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Autore: aoimotion    17/07/2011    2 recensioni
Gratitudine da un fronte, orgoglio da un altro fronte. Doveva liberarsi alla svelta di uno dei due fronti, o avrebbe continuato a bruciare i toast la mattina e a sparpagliare pratiche random in giro per il suo appartamento. E siccome l’orgoglio era una sua specialissima prerogativa a cui rinunciare sarebbe stato impossibile, mentre la gratitudine era un fardello supplementare di cui si sarebbe dovuto sbarazzare al più presto, non senza una certa difficoltà, veniva da sé che l’unica via da battere era quella che prevedeva, per così dire… una dose supplementare di ringraziamenti.
“Wright la pagherà per questo” sentenziò crudo Miles, serrando un pugno attorno all’aria “oh, se la pagherà”.
[ shonen-ai lieve lieve, non valeva la pena di metterlo fra gli avvertimenti ]
Genere: Comico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Miles Edgeworth, Phoenix Wright
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Note iniziali: primo tentativo di scrivere su questi due adorabili esseri, che amo alla follia e che mi fanno piangere per quanto sono canon. Abbasso Maya (per la quale nutro comunque una certa simpatia) e abbasso anche Franziska, perché forse negli episodi seguenti (sono ancora all’uno) c’è terreno fertile per lei e Miles. Io questo non lo so, so soltanto che è impossibile non shippare Phoenix e Miles. Ci sono troppi indizi per non farlo, bisogna essere proprio ciechi per non vedere!
Tornando alla storia che vi apprestate a leggere, sappiate solo che ho immaginato un piccolo episodio DOPO la partenza di Maya in cui Miles decide di ringraziare ‘meglio’ Phoenix per l’aiuto che gli ha dato in tribunale. Non so se mi sono tenuta o meno IC, ovviamente mi auguro di sì, ma potrei sbagliarmi. Mi sono basata molto sull’episodio 4, per scrivere questa one-shot, e in particolare sulla fine, poi capirete cosa intendo. Il POV è di Miles~ e con ciò vi auguro buona lettura! :D

 

 

 

 

 

 

 

Era strano pensare come quel colpo di proiettile si fosse portato con sé ben più di quello che sarebbe potuto apparire agli occhi di un qualunque estraneo. E non faceva differenza, se si trattava di un poliziotto o di un semplice curioso, perché esistevano dei fili che erano stati recisi nel silenzio più assoluto, fili invisibili di cui nessuno conosceva l’esistenza. E nonostante qualcosa gridasse, nella mente e nel cuore di Miles, non c’era verso che queste urla potessero raggiungere l’esterno. Non vi era modo, per quel gelo, di intaccare le altre persone. Tutto era sempre rimasto dentro la sua sfera personale, ma a Miles era andato bene così. Anzi, benissimo. Perché la questione era più facilmente gestibile se contenuta entro i confini di un singolo individuo; specie se l’individuo in questione era proprio lui. Eppure…
Edgeworth Miles aveva avuto come uno spiacevolissimo sentore, quel giorno. Come se per la prima volta qualcuno si fosse soffermato a guardarlo, con quel tipo di sguardo che riusciva a penetrare qualunque tentativo di difesa, vanificando tutti gli sforzi compiuti affinché la sua intimità non venisse violata. Era stata, in principio, una sensazione molto sgradevole. Essere spogliato delle proprie difese non era piacevole, a maggior ragione se a farlo era una testa a porcospino, prevedibile in una maniera che quasi lo irritava, che proprio in virtù del suo scarso intelletto riusciva a capire cose che persino lui aveva esitato ad ammettere a se stesso.
… Era snervante, parecchio snervante. Così snervante, che quasi Miles non vedeva l’ora di entrare in un’aula di tribunale, smontarlo con le sue obiezioni fino a farlo sudare copiosamente, solo per vedere la sua impagabile espressione da sconfitto. Ah, che pensiero assolutamente gratificante!
Una sensazione di fastidio lo colse subito dopo quel pensiero, raggelandolo con una velocità spaventosa. Non avrebbe potuto farlo, finché…

Quel grazie mi è proprio rimasto sullo stomaco, eh?
Phoenix Wright aveva fatto molto per lui, spingendosi fino a un punto che non aveva creduto neanche che esistesse, fino a un punto dove lui stesso non aveva osato mettere piede per quindici, lunghi anni. Anzi, non era corretto: Phoenix Wright lo aveva accompagnato nel momento in cui lui aveva deciso di addentrarsi in una terra sconosciuta e che lo terrorizzava a morte. Senza la minima esitazione, mentre lui si preparava a confessare il suo omicidio, Phoenix Wright aveva cominciato a far ordine nel registro processuale, ammucchiando pezzi di puzzle che non avrebbero condotto anima viva a una conclusione che non fosse il suo verdetto di colpevolezza. E nonostante ciò…! Nonostante ciò, con la sua fortuna sfacciata, quell’uomo con la testa a punta era riuscito a guardare oltre ogni cosa, giungendo alla verità.
… Persino oltre i suoi stessi incubi, i più intimi e spaventosi.
Come poteva andargli giù una cosa simile? Quell’uomo era terrificante, semplicemente terrificante. Terrificante, come non fosse cambiato affatto, rimanendo lo stesso ragazzino di un tempo. Terrificante il modo in cui era stato capace di vedere e riconoscere il vecchio Miles, una parte che lui stesso credeva di aver seppellito chissà dove, chissà quanti anni fa. Terrificante era stato il potere dei suoi occhi, penetranti quanto i suoi capelli, con i quali lo aveva messo a nudo ancora prima che potesse dire o fare alcunché.
Terrificante… ma anche, e soprattutto, irritante. E la cosa che lo irritava di più era un sentimento che non aveva motivo di esistere ancora dentro di lui, e che nonostante ciò continuava a farsi strada come un tarlo, rosicchiandogli la coscienza nei momenti meno consoni della giornata. Quel mattino aveva persino lasciato bruciare le sue due fette di pane nel tostapane, dicendo così addio alla sua – magra – colazione. Perché? Perché era stato improvvisamente assalito da qualcosa che assomigliava in maniera incredibilmente marcata (e altresì fuorviante) a un senso di colpa. Il che era quanto di più ridicolo si potesse concepire, persino più ridicolo delle lacrime che il detective Gumshoe che gli aveva praticamente pianto addosso il giorno in cui era stato prosciolto da ogni accusa, lì in tribunale.
E non si contavano tutti i fogli misteriosamente scomparsi dalla sua scrivania. Gli ci era voluto tutto il pomeriggio per ammettere che era stato lui stesso a smarrirli in giro per casa, e diverse ore per ritrovarne circa la metà. Il resto – pratiche importantissime e della massima urgenza, ovviamente – era ancora dato per disperso. Miles non sapeva se temere per le pratiche, per la sua vita o per la sua fedina penale, visto che la tentazione di strozzare Phoenix diveniva sempre più forte ogni minuto che passava. Probabilmente per tutte e tre, visto che c’era fra esse una sorta di connessione inquietante, che formava attorno a lui un altrettanto inquietante triangolo che gli faceva quasi venire la pelle d’oca.
Miles sospirò forte, la disperazione che si faceva largo dentro di lui e la sensazione di essere in debito con Wright che si amplificava come un’eco, assordandolo. Alzò la testa di scatto, dimenticando di trovarsi sotto la sua scrivania, e sbattendo di conseguenza contro essa. Seguì a tal prodezza un ululato di dolore, sommesso quanto bastava per non essere udito dai vicini, o almeno così sperò. Non solo non aveva trovato neanche lì i suoi stramaledetti fogli, ma aveva pure sbattuto la testa! E di chi era colpa? Di chi?
“Wright, io, davvero, non ti sopporto…” sibilò Miles camminando carponi finché non poté nuovamente issarsi in piedi, dolorante. Si voltò verso il grande orologio da parete della stanza e vide l’ora: le sette e ventiquattro minuti. Il sole stava tramontando, ma vi era ancora un po’ di luce per le strade.
“Io l’ho ringraziato” mormorò fra sé mentre si massaggiava la nuca “gli ho detto ‘grazie’, che altro avrei dovuto fare? Abbracciarlo? Baciarlo? Inchinarmi a lui? Ma per favore!” esclamò, inorridendo al sol pensiero. Era ovvio che in nessun mondo parallelo avrebbe mai fatto nessuna delle tre cose, quindi non era questo il punto. Certo, vista da questa prospettiva, la questione appariva semplice: aveva detto ‘grazie’, e non poteva aggiungere alcun gesto d’affetto a quella parola. E allora, dove stava il problema, esattamente? Perché sentiva di non aver fatto qualcosa che poteva essere alla sua portata? Era questo il motivo per cui si sentiva tormentato da quegli spiacevolissimi e totalmente fuori luogo sensi di colpa?
Miles non era un uomo che voleva debiti, con nessuno. Almeno in questo lui e Phoenix erano sempre stati molto simili. Aveva detto di aver pareggiato i conti per l’aiuto che lui gli aveva fornito contro Dee Vasquez, nel famoso processo del ‘Samurai d’Acciaio’, quindi per Phoenix la faccenda era risolta. Ma Miles sentiva di aver pareggiato proprio il resto di niente. Dopotutto, che cosa aveva fatto? Semplicemente, aveva contribuito a far giustizia. Era qualcosa per la quale Wright avrebbe dovuto sentirsi in debito? Be’, certo, fino a un certo punto poteva anche starci – era ancora un incapace, dopotutto – ma lì era stato diverso. Miles si era praticamente giocato la sua vita, in quell’aula di tribunale. Non si trattava solo di una mera vincita, né di aver fatto giustizia consegnando alle autorità un essere spregevole come Von Karma. Phoenix, sì… gli aveva salvato la vita. Lo aveva strappato a quell’inferno di menzogne che quell’uomo gli aveva tessuto intorno, come una rete. E non solo quelle nuove, ma persino quelle di quindici anni fa. Menzogne che tutti avevano dimenticato, tutti… tranne Miles. Se non altro, Phoenix Wright si era dimostrato parecchio abile nell’impicciarsi degli affari altrui, anche di quelli molto vecchi. Era un merito? A pelle avrebbe detto di no, ma il suo giudizio era parecchio combattuto. Gratitudine da un fronte, orgoglio da un altro fronte. Doveva liberarsi alla svelta di uno dei due fronti, o avrebbe continuato a bruciare i toast la mattina e a sparpagliare pratiche random in giro per il suo appartamento. E siccome l’orgoglio era una sua specialissima prerogativa a cui rinunciare sarebbe stato impossibile, mentre la gratitudine era un fardello supplementare di cui si sarebbe dovuto sbarazzare al più presto, non senza una certa difficoltà, veniva da sé che l’unica via da battere era quella che prevedeva, per così dire… una dose supplementare di ringraziamenti.
“Wright la pagherà per questo” sentenziò crudo Miles, serrando un pugno attorno all’aria “oh, se la pagherà”.
Erano… le sette e trentotto minuti. Poteva ancora fare una capatina a quel suo ridicolo studio; prima si liberava di quei sentimenti invadenti, prima sarebbe potuto ritornare alla sua solita vita.

 

***

 

Miles Edgeworth non aveva la minima idea di dove abitasse Phoenix Wright. Del resto, perché avrebbe dovuto averla? Cosa importava, a lui, dell’ubicazione di casa sua? Proprio niente, per l’appunto. Quindi Wright avrebbe fatto molto meglio a farsi trovare nel suo studio, anche se l’ora era piuttosto tarda. Non aveva voglia di tornare un altro giorno, semmai doveva essere lui, disimpegnato com’era, a venirlo a trovare nel suo ufficio, non viceversa. Era lui quello che aveva un sacco di tempo libero per bighellonare in giro, lui e lui soltanto. Ma lui non soffriva di problemi di coscienza, quindi perché avrebbe dovuto farlo? Era Miles quello che li aveva, non lui. Un altro punto a sfavore di quell’imbecille.
Senza rendersene conto si ritrovò ben presto di fronte allo studio legale ‘Wright & Co.’ e, a quel punto, uno strano sorriso tagliente comparve sulla sua bocca, a metà, forse, fra il sarcastico e il soddisfatto. Un’altra particolarità di quel Wright era infatti quella di far nascere in lui delle sensazioni… particolari, se così poteva definirle. Piacevoli, in un certo senso. Soddisfacenti. Sì, dopotutto Miles si divertiva molto di più in tribunale quando a fronteggiarlo c’era quella testa di porcospino, questo doveva riconoscerlo. Ma non gliel’avrebbe mai detto, anche perché non era sicuro che Wright l’avrebbe considerato un complimento.
Alzò gli occhi, e con sollievo vide che alcune finestre erano accese. Alcune, certo, ma quale era la sua? E soprattutto, era davvero sicuro che si trattasse del suo ufficio? Era la prima volta che ci veniva. Non rimaneva che una cosa da fare…
“Secondo piano, terzo piano, quinto piano, settimo piano…” Ok, aveva quattro possibilità: se l’ufficio di Wright non si trovava a nessuno di questi piani illuminati, allora lui non c’era. Semplice e lineare come ragionamento, forse anche troppo. Ma Miles non indugiò oltre in quei pensieri e si incamminò a passo spedito verso il portone. Fu quando vi arrivò davanti che notò, alla sua destra, la lista con i nomi dei codomini, tra i quali ovviamente campeggiava ben visibile il nome dello studio legale di Wright.
“… Giusto, esiste il citofono” borbottò Miles, ma quando il suo dito fu in procinto di premere il pulsante, qualcosa lo bloccò. Fu come una piccola scossa che, partendo dai piedi, si era appena ripercossa su tutto il suo corpo. In principio ne rimase semplicemente stordito, limitandosi a barcollare un po’ come se d’un tratto avesse perso l’equilibrio. Ma poi si rese conto che la scossa stava cominciando a vibrare in una maniera molto strana, che non poteva essere ricondotta alla semplice vergogna. Era un movimento che non dipendeva assolutamente da lui. Miles sbiancò di colpo e fece un passo indietro, terrorizzato. Perse del tutto l’equilibrio e cadde per terra, e a quel punto la sentì chiaramente: quella era una scossa di terremoto. L’ultimo pensiero lucido che fece, prima di abbandonarsi al panico, fu che la colpa fosse proprio di Wright. Si rannicchiò su se stesso, chiudendo gli occhi con violenza e cercando di formare un blocco composito con tutto il corpo. Vulnerabile, gridava ogni fibra e ogni terminazione nervosa dei suoi muscoli. Sentì il respiro che gli si mozzava nella gola, strozzando il cuore stesso che per la paura era salito fin lassù. Gli venne da vomitare, ma non lo fece; strinse i denti e, semplicemente, aspettò che finisse.
Era così stretto su se stesso, così appallottolato, così teso, che quando una mano gli si poggiò sulle spalle neanche se ne accorse. Alle sue orecchie giunse vago un brusio ovattato, che non riusciva a prendere forma. Sembravano… parole? E chiamavano il suo nome?
“Edgeworth!” gridò di colpo una voce, facendolo sussultare violentemente. Miles si voltò di scatto, con gli occhi sgranati dal terrore e il colorito di un morto, e vide a poca distanza da lui il viso turbato di una persona a lui fin troppo familiare.
“Wright!” disse con una vocetta stridula, probabilmente data dall’ansia ancora repressa dentro di lui. Senza pensarci gli afferrò il polso e glielo strinse convulsamente, biascicando: “T-terremoto, il terremoto…”
Wright lo guardò con la fronte aggrottata, prima di lasciarsi andare a un sospiro. “Edgeworth… il terremoto è finito da un pezzo”.
E perché lui stava tremando ancora? Riuscì a malapena a guardarsi intorno, ed effettivamente vide che la città sembrava immobile. Le persone stesse, quelle poche che c’erano in giro, adesso si erano scambiate occhiate incerte e lentamente avevano ricominciato a camminare, guardinghe.
Pian piano, il cuore ritornò al suo posto dentro la cassa toracica e i muscoli tesi si rilassarono. La mano che aveva stretto forte il polso di Phoenix Wright dapprima si ritirò lentamente e poi, quando Miles si accorse di quello che aveva fatto, con la velocità di un’anguilla. La sua faccia divenne di un colorito molto simile a quello di una pesca, mentre Wright continuava a guardarlo con un’espressione perplessa.
“Edgeworth, che ci fai tu… qui?” gli chiese infine, mentre lui rifiutava il suo aiuto per alzarsi.
“Wright, non farti strane idee” esordì Miles con il suo tono più distaccato, per quanto glielo consentisse ciò che era appena avvenuto “non sono venuto qui per te”.
“Ah… capisco” disse lui, con una voce da cui traspariva un vago senso di incertezza.
“Sono qui” continuò lui “per me stesso”.
Ci fu un momento di silenzio, nel quale Wright tacque, grattandosi la nuca.
“E… cosa dovresti fare per te stesso nei paraggi del mio ufficio legale?”

Bene, o la va o la spacca.
Miles Edgeworth, ancora un po’ barcollante, tese una mano a Wright come se volesse accoltellarlo allo stomaco. E lui, dal canto suo, si scansò proprio come se Edgeworth lo stesse per accoltellare allo stomaco.
“Ehm, Edgeworth, cosa stai…”
Gli tornarono in mente le parole che il detective Gumshoe aveva pronunciato quel fatidico giorno in tribunale. Parole per modo di dire: semmai, quella specie di urlo scimmiesco che in teoria avrebbe dovuto esprimere gioia e letizia ma che a lui aveva trasmesso semplicemente un senso di primitività assoluta.
“Wright!” gridò, allungandogli ostinato la mano “GRAZIE!” e fu come se avesse appena vomitato qualcosa di spiacevole.
Phoenix balzò all’indietro. “Per cosa…?”
“Per… il tribunale!” continuò Miles imperterrito, tendendo quella mano che ormai assomigliava più a una minaccia che a un gesto di pace.
“Ah, il tribunale… ma non mi avevi già ringraziato?”
“Non è abbastanza! E stringimi la mano, Wright. Non capisci l’enorme sforzo che sto compiendo per tendertela? Per quanto ancora intendi fuggirla?”
“Ah, devo stringerla? Pensavo che volessi farmi del male, Edgeworth” commentò Wright perplesso “ehm, va bene…” e gliela strinse, anche se non ne sembrava molto convinto.
“Bene! Grazie!”
“P-prego!”
Il silenzio scese sui due uomini. Miles stava ansimando, praticamente, e questo sembrava turbare Wright, che gli si appropinquò un po’ di più. “Edgeworth, sei sicuro di star bene? Mi sembri… agitato, ecco”.
“Come mai sei qui, Wright?” gli chiese invece Miles, a bruciapelo “Che strana coincidenza, che tu sia sceso proprio quando sono arrivato io”.
“Perché ho sentito il terremoto e ti ho visto dalla finestra mentre ti accartocciavi su te stesso come una pallina di carta, Edgeworth” rispose lui, inarcando un sopracciglio “sei davvero venuto qui solo per… stringermi la mano?”
“Hai dimenticato il ‘grazie’, Wright” lo rimbeccò severamente Miles, prima di voltarsi dall’altra parte e infilare le mani nell’impermeabile che si era portato addosso per una ragione non ben definita, forse proprio per poter infilare le mani in tasca. Il detective Gumshoe gli stava trasmettendo delle pessime abitudini, per colpa delle sue visite continue.
“Te ne vai?”
“Non ho altro da dirti, quindi… direi di sì”.
“Ah” non lo guardò in faccia, ma gli parve di scorgere una nota di delusione nella sua voce “capisco. Allora… be’, come stai?”
“Ma se ti ho appena detto che non altro da dirti!” sbottò Miles voltandosi di scatto “Lo fai apposta?”
“Ma è normale che ti chieda come stai dopo quello che è successo, no?!” tentò di difendersi Phoenix, arretrando.
“Bene! Sto bene, grazie! Ora sto bene!”
“… Ora?”
Si era appena tradito, ottimo! “L-lascia stare…! Ci si vede, Wright, in tribunale. Preparati!” E pronunciate queste parole, Miles se ne andò a passo spedito, le mani serrate a pugno dentro le tasche dell’impermeabile e la sensazione di avere il volto il fiamme per una serie di ragioni a cui non voleva dare né un nome né una definizione.

   
 
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