che…
Si zittisce all’improvviso, notando le mie braccia incrociate a coprire
le mie nudità superiori. Si guarda, sbiancando nel constatare che la sua
situazione è anche peggio. Poi torna a fissarmi, pura disperazione in
fondo ai suoi occhi grigi.
- Oh cazzo.
Le parolacce abbondano, questa mattina.
- Già. - concordo, rassegnata. – E’ proprio come sembra.
- Viola, io… Oh, cazzo.
- Ricky, ho capito il concetto, non è necessario ripeterlo.
Le sue mani corrono ad intrecciarsi ai capelli spettinati, un’espressione
di puro terrore sul suo volto. Ecco, questo mi lascia abbastanza perplessa; so
benissimo che questa notte è stato un madornale errore, ma da qui ad
essere spaventati a morte ce ne vuole. A meno che…
Aggrotto le sopracciglia, l’impeto della furia che comincia a ribollirmi
nello stomaco.
- Riccardo, cosa c’è?
- Io…
Niente, non riesce a formulare una frase di senso compiuto. O l’alcool
gli ha bruciato definitivamente i pochi neuroni rimasti, oppure la questione
è esattamente quella che immagino.
Mi fissa con aria colpevole, scuotendo lievemente la testa. Non ho bisogno di
parole per capire cosa sta cercando di dirmi.
- Bene. – mi alzo in piedi, di botto. – Fantastico. – mastico
tra i denti, infilandomi al contrario la canottiera nera di ieri sera,
insabbiata al massimo. – Fammi la cortesia di non rivolgermi più
la parola, da qui ai prossimi cento anni.
- Andiamo, Violetta, lo sai che…
- E non chiamarmi Violetta, stronzo!
Mentre m’infilo i pantaloni in tutta fretta sento ancora una volta un
groppo alla gola. Spero sia soltanto la rabbia e i postumi della sbronza, non
un altro fiume di lacrime pronto a rendermi nuovamente Viola La Patetica.
- Lo sai che Pietro ti vuole ancora, mi ucciderebbe se sapesse…
- Se sapesse cosa, Riccardo? Cosa?! – ringhio, furibonda, bloccandomi
mentre stavo per andarmene. – Che sto tentando di rifarmi una vita senza
di lui, che sto tentando di dimenticarlo ma che è inutile e quindi
finisco a letto con un cretino come te?
Sbuffo amaramente, riavviandomi il ciuffo insabbiato di capelli neri dalla
fronte.
- A volte vorrei solamente che finisse tutto. Tutto quanto. – considero,
mentre Ricky mi ascolta in silenzio, senza sapere cosa dire. Poi torno alla
realtà, squadrandolo letteralmente dall’alto in basso. – Lo
sappiamo tutti e due che questa notte è stato un errore. Avrei solamente
voluto che non mi considerassi una proprietà del tuo amico.
Apre bocca per ribattere, ma prima che possa dire qualunque cosa corro via,
scalza.
Non voglio sentire più niente. Niente di niente. E’ già la
seconda volta che corro via da qualcuno. Non mi sono mai sentita così
vigliacca in vita mia.
*
- Dove diavolo sei stata?!
Il rimprovero al limite dell’isteria di Emanuela mi accoglie sulla soglia
di camera nostra, appena mi chiudo la porta alle spalle. Sono stravolta, non
credo di poter sopportare una sfuriata dalla mia amica.
- Ema, per favore…
- E cosa ti è successo, per Dio, ti sei rotolata nella sabbia con
qualcuno? – continua lei, imperterrita, squadrandomi da capo a piedi
prima d’interrompersi di botto e costatare che sì, effettivamente
mi sono davvero rotolata con qualcuno sulla spiaggia. La mia espressione
colpevole rende benissimo il concetto. Sento l’acqua della doccia provenire
dal bagno, probabilmente Carlotta sta facendosi la doccia.
Ti prego fai che non ascolti.
- Viola… Dimmi che è uno scherzo. – comincia Emanuela,
cauta, avvicinandosi appena. – Andiamo, l’ho detto così
tanto per dire, non…
- Riccardo.
Lei sbatte le palpebre, non realizzando appieno le mie parole.
- Riccardo cosa?
- Sono andata a letto con Riccardo, sta notte. – sospiro, sfilandomi la
canottiera insabbiata e gettandola a terra incurante, mentre la mascella della
mia amica raggiunge in caduta libera il pavimento. – O per lo meno, sulla
spiaggia. Eravamo ubriachi, io ero triste…
Le parole mi si spengono in gola. Mi rendo conto con orrore di aver appena
aggiunto il quarto clichet alla mia lista: vuote
giustificazioni a colossali cazzate.
Evidentemente Emanuela mi legge nel pensiero, vista l’occhiata di puro
rimprovero che mi sta lanciando.
- Viola. – esordisce lei, mentre io finisco di svestirmi. Non vedo
l’ora di farmi una doccia. – Io sono la prima che ti ha detto di
passarci sopra, di spassartela e amene occupazioni, ma… Riccardo? Sei
diventata scema?!
Quando il suo tono si alza in quel modo c’è seriamente da
preoccuparsi.
Mi siedo sul letto, sprofondando la testa tra le mani. Oltre alla nausea, il
mal di testa mi sta decisamente uccidendo, e le urla isteriche della mia amica
non migliorano certo la situazione. Mentre continua a sciorinare insulti alla
sottoscritta e prove a sostegno di questa teoria, disconnetto il cervello.
Flash della notte prima continuano a solleticarmi il cervello, accompagnati da
laceranti sensi di colpa misti a qualcosa che riconosco essere tristezza.
Profonda tristezza.
- … E inoltre non posso crederci che Riccardo ci sia seriamente stato!
Con tutto quello che tu e Pietro avete passato, non aveva nessun diritto
di…
- Ema? Cosa succede?
Io e Emanuela ci voltiamo di scatto verso la porta del bagno, da dove è
appena uscita Carlotta, gocciolante nel suo accappatoio azzurro e perplessa dal
nostro comportamento.
Mi limito a fissarla, troppo stanca per dare altre spiegazioni, ma a quanto
pare la mia persecutrice del momento decide di parlare anche a mio nome.
- Stavo giusto spiegando a Viola perché la considero un’idiota di
proporzioni bibliche.
- Grazie mille Ema, lo apprezzo. – mastico tra
i denti, scoccandole un’occhiata al vetriolo, che ahimè cade nel
vuoto.
Carlotta non pare capire appieno, mentre si strofina i capelli e annuisce,
quasi a dire “va bene, ne prendo atto, siete completamente andate”.
- Comunque, Viola. – esordisce – Questa mattina è passato
Pietro, sembrava volesse urgentemente parlarti.
Alzo gli occhi al cielo, a metà tra il disperato e l’esasperato,
mentre Emanuela apre la bocca indignata.
- Ehi, dov’ero io? Mica me lo ricordo.
- Eri a colazione, tesoro. – spiega Carlotta, come nulla fosse, sparendo
di nuovo in bagno con i vestiti.
Scende il silenzio in camera, rotto solo dal canticchiare ovattato della
ragazza nel bagno.
Fisso a terra, senza osare alzare lo sguardo sulla mia amica. Mi sento
terribilmente in colpa. E mi sento come se avessi rovinato tutta la situazione,
già precaria di suo. Pietro non vorrà più vedermi,
figurarsi parlare con me.
- Senti, Vi…
Le parole di Ema vengono interrotte nuovamente da
bruschi colpi alla porta della camera. Sospirando, si avvia ad aprire. Si trova
davanti un trafelato Giacomo, che sembra davvero preoccupato per qualcosa.
Mi sporgo verso la porta, tentando di intravederlo dietro la sagoma della mia
amica.
Questa inarca un sopracciglio, curiosa.
- Jack, ciao… Cosa c’è?
- Ecco… Ricky e Pietro si sono picchiati in camera, prima. –
spiega, cercando di non farci prendere un colpo. – Mi chiedevo se aveste
visto Pietro, è sparito e non risponde al cellulare.
Emanuela si porta le mani alla bocca, inorridita. Io sono letteralmente
paralizzata. E’ davvero tutta colpa mia, se quei due sono addirittura
arrivati a picchiarsi.
Mi alzo, raccattando un paio di scarpe e riprendendo da terra la canottiera
insabbiata e infilandomela in tutta fretta; marcio fuori dalla stanza,
scansando i miei due amici.
- Viola, dove vai? – mi urla dietro Emanuela, affacciandosi dallo
stipite.
La ignoro, continuando a camminare. So esattamente dove può essere
andato Pietro.
*
C’è stato un tempo in cui io e Pietro eravamo solo e
soltanto amici. Una vacanza di tanti anni fa, io e lui, prima che cominciasse
tutto quanto, quando ancora lui era il mio grillo parlante ed io la capricciosa
Pinocchio. Avevamo passato tutta la notte sul molo, a guardare il mare e le
navi dei pescatori, a fare a gara a chi si addormentava prima e non si godeva
l’alba. Alla fine c’eravamo addormentati entrambe, una bottiglia di
vodka vuota e la sua felpa sulle mie spalle. C’eravamo svegliati alle
prime luci dell’alba, quando l’orizzonte si era tinto di rosso
fuoco e rosa pesca. Lì ci eravamo promessi solennemente di fare almeno
una notte insieme a vedere l’alba, ogni anno, qualsiasi cosa fosse
successa.
Per questo non sono stupita di trovarlo lì sulla punta di quello stesso
molo, le gambe penzolanti sul mare, a guardare il sole ormai sorto del tutto.
Io ho avuto un’alba decisamente diversa, questa mattina.
Mi faccio coraggio, i sandali che scricchiolano sulle assi di legno mentre
avanzo verso di lui, senza sapere bene cosa fare, cosa dirgli.
Pietro mi fissa appena, con la coda dell’occhio, mentre mi siedo di
fianco a lui, in silenzio. Mi concedo di fissarlo di sottecchi: ha uno zigomo
viola e il labbro tagliato, l’espressione cupa e la maglietta
stropicciata.
Sospiro, dondolando le gambe.
- L’alba di questa mattina meritava. – considero, con voce leggera.
– Mi sarebbe piaciuto vederla con te.
Lui rimane in silenzio per un attimo che mi pare infinito, prima di sbuffare
con aria sarcastica.
- Direi che questa mattina hai avuto tutto un altro tipo di panorama.
La sua voce gronda sarcasmo. Proprio quello che non gli è mai andato a
genio della sottoscritta.
- Te l’ha detto.
- Secondo te? – mi risponde fulmineo, fissandomi finalmente per la prima
volta da quando sono arrivata. Ha le occhiaie e per niente una bella cera. E
c’è una profonda tristezza in quei suoi occhi verdemarroni, bellissimi. Questo
proprio non lo accetto.
- Pietro, non è colpa mia se hai deciso di lasciarmi. – spiego, e
ogni volta che dico ad alta voce queste parole mi suonano estranee, come se non
fossi davvero io a pronunciarle, come se appartassero ad un altro tempo,
un’altra persona. – Mi è concesso provare ad andare avanti,
giusto?
- Sì, ma… Perché Riccardo?
Sembra sinceramente dispiaciuto, incredulo. Mi stringo nelle spalle, pescando
da chissà che recessi della mia mente un discorso sensato e razionale.
- Era lì, come dite sempre voi uomini. Era lì, eravamo ubriachi
ed io ero triste. E’ la seconda volta stamattina che faccio questo
discorso, e mi sembra sempre più uno squallido clichet…
- ridacchio, passandomi una mano sul collo, a disagio. – Ma è la
pura verità. Non c’è un motivo valido.
Il mio migliore amico rimane zitto, assimilando le mie parole e riflettendoci,
probabilmente. Poi sospira e si gira a guardarmi: sento il suo sguardo
giù fino alle viscere e qualcosa mi si contorce in fondo allo stomaco.
Per la prima volta nella mia vita spero vivamente sia ancora la nausea.
- Credevo che volessi me. Che volessi ancora me.
Sorrido, amareggiata.
- Io ti voglio ancora. Tu no, o almeno non in quel senso. – scuoto la
testa, evitando la sua occhiata. – Non m’illudo di poterti
dimenticare, ma almeno permettimi di provarci.
Lui tace, nuovamente. Poi annuisce, con aria quasi solenne, per poi passarmi un
braccio attorno alle spalle e attirarmi a sé, con dolcezza. Sono queste
le cose che so, nel profondo, non cambieranno mai.
Sorrido, poggiandogli la testa sul petto.
- Ti voglio bene Pietro.
Lui mi stringe ancora, una tenerezza quasi dolorosa.
- Anch’io Viola. Sempre.
E almeno questo, lo so, sarà sempre così.
Solo
perché qualcuno non ti ama nel modo in cui tu vuoi che lo faccia,
non vuol dire che non ti voglia bene con tutto ciò che ha.
Paulo Coelho