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Autore: DK_    15/07/2011    0 recensioni
Seifer e Quistis trascorrono una piacevole serata a casa.
Genere: Drammatico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Quistis Trepe, Seifer Almasy
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
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FLY

una fanfiction su Final fantasy VIII

di DK






« Stai diventando un po’ noiosa » dice lui dalla sua sedia reclinabile. Nella stanza buia, la sua voce risuona calma ma animata.
La sigaretta nella sua mano si è bruciata quasi fino al filtro, e quindi la spegne sul bracciolo di velluto macchiato della sedia, trattenendo l’ultimo tiro nei polmoni per un momento prima di liberarlo lentamente.
Lei odia il fumo e lo sanno entrambi, ed è questo il punto.
Però le piace bere, oh sì, e stanotte l’ha attirata al bar con gli altri con quel pretesto, insistendo che sarebbe stato divertente, applicando quella pressione tagliente e falsamente vivace che ha imparato a usare così bene.
Lei ha acconsentito subito; ha imparato quella lezione molto tempo prima che lui la incontrasse, e gli ultimi sei mesi hanno solo rifinito i dettagli.
Un’altra notte come tante passata a bere fino al ticchettio che ha inaugurato l’anno nuovo, per poi barcollare in strade sciamanti di persone, salutando gli altri con commiati stringati, e su di corsa a letto, e poi lontano da lei, la mente che ancora ronza a causa dell’alcol, con il bisogno di parlare e di essere ascoltato, e così le dice che è annoiato, e per un momento lei rimane zitta.
Lui la guarda mentre si stende nuda sul letto, il lenzuolo spiegazzato tra i seni scoperti e i capelli sparpagliati sulla testa in una corona corvina contro la testiera bianca, e gli vengono in mente le mosche che torturava quand’era bambino.
« Non dici sul serio » replica lei.
Cerca di far suonare altezzose quelle parole, ma lui sente la paura vibrarle nella voce, la percepisce dai suoi movimenti nervosi sotto le lenzuola. Ha imparato a leggere le sfumature del linguaggio del corpo e dell’espressione prima della fine del suo primo anno al Garden, e se c’è un’emozione che ha avuto l’opportunità di osservare negli altri è la paura.
Un ricordo remoto danza in un anfratto della sua mente, e ripensa a un raggio di sole che si insinuava da una finestra stretta e illuminava una trapunta azzurra, ripensa alle ali della mosca che, strappate, baluginavano alla sua luce, ripensa al corpicino che si torceva mentre lui trafficava delicatamente con le pinzette, staccando le zampette una per una.
« Invece penso di sì » continua lui.
Vorrebbe fingere una risata, ma il riso basso che emerge dalla sua gola è genuino, e la cosa lo spaventa quasi quanto avrebbe voluto spaventasse lei.
Ormai dovrebbe essere abituato a questa sensazione, dopo tutti questi mesi passati insieme, ma si sente tutto d’un tratto alticcio per un qualcosa che non ha niente a che vedere con il bourbon che hanno tracannato poco fa: sono le vertigini di gioia che lo assalgono quando rigira il coltello nella piaga. « Sai, penso proprio di sì. »
Ricorda ancora i piagnistei che aveva fatto Zell quando aveva scoperto il suo gioco. Il gallinaccio aveva trovato il coraggio di saettare verso di lui per afferrare la piccola cosa mutilata, buttandola fuori dalla finestra, e lui gli aveva dato uno schiaffo, perché era sempre così stupido.
Zell schiacciava quegli stupidi insettucoli milioni di volte al giorno, specialmente se passavano vicino a quello che mangiava, e il danno era già fatto. La mosca sarebbe morta lo stesso.
Ma Zell aveva detto che era diverso farlo in quel modo, farle del male di proposito, e aveva strepitato e strepitato fino a far accorrere la Madre che lo aveva mandato a letto presto per una settimana senza dolci e favole, facendolo ardere di rabbia per l’ingiustizia di tutta quella storia.
Ora però non c’è nessuna Madre a rimproverarlo, e nessuna ragione per fermarsi.
Lei si sposta, le lenzuola scivolano sul suo corpo e rivelano il ventre liscio e piatto e le gambe nude e candide. Un viticcio di luce blu elettrico si trascina su per il suo fianco e fiorisce in una rosa sulla sua guancia, apparendo e scomparendo con l’insegna al neon in strada che si accende e si spegne.
Hanno aperto tutte le finestre dell’appartamentino, ma quello è ancora irretito dall’estate di Balamb; riesce a vedere le gocce di sudore sulla sua pelle che le impomatano i capelli.
La brezza notturna che proviene dalla finestra si accompagna al rumore di un gran vociare, dei fuochi d’artificio, di canzoni ubriache. La celebrazione dell’Anno Nuovo infuria ancora a tutta forza; laggiù ci saranno ragazze che esibiscono il seno, uomini che si affogano in damigiane intere e giovani coppie che scopano come conigli in tutti i vicoli della città, ma chissà se tra loro c’è qualcuno che si sta divertendo quanto lui, che la osserva dimenarsi.
« Dio » borbotta lei, la voce pregna di alcol e disgusto. « Sei un grandissimo stronzo. »
La sua risata è un latrato breve e acuminato.
« Ma non mi dire. C’è qualche altra battutona che vuoi sputarmi addosso già che ci sei? Potrebbe renderti più interessante. »
« Vaffanculo » ribatte lei, ma ora la sua voce è tranquilla, intimidita dalla semplice verità. « È per quello che ha detto lei, non è così? »
Lui non sa neanche a cosa si riferisca, ma si preannuncia una bella svolta alla serata. Resta in ascolto, facendo tendere il silenzio, svolgendo la fune a cui lei si è aggrappata già migliaia di volte. Fuori, gli ubriaconi si lanciano in un crescendo.
Lei incrocia le braccia sul petto come a volersi nascondere da lui, come se non gli darebbe tutto se solo lui glielo chiedesse.
« Fujin, intendo. Al bar, prima. Sei andato a prendere altra roba da bere e lei mi ha detto… »
« Cosa? »
« Ha detto… » E lei si lecca le labbra, assaporando un po’ il momento senza rendersene conto. « Ha detto che la uccideva vederti con una come me. Ha detto che non ti meritavo. »
La risata gorgoglia allo scoperto inaspettatamente, gioiosa, libera.
« Beh, Fuu dice sempre quello che pensa. E tu che hai detto? »
« Ho detto che non erano fatti suoi. Ho detto che tanto non importava quello che pensava, fintanto che a te sarebbe piaciuto stare con me. »
Non arriva mai al nocciolo della questione, pensa lui, e trova buffo anche questo. Non ha ancora capito che discutere con Fujin è superfluo, almeno finché avesse continuato a a tornare a casa con lui ogni notte.
Per un attimo, sente la voce infantile e stridula di Zell dirgli di fermarsi, farebbe meglio a fermarsi immediatamente, ma l’annienta crudelmente.
« Ha ragione lei. »
Lei chiude gli occhi e sobbalza un po’, come se le sue parole l’avessero percossa, e lui si ricorda di quando è affondato nella sconfitta, del marmo freddo del pavimento del Garden di Galbadia sotto la guancia, e poi di quella sola zampetta rotta e buttata via con precisione e perfezione sotto il sole di giugno.
Il regolamento dei conti brucia, vero? Vero?
« Ma non si tratta di questo. Se me ne fosse fregato qualcosa del parere di Fujin non avrei mai manco cominciato a scopare con te. »
« Allora – ma – tu- »
Lei si avvicina, aggrottando la fronte, quasi covando rabbia. La rabbia le è estranea, non l’ha mai compresa del tutto. La rabbia è dura. È energia, fuoco, azione.
Le è incredibilmente più facile piegarsi, assorbire il colpo in un gelido silenzio.
« Perché? Io – io ho fatto tutto quello che avresti mai potuto chiedermi. »
Forse è esattamente questo il problema.
Si ricorda di quando la incontrò in un club qualsiasi di Balamb appestato di fumo in cui era capitato per ammazzare il tempo, uno di quei posti da quattro soldi e pseudo-trendy illuminati da risibili luci al neon a forma di fenicotteri e palme, popolati da bambini con le carte d’identità fasulle e patetici ubriaconi di mezza età. Si era messo a scandagliare la stanza buia con gli occhi ridotti a due fessure alla ricerca di qualcuno che non gli facesse venire i conati di vomito quando aveva visto lei.
Sedeva al bancone da sola e maneggiava con cura il genere di bevanda rosa che poteva piacere solo alle donne e alle checche, giocherellando distrattamente con l’ombrellino, gli occhi immobili nel vetro riflettente oltre il banco.
Indossava un vestito rosso senza spalline, finemente tagliato per mettere in risalto il seno, con uno spacco alto per esporre le gambe, le più raffinate che avesse mai visto.
La squallida luce al neon che brillava da dietro il bancone si tramutava in un alone quando la toccava: le cingeva le braccia in un’aureola rosa, trasformava i suoi capelli in fili d’oro, tracciava delle curve luminose sulle ciglia lunghe.
In quel momento, era stata la donna più bella che avesse mai visto.
In quel momento, aveva pensato di non aver mai odiato tanto qualcuno, neanche Squall quando gli aveva lasciato la cicatrice sul viso, neanche Shu quando aveva riso di lui dopo il suo ultimo esame SeeD fallito, neanche Artemisia quando aveva allegramente punzecchiato e stuzzicato la sua mente come un bambino che si diverte con un animale indifeso.
Anche perché Shu era morta in una benedittissima operazione un mese dopo la fine della guerra, Artemisia probabilmente non era nemmeno nata ancora, e Squall, beh, Squall era innamorato, e quello era il peggior tipo di inferno in terra che riuscisse a immaginare.
Lei, invece, era proprio lì, e sapeva che se non le avesse mandato a puttane quella notte l’avrebbe rimpianto per il tempo a venire.
I suoi amici e i vari pretendenti se n’erano andati da tanto senza di lei, e doveva aver già rifiutato la maggior parte dei ragazzi in sala quando lui scivolò nello sgabello accanto e richiamò la sua attenzione con un paio di colpetti sulla spalla. Un lampo di rabbia le aveva acceso gli occhi, e si era ritratta di scatto.
Ma presto, la prudenza aveva ceduto il posto alla tranquillità, alla gratitudine, e lui aveva capito quanto fosse sola in realtà, e quanto si fossero rivelate vere tutte le battute che aveva escogitato su di lei, e chissà come questo era riuscito ad eccitarlo ancora di più dell’abito che le aderiva addosso, della collana d’oro che luccicava alla sua gola e delle sue labbra rosse.
Il resto della notte è una semplice serie di frammenti che si alternano in chiari e confusi nei suoi ricordi, schegge di un vetro opaco infranto.
Conversazione spicciola, chiacchiere insignificanti.
L’afa dell’estate, il lavoro freelance di cacciatore di mostri di lui, la nuova posizione al Garden di lei. La Guerra Civile di Timber.
Alcol.
La Guerra della Strega. Squall.
Alcol.
Le cose che non erano successe e avrebbero dovuto.
Ancora alcol.
Ora di chiusura.
Casa di lui? La macchina.
Aveva sbattuto i gomiti sul finestrino anteriore, imbarazzata, scivolando goffamente sul sediolino, la bocca esitante sotto la sua ma dolce e zuccherosa per via di tutto quello che aveva bevuto.
L’aveva baciata così forte che i loro denti si erano urtati, le aveva morso il collo, le aveva alzato la gonna, le aveva strappato le mutandine e aveva pensato solo a scoparla con tutta la rabbia che aveva per farle male, farla strillare da morire per farle dimenticare di essere mai stata meglio di lui, anche solo per un secondo.
Per fare così schifo poteva solo essere vergine, ma non sanguinava, e per tutto il tempo non era riuscito a togliersi dalla testa la vecchia barzelletta sulle ragazze del Garden che perdevano l’imene durante l’allenamento.
Chi ha rotto la farfallina della SeeD? L’Archeosaurus!
E dopo, con lei che riposava tremante sul suo petto, aveva saputo dirle solo che era stata orribile. Voleva lo sguardo ferito sul suo volto, la sua collera, la sua umiliazione per essere finita a letto con lui che forse sarebbe stata un decimo di quella che aveva provato lui quando gli avevano tarpato le ali del suo sogno romantico, sfasciando non solo lui, ma tutto quello che aveva sempre pensato di poter diventare.
Nelle sue previsioni avrebbe dovuto essere picchiato o quantomeno insultato, ma invece i suoi occhi azzurri si erano riempiti di lacrime, e aveva cominciato a farfugliare con una nota ubriaca che le dispiaceva, che era la prima volta.
Qualcosa dentro di lui gli diceva che lei dovesse appartenere a quel genere di ubriachi, ma che lei lo sapesse o no sotto c’era dell’altro.
La parte di lui che aveva ancora un briciolo di decenza, che ogni tanto gli rovinava il sonno chiedendogli cosa diamine avesse fatto quando Artemisia si era annidata nel suo cervello, la parte di lui che gli aveva detto di iniziare a pescare, di essere contento di essere ancora vivo, di dimenticare il romanticismo e di concentrarsi un po’ di più sull’olio di gomito, quasi l’amò per questo.
Il resto di lui, rapace, fiero e vendicativo, scorgeva la debolezza nelle sue parole e poteva solo amare le sue ferite.
Le aveva accarezzato i capelli, e aveva pensato alle gocce di miele che lasciava sul davanzale, e aveva capito di averla intrappolata.
Ricorda quella volta che si era messo dietro di lei nel bagno, il lavandino ancora striato dell’economica tintura nera, e l’aveva stretta a sé guardando nello specchio, dove poteva vedere i suoi capelli ormai scuriti sparsi sul volto bagnato di lacrime, certo che lei riconoscesse il loro significato quanto lui anche se non l’avrebbe mai ammesso.
Invece, aveva semplicemente detto, Ecco, adesso va molto meglio.
E lei aveva annuito, e l’avevano fatto proprio lì, e le aveva sbattuto le cosce sulla porcellana così forte da lasciarle lividi per settimane, e i suoi capelli avevano migliorato il tutto, non perché poteva immaginare di essere con Rinoa, ma perché sapeva quanto male le avesse fatto tingerli.
Era ridicolo che lei lo sopportasse, ma questo rendeva soltanto le cose più divertenti.
Avrebbe potuto avere ogni notte dozzine di uomini nel suo letto. Ma l’avrebbero adorata, e lei non avrebbe potuto tollerarlo perché non riusciva a tollerare se stessa.
L’unica attenzione che sembrava comprendere era del genere che lui era così pronto a concederle.
Non c’era da stupirsi che avesse rincorso Squall per tutti quegli anni.
Forse c’entravano qualcosa i suoi genitori adottivi, ma sostanzialmente non gliene fregava abbastanza da chiederglielo; le poche volte che lei aveva provato a balbettare qualche spiegazione, l’aveva zittita rapidamente.
Non era mai stato il tipo di persona che ascolta di buon grado le storie strappalacrime, e di sicuro non avrebbe cominciato con le sue. Soprattutto non quando ne aveva una tutta sua, una abbastanza grande da racchiudere il mondo.
Aveva cercato di essere all’altezza del mondo ed era stato buttato a terra a mangiare la polvere.
Quando aveva provato a impadronirsi del proprio destino era stato abbandonato, calpestato, insultato, e si era guadagnato l’odio di tutta la sua razza.
Non erano riusciti a rispettare il suo desiderio di agguantare il timone del cambiamento, concedendogli solo le decorazioni che l’avevano circondato.
E forse Artemisia era un mostro, e forse aveva fatto qualcosa alla sua testa, e forse se avesse potuto tornare indietro le cose sarebbero state diverse, ma aveva agito con più passione di ogni altro cazzone medio smorto che passa la giornata a rimpinzarsi di televisione e a occuparsi di lavori pallosissimi, e di questo non si sarebbe mai pentito.
Per quello, per aver vissuto, il mondo lo aveva tacciato di mostro prima di rintanarsi a dormire.
La maggior parte della gente non lo conosceva abbastanza da riconoscerlo a vista, ed era probabilmente a questo che doveva la vita, ma il suo nome era mormorato ai bambini come se fosse una specie di uomo nero.
Era il morto vivente, che esisteva solo per via dell’ignoranza, dell’invisibilità.
Non sarebbe mai stato un SeeD. Non avrebbe mai cavalcato il mondo. Non avrebbe mai nemmeno potuto lavorare come accalappiacani a Balamb senza che rivenisse a galla il suo brutto passato.
Era finito. Un invalido, una foglia in un torrente, un idiota che urla nel buio.
Se volevano un mostro, lui gliel’avrebbe dato, e lei l’avrebbe aiutato. Se non poteva rimodellare il mondo a sua immagine, poteva almeno rimodellare lei.
Ma sta diventando un po’ noioso.
Tormentare Zell è stato un passatempo infinito, ma non c’è mai stato paragone col mandare frecciatine a Squall, e all’improvviso ne comprende il motivo.
Zell piangeva sempre o scappava. Squall rimaneva lì e si teneva tutto, ma di tanto in tanto scoppiava e gli si lanciava contro, agitando ferocemente le braccia. Era un’incognita, un rischio, una sfida.
Lei non è nessuna di queste cose. La mosca ha smesso di contorcersi.
I suoi insulti l’hanno perforata e sono diventati parte di lei, non c’è più neanche il bisogno di ricucirla, e non c’è più nessuna sfida: il suo scopo si è esaurito.
« Non fraintendermi. È stato divertente, ma sono un po’ stanco di scopare un sacco da boxe. »
« Non dire così. » Mentre lui pensava, lei l’ha raggiunto. Le sue dita gli strisciano sulle cosce, seguite dal suo respiro. « Non- »
« L’ho già detto. »
« Non dici sul serio. » Il suo è quasi un singhiozzo.
« Ma certo che dico sul serio, cazzo! »
Serra le mani sui suoi capelli e la tira su senza riguardi per guardarla negli occhi, un solo strattone selvaggio che la scaraventa quasi in piedi.
Lei barcolla in avanti, la pelle calda e morbida contro la sua, e a questa vicinanza riesce a sentire il suo odore: dolce, profumato, di sesso. Ha gli occhi spalancati, il respiro rapido, il sangue le palpita in gola.
Non è mai stata così vulnerabile, e lui sente questa consapevolezza scoppiettargli dentro. È solo una scintilla dove prima c’era un braciere, ma è quasi abbastanza da fargliela desiderare ancora.
Poi lei ansima, senza fiato e senza grazia mentre le lacrime le rigano il volto: « Chiamami col suo nome. »
E questa è una cosa che neanche lei gli ha mai offerto prima d’ora, l’ultima, la finale, e sente il bisogno di possederla inondarlo prima di baciarla con tanta durezza da farle uscire sangue.
Non c’è nemmeno il tempo di arrivare al letto; la prende sul pavimento, brutale come sempre, gemendo il nome di un’altra donna mentre le gambe di lei gli cingono la schiena, le unghie gli affondano nelle spalle e i fianchi s’inarcano con impazienza verso i suoi.
La sua bocca è calda, umida, disperata; gli sta donando tutto, il suo corpo, la sua mente, quello che potrebbe passare per un’anima, e lui lo prende senza alcuna cura, ricordando il sapore del proprio sangue, il fuoco negli occhi della strega, il sole radioso che riscaldava il copriletto azzurro.
Il mondo si congela e si frantuma, il piacere s’impossessa di lui in un istante fugace come quello necessario per rompere un bicchiere, e lei rabbrividisce.
Il velo che gli annebbia la mente cade e ritorna in sé, sopra di lei, le ginocchia e i gomiti rossi come probabilmente la schiena di lei.
Lei lo stringe troppo e la stanza è troppo calda e lei è ricoperta del sudore di entrambi e d’un tratto la trova più repellente di prima. La spinge via senza premura, divincolandosi dalla sua presa appiccicosa e facendola ricadere a terra mentre si alza e si dirige alla finestra.
La luce al neon lampeggia nella stanza un’ultima volta prima di eclissarsi.
« Seifer » dice lei, allontanandosi dall’intrico di vestiti, preservativi e immondizia che riveste il pavimento. « Seifer- »
« Pensavo di averti detto che mi ero stufato » la interrompe, le parole affilate e incandescenti già nella sua bocca.
Lei sobbalza di nuovo, le sue spalle si mostrano alla luce smunta, e la sua voce trema di vergogna o paura. O forse entrambe.
« Ti prego. Io ti a- »
« Ascolta, è fantastico. Sono veramente commosso. Ma come ti ho già detto, posso dare solo un tot di calci allo stesso cucciolo prima di cominciare a sentirmi vagamente disgustato dell’intero processo, e ti ho praticamente fatto a pezzi, non trovi? »
« Sei orribile. »
Lei si accarezza la fronte con il palmo della mano, e chissà se sta ricordando i giorni in cui la sua peggiore perversione era una cotta da scolaretta per il ragazzo in pubertà. Chissà se sta ricordando la considerazione che aveva di se stessa prima che lui le mostrasse quanto potesse cadere in basso pur di avere qualcuno che stesse ad ascoltare i suoi deliri a letto.
Forse sta pensando a uno steccato bianco, a Squall che rincasa dal lavoro, a un paio di bambini rivoltanti che urlano e ridono e inseguono le sue gonne.
Quello che le è stato dato invece è un appartamento in rovina, un mostro e qualche altro livido sul sedere, ed è così che va il mondo, è così che va quando si è costretti a vedere un Sogno Romantico attraverso le lenti aride della realtà.
Capirai, pensa lui, soffocando il solletico di solidarietà che cerca di sollevarsi nel suo petto. Distruggi il mio, io distruggo il tuo.
« Senti chi parla. Sei rimasta qui e mi hai permesso di spalmarti questa merda in faccia all’infinito, e sei sempre tornata per averne dell’altra. Adesso mi stai implorando per lo stesso motivo. Quindi dimmi, Quistis, chi di noi due è peggio? Io perché lo faccio, o tu perché lo ami? »
« Vaffanculo » impreca lei, le parole perse in una piena di singhiozzi convulsi. « Vai a farti fottere. »
« Penso di averlo fatto abbastanza. »
Aspetta che digerisca anche questo, con il silenzio che si stende per un momento, e poi viene colto da una familiare ispirazione maligna, quella che fa capolino solo per suggerirgli come ferire meglio con il gunblade o con le parole.
« Però mi sbagliavo quando dicevo che valevi meno di zero come insegnante. In realtà più banalmente vali meno di zero come persona. Fuori di qui. »
Lei piange come se fosse stata accoltellata o stesse scopando.
Per lei, alla fine, sono probabilmente la stessa cosa.
Quando infila i suoi abiti tra i singhiozzi si sente solo un discreto fruscio. Ma la sua voce è dura, amara.
« Se mai dovessimo rivederci, ti ammazzerò con le mie mani. »
Forse ci crede davvero. Forse in fondo un po’ di spina dorsale ce l’ha.
Lui però la conosce bene.
La porta cigola, premendo sui cardini pesanti, e si richiude in un ultimo, flebile movimento.
Lui rimane accanto alla finestra, e la guarda serpeggiare tra la calca di ubriachi che va assottigliandosi, le spalle diritte e il capo basso per celare le lacrime, e si chiede se penserà mai a lui in una di quelle fredde notti lunghe e solitarie.
Si chiede se lui penserà mai a lei.
L’unica persona che l’abbia mai amato abbastanza da accogliere ogni brandello di cattiveria che riuscisse a sfornare, seppure solo perché era abbastanza malata da apprezzarla.
Prova a immaginare come sarebbe passeggiare con lei al parco, avere dei figli, invecchiare insieme, e soccombe ad una risata fragorosa che lo sbatte contro il muro e si trasforma in pianto.
La testa gli pulsa, la sua mente si addentra in quella foschia calda e scintillante di odioso affetto, e pensa di correrle dietro, di colpirla, di fare l’amore con lei e di amarla e nulla di tutto ciò ha senso, nulla ne ha avuto mai e mai ne avrà, e lei è patetica e non significa niente e significa tutto e se n’è andata.
Vero amore, pensa, ridendo, singhiozzando. Che bel viso che hai.





NdA: Cattiva, cattiva, cattiva. Questa fanfiction sa di CATTIVERIA. Ma dato che il personaggio di Seifer non viene mai veramente studiato, e Quistis non sembra mai entrare con convinzione nel proprio, devo ammettere che non trovo l’idea di loro due imprigionati in una relazione orrendamente distruttiva e co-dipendente poi così ridicola.
Grazie a Zachere per aver betato, e a Tamilicious Rex per la battuta sugli imeni scoppiati.

NdT (youffie): “Fly” vuol dire pure mosca, eh. Da notare che stavolta persino lui dice che è cattiva. Ci ho messo tantissimo a digerire questa storia, ma poi rimuginandoci su e traducendola l’ho trovata bellissima. Grazie mille a la_vale per aver betato (in tempi record, tra l’altro)! <3
… perché DK mi mette i brividi anche quando non scrive horror? ;_;
Nota un po’ più importante riguardo la caratterizzazione di Quistis, che almeno un po’ spiazzante a primo impatto lo è per tutti, credo. Ora che ho ricontrollato la fic colgo l’occasione per segnalarvi un link a un forum [edit successivo: il topic non esiste più, a quanto pare. Peccato. :/] dove, aprendo un topic su Quistis, DK parla anche di Seifer e Quistis come coppia, e a proposito di Fly scrive: « […] ammetto di aver posto i personaggi agli estremi di quello che ritengo sia un comportamento ragionevole per entrambi. Non credo che debbano necessariamente arrivare a questo livello, ma non sento neanche che siano fatti l’uno per l’altra. […]
Quistis è una persona impacciata e insicura - nel gioco lo si vede in più punti. A Seifer non dispiace manipolare o usare gli altri come più gli aggrada. Stando così le cose, a tenere il coltello dalla parte del manico sembra essere saldamente lui, a meno che uno dei due o entrambi non ricevano un qualche sviluppo significativo all’interno della storia stessa (per esempio, molto dipenderà da quanto Seifer si è “riformato” secondo l’autore). » Tutte le varie riflessioni uscite fuori su Quistis sono molto interessanti, a mio avviso, ma mi sono già allargata troppo rispetto alle note originali :)
(rivista per modo di dire molto molto molto rapidamente il 15/07/2011. NON AZZARDATEVI A LEGGERE DEVOTION CHE È TRADOTTA ORRENDAMENTE E MI VERGOGNO E DEVO RITRADURLA DA CAPO. Grazie.)
   
 
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