- Prologo
– My Sanctuary.
- Per
tutto il tempo che c’è sempre stato
negato.
- Per le
mie migliori amiche.
- Per te
Per me..
- Per il
futuro, e per domani…
- Ero
sguaiatamente seduta per
terra: ginocchia in su, corverse rosse feat le frasi dei Bluvertigo
scritte
sulla stoffa, (che –oh, mamma, quanto avevi ragione!- con la
pioggia non sono
l’ideale, diciamo che fanno cagare, ecco) gambe leggermente
aperte (ma con gli
short era lecito), maglia proveniente da Chicago accuratamente
tagliuzzata con
forbici da unghie e – squillo di trombe – sigaretta
accesa fra le labbra.
- Insomma, una
visione biblica.
- Mi gingillavo
sfilando
l’orlo
della mia t-shirt, le spalle scoperte contro il metallo di una
transenna, il
fumo negli occhi e le altre persone accanto a me, vite ignote, storie
che non
avrei mai ascoltato.
- Accanto a me,
visione biblica
pure lei, la bella Eden in nuance pallida e spirito guerriero
post-mestruazioni. Guardava schifata la mia sigaretta e sembrava stesse
pensando a come distruggerla con scatto felino; felino, poi, pfh.
- -Sei
anticostituzionale.-
- -E questo era
appurato, Eden-
- -Stai
infrangendo il mio
diritto personale di non morire in una tomba di fumo con te. -
- Non risposi,
uno sbuffo era
più che sufficiente; spensi la sigaretta strozzandola con la
gomma della
scarpa, guardai con sguardo da cane bastonato il tipo rasta accanto a
me ed
osservai, nauseata, Eden afferrare un libro di greco dal suo zainone e
mettersi
a ripetere.
- -Che vuoi? Fra
tre giorni,
stronza, tre, abbiamo lo scritto.-
- Fu allora che
persi ogni
speranza nei miei confronti; perché io, ecco, me
n’ero totalmente dimenticata.
- Nel frattempo,
mentre
riflettevo sul mio dramma sociale (non che della maturità me
ne infischiassi
più di tanto – ero giovane, sbandata e
anti-democristiana), le luci si
spensero, le gambe mi issarono in piedi ed un tastierista un
po’ egocentrico
occupò il mio spazio mentale per un po’ di tempo.
- Ecco, definire
quel
tastierista “egocentrico” era un eufemismo uscito
male, veramente.
- Di fronte ad
Eden – tutta
urli e friccicorii – il cantante, fossette e voce
altisonante, ballava.
- Mi chiesi se
per caso mi
trovassi in Salento, alla gioviale sagra della taranta,
perché, davvero, si
muoveva come un matto.
- Comunque.
- Evidentemente le tre birre comprate dalla bacinella di ghiaccio ambulante stavano tenendo un discorso d’alti livelli nella mia pancia, fermentando e saltellando gioiosamente, manifestando pro-vomito. Bene. Sorriso d’incoraggiamento.
- Il concerto era
finito ed
aveva lasciato sulla mia pelle il sapore agrodolce del sudore e di
tutte le
emozioni che avevano trapassato la mia epidermide, sorvolando il mio corpo
ed
infrangendosi nell’aria. Avevo pianto, urlato, strepitato,
riso, gioito e m’ero
incazzata: ora dentro me restava solo il vuoto della persona che ero
prima,
sembravo solo un guscio d’un metile. Una brutta cozza nera di
mascara sciolto.
- Con le converse
stracciate da
un lato mi diressi verso l’uscita traballante, senza notare
Eden, lasciandola
indietro. L’impatto termico fu terribile: arrivata nel
giardino del palazzetto,
tutto fiori chiusi a dormire e macchine rombanti, sentii il freddo
dicembrino
arrossarmi il naso e il vento sferzarmi le ginocchia nude. Shorts
d’inverno,
scelta sbagliata.
- M’accasciai
piano accanto ad uno
dei cancelli principali e m’accesi una sigaretta. Vidi Eden
sorpassarmi,
fermarsi, guardarmi in silenzio; anche lei aveva un aspetto sconvolto.
- -Dimmi che
torni a casa,
questa volta-
- -Dimmi che
placherai anche
stavolta la furia di mia madre, perché non lo
farò-
- -Se ha finito
il lexotan
muore, tua madre. E poi son cazzi tuoi.-
- -E del
pateterno, ricorda.-
- -Ciao-
- -Grazie Eden.-
- -Mhph.- Disse
scappando alla
macchina.
- Accanto al lato
destro della
mia bocca si accucciò una lacrima nera. Poi
un’altra; un’altra ancora. Così, in
silenzio, lasciavo scorrere gli ultimi rimasugli delle mie emozioni sul
volto e
mi liberavo: dalle paure, dal passato, dalla falsità, dai
pregiudizi, dal
turbamento, dalla tristezza, dall’eccitazione. Mi liberavo di
tutto
definitivamente.
- Tre giorni e mi
sarei –
possibilmente – sentita un maiale che va al macello per
l’ultima volta. Via
anche il peso della scuola, della costrizione, della cultura che
cultura non è.
- Evidentemente,
persa in me
stessa, non notai l’avanzare veloce delle ore: fuori lo
stadio non c’era anima
viva se non me, labbra viola dal freddo ed occhi vitrei (- se si
ghiacciavano
le lacrime negli occhi?).
- Il ritratto
della salute,
comunque.
- Presi un altro
bastoncino
tumoroso e lo poggiai sulle labbra, portai una mano a formare una
capanna
attorno alla mia bocca e feci scattare l’accendino una
ventina di volte prima
di capire che – inevitabilmente – non funzionava..
- Scagliai quel
dannato
accendino coi pinguini lontano da me e mi morsi un labbro.
- -Ho da
accendere, se vuoi.-
mormorò una voce maschile nel silenzio.
- Io,
diciannovenne quasi
ventenne senza paura, misi già in chiaro un paio di cose
mormorando –non te lo
faccio un pompino, vecchio porco.-
- Non credo fosse
la battuta
esatta. Alzai molto lentamente lo sguardo, dall’asfalto alla
foce della voce e
m’accorsi, con sgomento, di star parlando a
quell’egocentrico del tastierista.
- Comunque ero
una gran
signora: non mostrai neanche un segno di stupore.
- Lui
ridacchiò baritonale e mi
concedette una seconda chance assieme ad un occhiolino, dicendo
–Se proprio non
vuoi accendere, allora permettimi di chiederti cosa ci fai qua fuori.-
- -Permesso
rifiutato- osservai
la sua faccia semi-sgomenta -Almeno
non
qui. Almeno davanti ad un caffè, se proprio vuoi.-
- Mia madre
avrebbe buttato le
magliette dei Vampire Weekend, per questo. Se trovava le forbici,
distruggeva
pure la postepay.
- Eden mi avrebbe
odiato per
questo; mi aveva già odiato per aver mangiato il suo gelato
lasciato
incostudito nel freezer, per avere le pantofole della Disney e per un
mare di
cosette stupide. Ora l’avevo fatta proprio grossa.
- Effettivamente,
nei miei
strani anni di vita, prendere un caffè - molto
tranquillamente - con il mio
idolo, non era mai stato fra le mie aspettative. Vivevo la musica in
modo
totalmente devoto, per niente distaccato, mi sentivo stupida parlando
dei miei
miti come fossero amici stretti, e nelle notti lunghe e tempestose, era
solo il
mio vecchio lettore di cd a consolarmi. Dicevano che ero matta.
- Quello stile di
vita m’era
entrato dentro dai 14 anni, dal mio primo concerto.
- Mentre
osservavo Davide
parlare e parlare, mi venne in mente una vecchia canzone di Cristina
Donà,
quella dell’astronauta, “Universo”.
- “Dentro
una vertigine che danza e ci porta aldilà del
tempo”
- Vista da fuori
potevo
sembrare una tipa “dura”, ma dentro ero calda, in
quel momento addirittura mi
sentivo sciolta; mi palpitava il cuore e il respiro prendeva il volo.
Arrossivo
e me ne vergognavo.
- Mentre Davide
parlava del
tour, delle gaffe, del divertimento, mi perdevo nella luce soffusa del
lounge
bar, mi perdevo nel suo crepuscolare tono di voce dalle due di notte,
mi
perdevo nella distesa immensa del mio animo.
- -E allora io
guardo Leo ed
urlo : “Occristo, i miei calzini, sulle tue
orecchie!”-
- Risi di cuore.
- Presi
l’I-phone e confessai
ad Eden tramite sms il mio reato.
- “Sono a prendere un caffè con
Davide.”
- Il suddetto
tastierista,
intanto, rigirava il cucchiaino nella sua crema di caffè
gelata (- era inverno,
ma cazzo), sembrava
ridacchiante.
- -Menomale che
è così tardi e
che ‘sto bar è sconosciuto. –
- -Ti manca?-
- -Cosa?-
drizzò lo sguardo e
inclinò la testa.
- -Andare in giro
tranquillamente, cose così-
- -Molto,
sì.-
- -Immagino.-
- Il cellulare
vibrò.
- “Ma se non lo vedevi dalle elementari?”
- Ridacchiai.
- -Chi
è?- disse lui cercando
di sbirciare.
- -Nulla, la mia
migliore
amica, Eden. Mi odierà a vita. -
- -Dille che la
saluto.-
- “Davide il tastierista; non odiarmi, ti
saluta”
- La risposta fu
quasi
immediata.
- “Cortesemente, ficcati un cipresso in culo
– firmato, la redazione.
(CIAO DAVI!)”
- Davide
poggiò quasi la testa
sulla mia spalla nuda (- vestirsi d’estate in Dicembre!),
lesse il messaggio e
ridacchiò.
- -Però,
è simpatica.- disse,
grattandosi il naso.
- Ridacchiai
facendo sobbalzare
la testa di lui, ridacchiai nervosa ma senza mostrarlo. Un filo di
vento entrò
dalla finestra del lounge bar, rabbrividii.
- Lui, intanto,
dopo essersi
guardato demoralizzando rendendosi conto di non avere una giacca da
offrirmi e
dopo aver sorriso al mio cardigan nero (emerso dalla borsa),
afferrò l’I-phone
ed iniziò a curiosare nella mia vita.
- -Cosa ti
dà il diritto di
farlo?- dissi irritata.
- -Il fatto che,
a quanto vedo,
si parla di me .-
- -EH?-
- “Sinceramente non saprei cosa farmene di Leo,
carino sì, ma è Davide
che…beh, insomma.”
- E la risposta
di Eden: “Tu sei più per
il sesso selvaggio, sorella!”
- Ed io:
“Macché, Davide si
scoprirebbe più romantico del previsto – credimi.”
- Arrossii
terribilmente.
- -Dai, non ti
biasimare.-
disse lui tutto fiero di sé
-E poi credo
tu ci abbia azzeccato- aggiunse facendomi un maldestro occhiolino.
- Volevo mordermi
il labbro
fino a distruggerlo.
- -Narcisista. -
- -Ma se
l’hai detto tu!-
- -Dettagli.
– sorrisi. Lui
sorrise.
- -Dove abiti?-
- Ero inesperta e
lui aveva una
decina d’anni più di me ed io ero stupida e mi
sentivo male solo a pensarci ed
avevo vissuto momenti così terribili da averne le cicatrici
sulla pelle e lui, lui non lo
poteva sapere. Non poteva
sapere nulla della nausea che mi prendeva alla bocca dello stomaco al
pensiero
di tornare a casa, non sapeva nulla neanche di quanto avrei desiderato
dormire
con lui – era un pensiero stupido e superficiale, e lo
sentivo divenire
cutaneo, era sulla mia pelle, quel pensiero; me lo si leggeva negli
occhi. Non
volevo star con lui o farci sesso, avrei solo desiderato star via per
quella
notte, lontano da me stessa e da chiunque. Volevo immergermi di
quell’assurda
sensazione per un altro po’, invaghita di quella figura sulla
quale gravavano
anni ed anni di idealizzazione, di stima artistica ed
amore…amore per la sua
arte. Invaghita di qualcuno che non conoscevo neanche di sfuggita.
- Comunque non
risposi; mi
alzai direttamente. Strozzai sul nascere un attacco di panico e presi
coscienza
del fatto che dovevo andarmene. Mi corrucciai un tantino.
- -Torno da
sola.-
- -…Come?-
- -Metrò-
risposi distogliendo
lo sguardo dai suoi occhi, guardando altrove, guardando avanti nel
futuro, alle
mille altre notti insonni che sarebbero venute, alle mille volte in cui
avrei
detto a chiunque di quella volta in un bar sconosciuto a prendere un
caffè col
mio idolo, sì, quello di cui parlavo spesso, sì,
quello.
- -Metrò-
ripeté lui, ribadendo
con un cenno della testa, con un riccio che cadde a coprire gli occhi
scuri.
- Mi
accompagnò fino alla
stazione sotterranea, mi accompagnò fino alla vettura lercia
e semi-vuota, si
assicurò che fossi al sicuro e che tornassi a casa. Non mi
chiese neanche
quanti anni avevo.
- Mi
abbandonò, lì, con un
saluto, come se fossi una vecchia amica, ed io rimasi davanti alla
porta della
carrozza, rimasi a toccarmi il braccio su cui le sue dita avevano
esercitato
una leggera pressione a mo’ di saluto. Rimasi lì,
me stessa, la saudade
brasiliana che sbocciava nel mio petto al pensiero di tornare alla
normalità,
agli esami, senza più un concerto, una data
d’aspettare, una liberazione da
quella vita spoglia, nuda, invernale tutto l’anno. Non ero
una superdonna, non
ero capace di colpi di scena teatrali o storie ricche di suspance, non
ero
capace di gestire rapporti umani soddisfacenti, né di
battute brillanti, né di
sostenere complimenti senza arrossire. Ero me stessa e la mia storia
non aveva
nulla di particolare dalle altre. Carne fra carni, donna fra donne e
vita fra
vite.
- Rimasi
lì a ricordare il tour
della mia vita, della mia storia, finché la voce femminile
della metrò annunciò
la mia fermata.
- Il tour del mio
cuore aveva
annullato una data: quella per raggiungerlo. Era lontano –
immensamente.