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Autore: Guardian1    19/07/2011    4 recensioni
L'insostenibile Yuffezza dell'essere: Vincent Valentine è uno sfigato che ne subisce l'effetto solo in una parte piccola e blanda.
Genere: Fluff, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Vincent Valentine, Yuffie Kisaragi
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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NdA: sostanzialmente, ho scritto questa fanfiction per la community yuffentine di LJ, un paio di mesi fa, mentre cercavo di rimettere in sesto i miei muscoli creativi per poter scrivere di nuovo Yuffie; è uscita fuori mentre cercavo di lavorare su Another Country, e così l’ho ripresa. (Ed è ancora tanto tanto tanto fluff, ma vabbè.)




Tastes Like Green ~ Sapore di verde



Quando lei ha ancora sedici anni, si ritrovano inaspettatamente nello stesso bar; incredibile ma vero, lui non occupa il misterioso angolo dark del locale, dove dovrebbe bere un misterioso cocktail dark, ma sta facendo il tirchio e si sta facendo servire dell’acqua dal barista direttamente al bancone.
Agghiacciante che vada in giro con un deprimente mantello rosso e ordini dell’acqua proprio lì davanti, dove tutti possono vederlo; così, ansiosa di aiutare, sbatte la mano sul bancone fino a fargli tintinnare il bicchiere.
« Barista! Una vodka per me e un Traffic Light per il mio giovane compare! »
Il barman la squadra da capo a piedi, una cosa profondamente ingiusta.
« Documenti? »
Lei ne tira fuori dal portafoglio uno (dei tanti) e glielo mostra, e lui aguzza gli occhi, cosa ancor più profondamente ingiusta.
« Cooper Trelisse? E hai trentanove anni? »
Lei inizia a sudare copiosamente. È questo il problema di avere sessantatré carte di identità false.
« Crema idratante? Uso quintali di crema idratante. Mangio sano. Non fumo mai- »
« Sta con me » dice infine Vincent Valentine, anche se dalla sua faccia si direbbe che avrebbe preferito che lei fosse, diciamo, nello spazio siderale.
Considerato lui e considerata lei e considerata la situazione generale divisa per Vincent che fa il taccagno, un altro bicchiere d’acqua viene versato di fronte alle mani trepidanti e critiche di Yuffie Kisaragi.
Lancia a Vincent una lunga, fredda occhiata con i suoi occhi blu prima di berlo, ciononostante, tutto in un sorso. Junon è una città arida, e i bar dei sobborghi ne sono la parte più arida.
« Avrei scommesso di trovarti qui, a scolarti acqua iperalcolica e ad abbordare ragazzine » dice lei.
Silenzio.
« Sono qui per partecipare ad una conferenza. L’acqua uccide. È scientificamente provato » dice lei.
Silenzio.
« Provoca anche dipendenza » dice lei, e glielo dimostra muovendo rapidamente una mano verso quella buona di lui e rubandogli il bicchiere. Lo svuota con un sorso serio prima di restituirglielo.
« Faresti bene a non berne più, comunque, ci ho messo dei pidocchi dentro. »
« Mi stai seguendo, Yuffie? »
« No, giuro che è una felice coincidenza. »
(Lui, finalmente, spinge la sua acqua verso di lei. Lei accetta con magnanimità.)
« Penso che il tuo cellulare abbia qualcosa che non va, comunque, ho mandato a te e ad altre sette persone una catena perché mi era stato preannunciato che altrimenti mi avrebbe investito un camion, e non mi hai mai ringraziato. »
« … Non faccio caso a quel tipo di messaggi. »
« Potrebbe investirti un camion, non sono ancora passati i sessanta giorni. »
« Questo genere di cose è puerile e appartiene al reame dell’infanzia, Yuffie. Non è mia abitudine rispondere… e potrebbe sorprenderti venire a conoscenza del fatto che non mi preoccupa essere investito dai camion. »
« Oh, ahi. Credo che sia una delle frasi più lunghe che tu mi abbia mai rivolto. Mi si spezza il cuore che sia stato questo. Guarda, piango. Guarda la mia lacrima solitaria. »
« Io- »
« Torno quando ti sono passate le mestruazioni » dice, salta giù dallo sgabello con un terribile stridio di legno sul linoleum, e si addentra nella penombra polverosa del bar.
Scompare, e lui si volta – e lei riappare circa quaranta secondi dopo, brandendo un pacchetto di snack al riso che apre con i denti.
(Lui nota che si è fatta crescere i capelli e li ha lasciati liberi di sparpagliarsi sulle spalle, come se li avesse tagliati con un rasoio; che indossa una giacca malconcia con le maniche sfilacciate rimboccate fin sopra i gomiti scheletrici e poco graziosi; che sotto gli occhi ha dei solchi profondi. Ha una cravatta da uomo al collo e le ginocchia sbucciate, proprio come una bambina.)
« Hai ancora il ciclo? » dice, e – senza attendere risposta – si butta uno stuzzichino in bocca. « No? Bene. Avere il ciclo, per un uomo, è una cosa da veri ritardati. Anche per uno con dei capelli virili come i tuoi. »
« … Non so mai esattamente cosa dirti » dice lui, abbastanza a ciel sereno, e la vita di Yuffie per poco non termina proprio in quell’istante, per strozzamento dovuto ad un cracker al riso.
« Non lo so » ribatte lei, tutto d’un tratto sedicenne e impacciata. « Perché non possiamo fare una conversazione figa, Vinnie? Potremmo discorrere di ceralacca e di film e delle nostre profonde filosofie e del colore rosso e roba così. Io – non lo so. Le persone normali parlano di queste cose. »
« Scoprirai che non sono un ottimo compagno per… le conversazioni “normali.” »
« Perché non controllare? Che ne dici di: il rosso. Argomenta. »
Segue una lunga pausa. Il bar è soffocato dal fumo di vecchie sigarette e dal profumo del vino economico dai refrigeratori del bar e, di tanto in tanto, da un sinistro suono scoppiettante proveniente delle luci elettriche.
« È… rosso. »
« Ding ding ding! Abbiamo un vincitore! Il rosso è rosso. Ragaaazzi, questa sì che è una conversazione fantastica. Sei un gigante intellettualoide, Vinnie. »
Lui la guarda, e per un istante, le dispiace della sua lingua; le dispiace di avere sedici anni, le dispiace per tutto, poi si costringe a infilarsi dei cracker al riso nella bocca al vetriolo e gli offre il pacco.
Lui continua a guardare lei; poi seleziona qualcosa di arancione che ha la forma di un pesce che ha subito un terribile incidente, e fissa il bancone. Il suo artiglio di bronzo, appoggiato com’è sul legno vecchio, sembra un ornamento scintillante, con tutte quelle dita aguzze e riflessi di luce.
« Non sei con Tifa » le dice, e non è una domanda.
« Nah. Manco tu. »
« No. »
Silenzio.
« Suppongo che tutti facciano le cose in maniera diversa » annuncia lei, riempiendo il silenzio, e lancia in aria uno dei cracker per poi riacciuffarlo con i denti. Lo mastica rumorosamente per un po’, prima di aggiungere: « Come te e me. »
« Difficilmente facciamo le cose in maniera uguale, Yuffie. »
(Non mangia il cracker. Lei non può dargli torto.)
« No, perché io sono una tostissima ninja di Wutai assetata di sangue e con una pistola in mano che in realtà non è una pistola, mentre tu sei un tipo depresso, triste e solitario che dovrebbe rispondere ai miei messaggi » dice. Dice, dice, dice- « E dovresti sorridermi, hai delle belle gengive. »
Per qualche ragione, quando poi lui la guarda – lei deve alzarsi e scendere dalla sedia e cercare di darsi un contegno, e sospendere tutto quello che stava facendo, ridotta in pezzi, con solo la sua odiosissima cravatta a trattenere il cuore accaldato là dove dovrebbe stare.
Lei gli guarda l’orlo del soprabito sfrangiato, piuttosto che il viso; e comincia a starnazzare: « Beh, è stato bello parlare con te come facevamo all’AVALANCHE, ma devo proprio scappare e fare le cazzate che fanno i ninja, infatti avrei dovuto essere lì dieci minuti fa quindi dovrei in effetti tornare indietro nel tempo grazie mille, scommetto che ti rivedrò tra altri sei mesi- »
Corre fuori dalla porta così velocemente che in realtà ci corre dentro, sbattendoci il naso contro, spalancandola e uscendo nella fredda notte di città.
« Ehi, forse la prossima volta dureremo fino agli altri colori dell’arcobaleno! Ciao, Vinnie! »
E poi se ne va. Lui fissa il friabile pacco di cracker al riso artificialmente colorati, e non dice nulla.



Quando lei ha diciassette anni – e di mesi ne sono passati più di sei – gli finisce letteralmente nella schiena sotto il sole cocente di Costa del Sol con due granite gocciolanti strette nelle mani, di testa, come avrebbe dovuto fare il camion che non lo ha mai investito.
Lui ha dato segno di riconoscere il tempo indossando soltanto la camicia e i pantaloni, così adesso sembra un nerissimo faro d’angoscia; lei porta un costume intero con la stampa di una bandiera pirata che l’ha deliziata ieri e che proprio in questo momento le pare assolutamente spaventosa.
Si sistemano su una panchina al coperto, lei a mangiare la sua granita rossa, e lui a mangiare quella verde.
(Di solito finisce che le mangia tutte e due lei e le viene uno schifoso e dolorosissimo mal di pancia.)
« Potremmo dedicarci al blu » dice lei. « Hai pensato molto al blu? Scommetto che hai passato l’ultimo, quant’è, anno- »
« È passato meno di un anno- »
« -a pensare al blu, pensando “Farei bene a far colpo su Yuffie con la mia profonda ed elevata conoscenza del blu,” perciò eccomi qui a capovolgere le tue speranze e i tuoi sogni: cosa ne pensi del verde. »
Ovviamente lui ci pensa (ha i capelli legati, si accorge lei, legati con un elastico che li allontani dalla fronte sudata; sul gomito sono sparse cicatrici candide e sbiadite, sul punto dove ha arrotolato e abbottonato le maniche della camicia, piccole, tenui cicatrici alla terribile unione tra la carne e il metallo) e fissa la sua granita tutto pensoso.
« È verde » dice, col volto imperscrutabile. Con sua grande sorpresa, privato di cucchiaini, addenta la granita.
« Sei un filosofo decerebrato » dice lei allegramente, e si occupa della sua fino a farsi venire la lingua rossa. « Che sapore ha? »
« Verde. »
« Potrei quasi giurare che tu stia facendo una battuta. Dai. »
« … Agrumi andati a male che puzzano come se fossero stati confezionati in bustina. »
« Oh santa polenta era davvero una pseudo-battuta. Sono sinceramente lieta e sollevata di vederti mangiare dal vivo, comunque, una volta ho raccontato a Tifa che eri un vampiro. Sei un vampiro? Perché quello pure sarebbe piuttosto figo. Insomma, dormi in una bara. Dormi ancora in una bara? Te la trascini dietro? »
« No. »
« La mia sa delle terribili ciliegie artificiali della depressione. Avrei dovuto darla a te. Vuoi dare una leccata? »
(Lui declina.)
« Ci ho praticamente sbavato sopra. Produco naturalmente molta saliva. »
(Lui declina nuovamente.)
Stende i piedi perché il sole vi possa battere sopra: attorno a loro ci sono il rumore delle grida dei bambini, e quello delle persone che parlano, e della sofferenza di sottofondo del mare. Yuffie contorce le dita dei piedi con molta cura per un’abbronzatura totale.
« Non mi sarei mai aspettata di trovare te qui » irrompe di nuovo lei, dopo essersi girata sullo stomaco per testare in nome della scienza l’impossibilità di rosolarsi anche le piante dei piedi. « Non è il tuo posto tipo – comunque, i tuoi vestiti fanno schifo. Scommetto che scotti come non mai. Tra l’altro ti stai confondendo alla gente locale come una rana ad un sottomarino. »
« … Ti stai divertendo qui, Yuffie? »
Wow, pensa lei, conosce addirittura il verbo divertirsi-
« No. Odio questo posto. »
Silenzio. Nel frattempo lei mangia la sua granita.
« Stiamo facendo ancora ciascuno le sue cose. Tutti soli soletti. Certo, io naturalmente lo faccio meglio di te. Io giro da quando avevo otto anni. Posso leccare l’acqua dagli alberi e dalla schiena di un pesce e da qualsiasi cosa. È perfettamente naturale la mia preoccupazione per te che cerchi di leggere delle mappe e cadi nelle buche eccetera. Scommetto che quando eri ragazzo ti nascondevi nel seminterrato a cucire mantelli senza mai vedere il mondo esterno- »
« Ero un ragazzo di città » dice lui.
Lei si rotola la frase sulla lingua per un istante: Ero un ragazzo di città, ha detto, era un ragazzo di città, è un non-più-segreto che ha condiviso con lei, una microscopica terribile ammissione – di lui da ragazzo, di lui con una città, qualcosa che ha condiviso gratuitamente con lei.
« Io no » farfuglia appena lei. « E il motivo è che, ovviamente, io non ho un pene. »
Esitano un po’ su quell’affermazione.
« Però ho le tette » sbotta, nel caso in cui da parte di lui ci fosse una qualche perplessità al riguardo.
Silenzio.
« Sono enormi, grandi come montagne. Guarda. Sono proprio qui. Sul mio petto. Probabilmente non riesci neanche a vedermi in faccia, sono così grosse. Sono terribili pericoli naturali. Tifa mi invidia, ho due senoni enormi. Sono un’icona della fertilità. Guarda. Guarda. »
Per qualche insondabile motivo, lui non raccoglie il suo invito di esaminare la sua prima misura e mangia il resto della granita con molta forza.
Rigirandosi, lei tenta di mettersi le mani dietro la testa e di farle scampanellare come ha visto fare ad altre donne, ma le sue tette non sono fatte per scampanellare: sono fatte per trovarle fissa dimora in un circo, a suo parere, la Ragazza con le Tette Più Piccole al Mondo.
Si passa le mani davanti e prova a farle scampanellare manualmente, ma viene distratta da una specie di lento e sofferto rumore strozzato che proviene dalla gola di Vincent. È rosso come se stesse morendo di vergogna, cosa che a lei risulta perversa.
« Stai morendo? Posso farti la respirazione bocca a bocca. O posso convincere uno di quei corpulenti bagnini a farti la respirazione bocca a bocca. Scommetto che non vedi l’ora di farti fare la respirazione bocca a bocca da un bagnino corpulento. Potrebbe entrarti della sabbia nell’artiglio mostruoso, però. »
« … Che ci fai qui? »
« È un segreto. »
Ci sono talmente tanti silenzi tra di loro, pensa lei, che la loro lorotudine è come uno spettacolo teatrale con troppi intervalli. Prima lei provava a riempirli con le sue parola; ora non funziona più, se mai abbia funzionato, se funzionerà mai.
Il silenzio di lui è un monologo malamente abbozzato.
« Potrei chiederti che ci fai tu qui- »
« … Ma non lo farai. »
« Lo so già. »
Dondola i piedi avanti e indietro.
« Sei qui con me a mangiare granite su una panchina a sudare nel tuo pigiama nero. Che è piuttosto affascinante, devo dire. Mangi granite come una mucca che ha appena avuto un trapianto di lingua. Sei sempre troppo pudico. Caccia fuori la lingua. »
(Incredibilmente, lui esegue, con la stessa convinzione di un tizio che teme l’appuntamento col dottore)
« Visto? La tua lingua è solo parzialmente verde. La tua lingua dovrebbe essere del verde di una piaga ipersonica. »
« Se lo dici tu. »
« Puoi dirlo forte. »
« Continuo a non sapere cosa dirti. »
« Ogni volta che lo dici vorrei soltanto baciarti così forte da romperti la mascella » dice, ma non ad alta voce: suda freddo, perché l’ha appena pensato, l’ha pensato nella sua testa, un’idea segreta e privata quasi fosse una marachella.
Quel pensiero la preoccupa come un dente che traballa fino a che non si evolve in: « e poi subito dopo vorrei baciarti tutta la tua svenevole mascella rotta, e poi vorrei sbottonarti la camicia e fare in modo che tu mi tenga tra le tue stupide meravigliose braccia virili e deprimenti. E poi magari fare anche un po’ di sesso, perché ho diciassette anni. »
« Devo andare » dice, e prima che lui possa dire nulla getta la sua granita a terra, creando una terribile pozzanghera rossa, e pianta le mani sulla ghiaia sabbiosa per alzarsi in maniera spettacolare dalla panchina e poi scattare via via via via via e balzare lontano da lui.
Il mare le dà un 9,5.
« Addio, Yuffie » dice Vincent alla granita.



Quando le manca solo un mese al compimento dei diciott’anni, lo segue nella polvere dura dei canyon, senza farsi vedere e senza dargli troppo vantaggio, ingoiando i suoi passi alla luce lunare, mangiando l’ombra del suo cammino, divorando la brezza che soffia tra i suoi capelli spettinati, vivendo unicamente del suo battito cardiaco a un miglio di distanza.
Continua così per sei giorni, e adesso le manca un mese meno sei giorni al suo compleanno; si infila in tasca una Restore a mo’ di pallina anti-stress per confortarsi tra le rocce fredde, di notte e in questa sua sua terribile disperazione Vincent Valentine-style – e poi una notte la getta via con tanta forza che riesce a sentire il minuscolo plink in fondo al dirupo, e capisce che le cose le stanno sfuggendo dolorosamente di mano quando si accorge di star per lanciare una materia perfettamente in buono stato addosso a Vincent Valentine.
La sesta notte si ferma: la smette di seguirlo, insomma, si arrende, e irrompe nel suo campo di fortuna – è appoggiato a una roccia e sta guardando il fuoco, e sta anche facendo qualcosa con dell’olio e un panno al suo braccio metallico, e vorrebbe strappargli di dosso la pelle e rompergli la testa e fargli male.
(È una cosa veramente terribile avere quasi diciott’anni.)
« … Io non sono tenero » dice lui, al fuoco, a lei. « Non sono gentile, Yuffie. Non ho quello che vuoi. Non ho nessun tipo di inclinazione – non ho niente da darti. Vattene e lasciami stare. »
« Tu non sai quello che voglio. »
« Una volta ho avuto anch’io diciotto anni. »
« Io non ho diciott’anni, furbone. Io ho diciassette anni e oltre trecento giorni. »
« Una volta ho avuto pure io diciassette anni e oltre trecento giorni. » Ora il suo tono sembra persino un po’ canzonatorio; sotto quello spaventoso, opprimente nulla, quel veleno, quell’odio.
(È soprattutto il disprezzo che le fa tremare le mani.)
« Certo, qualcosa come un milione di anni fa, e non penso che te ne ricordi. Senza contare che è stato nello stesso periodo in cui la materia camminava sulla terra con delle grandi zampe da dinosauro- »
« Non capisci mai niente, Yuffie. Io ricordo tutto. Non sono simpatico, non sono tenero. Non sono umano. Non aspettarti questa roba da me. No. Non so come parlare a – a delle bambine. »
Colpita e affondata!
L’ha detto per ucciderla nel profondo, e vorrebbe ridere della sua inettitudine, ma invece è furiosa e sta correndo: è su di lui, le gambe attorcigliate alla sua vita, e gli sta dando dei pugni sulle spalle come avrebbe dovuto fare quel camion che non si è mai fatto vivo – le ginocchia gli cedono, facendolo ricadere nel terreno polveroso, mentre lei continua a colpire il suo stupido mantello, strattonandolo come farebbe un bambino.
Ha lasciato cadere il suo Conformer per terra e ha di nuovo cinque anni. Lui non vedrà mai una donna in lei; quando gli calcia la rotula da dietro lui non emette un suono.
« Ragazzo di città » è l’unica cosa che riesce ad urlare al canyon, l’unica cosa che lui le abbia mai dato e la sua ultima arma inesperta- « Ragazzo di città, ragazzo di città, ragazzo di città- »
Quando Yuffie si ferma, dentro di lei non c’è più nulla, è leggera come l’aria. Si libera un posto per la guancia nell’incavo della sua spalla, ben coperta dal velluto pesante del soprabito rosso.
Lui è immobile; e lei sta piangendo per lui, non per sé.
« Puoi ancora andare » mormora lui alle sue ragazze, le rocce. È immobile e rigido, e lei capisce, lei ha sempre saputo – il disprezzo per sé stesso, l’odio puerile, il suo tremendo astio verso qualsiasi cosa e ogni singolo atomo di Vincent Valentine.
Forse lo sta ferendo in maniera inverosimile, spingendogli nel fuoco il braccio, la fonte della sua vergogna – solo un altro peccato da ammucchiare sugli altri, pensa, solo un altro peccato.
« Puoi ancora andare, Yuffie. »
« Non ho mai saputo come andarmene » bisbiglia nella sua schiena, la ninja peso morto. « Non ho mai saputo come lasciarti. »
« … C’è ancora… »
« Ti sto ferendo e me ne andrò » dice lei, altrettanto martire quanto lui: inchiodata alla sua croce rossa, con addosso i propri personalissimi abiti neri stylish, ormai si è abbassata al suo livello.
Ora le serve soltanto una bara portatile.
« Me ne andrò ma non posso fare a meno di pensare che se non mi baci forse potrei morire e non fare mai diciott’anni. »
« … tempo » dice lui, e la rovescia a terra e la bacia.
« Odio quello che mi fai » dice lui, e la bacia.
« Odio quello in cui mi trasformi » dice lui, e la bacia.
« Odio quello che vuoi » dice lui, e la bacia: la bacia, la bacia, lui sa di verde, e la sta baciando sino a farla diventare leggera, e sorpresa, e sconvolta.
Non è mai stata una ragazzina per lui – e la sta baciando – perché forse per lui tutte le ragazze sono bambine, perché ha cinquant’anni ed è Chaos e al buio schiuma di rabbia da solo come la Galian Beast, ed è cupo, e antico, e sempre sempre per sempre un ventisettenne.
E avere ventisette anni, quando tutto è già detto e concluso, non è così dolorosamente diverso dall’avere quasi diciott’anni – e la sta baciando, come se non potesse baciarla più – e forse non lo farà – con la lingua, i denti e quelle gengive tanto belle, con il suo artiglio che le si conficca come uno spillo nella spalla al punto da farla sanguinare, mettendole sul capo tutti i peccati commessi dalla notte dei tempi in giù.
Non sapeva che ci fossero queste barriere; si sente completamente insignificante per averne custodito la chiave senza neppure saperlo – ma chi se sbatte, lui la sta baciando, squarciandole la bocca e prosciugandola fino al midollo.
Nessuno la bacerà mai più così, forse, non con questa conoscenza del mondo intero, con il fuoco che scoppietta sui rami secchi e il calore delle sue dita sulla pelle fredda: questo è lui, questo è quello che lui racchiude dentro di sé per paura che tutto il proprio sangue zampilli fuori e si mostri al mondo, questo è lui oh Dii-ii-oooooo l’ha fatto davvero? – ha fatto scivolare la mano in basso, lacerando il mondo nel tracciare con straordinaria gentilezza il contorno del suo capezzolo da sopra la sua maglietta.
E si ferma: lei è rinata, con i suoi diciassette anni e oltre trecento giorni, e lui la sta guardando con quei suoi terribili occhi rossi come rose.
« Grazie » dice lei, frastornata e stordita, e: « Ah: 9,9. »
« Non so se sarò mai in grado di fare qualcosa oltre a ferirti » dice lui: gentile, nessun opprimente odio di sé, semplice e pulito. « Io – o me – o quello che sono. Mi spiace. »
« A me no. Io ti amo, sai, Vinnie Valentine. Ti amo ti amo ti amo. »
« Sì » – e lui sorride, e le spezza il cuore, con tanta delicatezza. « Una volta ho avuto anch’io diciassette anni. »
Lei sta tremando come una foglia. Le sue ginocchia cedono quando si alza – e finisce per coprirgli il viso, per baciargli le sopracciglia e la punta del naso.
Si spolvera un po’; sente quasi che la pelle se ne andrà via nel gesto, e le sue vili viscere viscose sgusceranno via con il sudore.
« Probabilmente tornerò » dice lei, in tono disinvolto (affatto disinvolta). « Un giorno. Credo. Solo, dobbiamo piantarla di incontrarci così, non pensi. Non è il massimo. »
Lui si odia ancora di più; e per questo, ritorna il distaccato se stesso di prima, con l’angolo della bocca appena curvato all’insù mentre la guarda.
« … Suppongo di sì. »
« A meno che tu non voglia, non so, fare un po’ di sesso perverso e eccitante! »
Yuffie trova molto deprimente che lui trattenga il respiro e inarchi un sopracciglio come se non si sentisse assolutamente alla sua altezza. I vampiri mostruosi sono dei tali bugiardi decerebrati.
Eppure, le sue nocche – se si avvicinasse solo di un po’, non se ne andrebbe mai. Non se ne andrebbe mai mai mai mai.
« Buonanotte, Yuffie. »
Lei si allontana, e infila le mani nelle tasche, e fischietta un motivetto wutainiano gaio e festoso mentre si muove nelle tenebre – va terribilmente fuori tempo, a causa delle labbra gonfie e del cuore che batte all’impazzata – cammina come un ragazzo. E poi, quando lui non può vederla, corre come un pipistrello fuggito dall’inferno finché non riesce più a correre e si getta a terra per non perdersi del tutto.
Buonanotte, si ripete, buonanotte, buonanotte, buonanotte-
Quando avrà quasi diciannove anni, giura, lo colpirà in faccia più forte possibile e forse gli ruberà il mantello. Perché ora è un’adulta, e i mantelli sono fottutamente fighi.
« Per il resto » dice ad alta voce, « Mi terrò alla larga da Vincent Valentine. Lontana! Fine. Separation. Lunghe distanze. Divisione. Distacco. Addio- »



Quella notte torna indietro e gli ruba metà delle sue materia mentre dorme.
Babbeo.
   
 
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