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Autore: past_zonk    21/07/2011    2 recensioni
Le vicende pseudosentimentali di un gruppo d'amiche che stanno imparando a crescere, fra amori, musica e concerti. Fra sogni mai espressi che sembrano diventare realtà, fra i portici di una città e le paranoie di una schizoide protagonista. Tutto sembra banale, e forse lo è, ma è la nostra storia, la storia di chi vorrebbe allungare la mano e toccare la felicità.
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prologo – My Sanctuary.
 
Per tutto il tempo che c’è sempre stato negato.
Per le mie migliori amiche.
Per te Per me..
Per il futuro, e per domani…
 
 
Ero sguaiatamente seduta per terra: ginocchia in su, corverse rosse feat le frasi dei Bluvertigo scritte sulla stoffa, (che –oh, mamma, quanto avevi ragione!- con la pioggia non sono l’ideale, diciamo che fanno cagare, ecco) gambe leggermente aperte (ma con gli short era lecito), maglia proveniente da Chicago accuratamente tagliuzzata con forbici da unghie e – squillo di trombe – sigaretta accesa fra le labbra.
Insomma, una visione biblica.
Mi gingillavo sfilando l’orlo della mia t-shirt, le spalle scoperte contro il metallo di una transenna, il fumo negli occhi e le altre persone accanto a me, vite ignote, storie che non avrei mai ascoltato.
Accanto a me, visione biblica pure lei, la bella Eden in nuance pallida e spirito guerriero post-mestruazioni. Guardava schifata la mia sigaretta e sembrava stesse pensando a come distruggerla con scatto felino; felino, poi, pfh.
-Sei anticostituzionale.-
-E questo era appurato, Eden-
-Stai infrangendo il mio diritto personale di non morire in una tomba di fumo con te. -
Non risposi, uno sbuffo era più che sufficiente; spensi la sigaretta strozzandola con la gomma della scarpa, guardai con sguardo da cane bastonato il tipo rasta accanto a me ed osservai, nauseata, Eden afferrare un libro di greco dal suo zainone e mettersi a ripetere.
-Che vuoi? Fra tre giorni, stronza, tre, abbiamo lo scritto.-
Fu allora che persi ogni speranza nei miei confronti; perché io, ecco, me n’ero totalmente dimenticata.
Nel frattempo, mentre riflettevo sul mio dramma sociale (non che della maturità me ne infischiassi più di tanto – ero giovane, sbandata e anti-democristiana), le luci si spensero, le gambe mi issarono in piedi ed un tastierista un po’ egocentrico occupò il mio spazio mentale per un po’ di tempo.
Ecco, definire quel tastierista “egocentrico” era un eufemismo uscito male, veramente.
Di fronte ad Eden – tutta urli e friccicorii – il cantante, fossette e voce altisonante, ballava.
Mi chiesi se per caso mi trovassi in Salento, alla gioviale sagra della taranta, perché, davvero, si muoveva come un matto.
Comunque.
Evidentemente le tre birre comprate dalla bacinella di ghiaccio ambulante stavano tenendo un discorso d’alti livelli nella mia pancia, fermentando e saltellando gioiosamente, manifestando pro-vomito. Bene. Sorriso d’incoraggiamento.


 
 
Il concerto era finito ed aveva lasciato sulla mia pelle il sapore agrodolce del sudore e di tutte le emozioni che avevano trapassato la mia epidermide, sorvolando il mio corpo ed infrangendosi nell’aria. Avevo pianto, urlato, strepitato, riso, gioito e m’ero incazzata: ora dentro me restava solo il vuoto della persona che ero prima, sembravo solo un guscio d’un metile. Una brutta cozza nera di mascara sciolto.
Con le converse stracciate da un lato mi diressi verso l’uscita traballante, senza notare Eden, lasciandola indietro. L’impatto termico fu terribile: arrivata nel giardino del palazzetto, tutto fiori chiusi a dormire e macchine rombanti, sentii il freddo dicembrino arrossarmi il naso e il vento sferzarmi le ginocchia nude. Shorts d’inverno, scelta sbagliata.
M’accasciai piano accanto ad uno dei cancelli principali e m’accesi una sigaretta. Vidi Eden sorpassarmi, fermarsi, guardarmi in silenzio; anche lei aveva un aspetto sconvolto.
-Dimmi che torni a casa, questa volta-
-Dimmi che placherai anche stavolta la furia di mia madre, perché non lo farò-
-Se ha finito il lexotan muore, tua madre. E poi son cazzi tuoi.-
-E del pateterno, ricorda.-
-Ciao-
-Grazie Eden.-
-Mhph.- Disse scappando alla macchina.
Accanto al lato destro della mia bocca si accucciò una lacrima nera. Poi un’altra; un’altra ancora. Così, in silenzio, lasciavo scorrere gli ultimi rimasugli delle mie emozioni sul volto e mi liberavo: dalle paure, dal passato, dalla falsità, dai pregiudizi, dal turbamento, dalla tristezza, dall’eccitazione. Mi liberavo di tutto definitivamente.
Tre giorni e mi sarei – possibilmente – sentita un maiale che va al macello per l’ultima volta. Via anche il peso della scuola, della costrizione, della cultura che cultura non è.
Evidentemente, persa in me stessa, non notai l’avanzare veloce delle ore: fuori lo stadio non c’era anima viva se non me, labbra viola dal freddo ed occhi vitrei (- se si ghiacciavano le lacrime negli occhi?).
Il ritratto della salute, comunque.
Presi un altro bastoncino tumoroso e lo poggiai sulle labbra, portai una mano a formare una capanna attorno alla mia bocca e feci scattare l’accendino una ventina di volte prima di capire che – inevitabilmente – non funzionava..
Scagliai quel dannato accendino coi pinguini lontano da me e mi morsi un labbro.
-Ho da accendere, se vuoi.- mormorò una voce maschile nel silenzio.
Io, diciannovenne quasi ventenne senza paura, misi già in chiaro un paio di cose mormorando –non te lo faccio un pompino, vecchio porco.-
Non credo fosse la battuta esatta. Alzai molto lentamente lo sguardo, dall’asfalto alla foce della voce e m’accorsi, con sgomento, di star parlando a quell’egocentrico del tastierista.
Comunque ero una gran signora: non mostrai neanche un segno di stupore.
Lui ridacchiò baritonale e mi concedette una seconda chance assieme ad un occhiolino, dicendo –Se proprio non vuoi accendere, allora permettimi di chiederti cosa ci fai qua fuori.-
-Permesso rifiutato- osservai la sua faccia semi-sgomenta  -Almeno non qui. Almeno davanti ad un caffè, se proprio vuoi.-
Mia madre avrebbe buttato le magliette dei Vampire Weekend, per questo. Se trovava le forbici, distruggeva pure la postepay.
 
 
 
Eden mi avrebbe odiato per questo; mi aveva già odiato per aver mangiato il suo gelato lasciato incostudito nel freezer, per avere le pantofole della Disney e per un mare di cosette stupide. Ora l’avevo fatta proprio grossa.
Effettivamente, nei miei strani anni di vita, prendere un caffè - molto tranquillamente - con il mio idolo, non era mai stato fra le mie aspettative. Vivevo la musica in modo totalmente devoto, per niente distaccato, mi sentivo stupida parlando dei miei miti come fossero amici stretti, e nelle notti lunghe e tempestose, era solo il mio vecchio lettore di cd a consolarmi. Dicevano che ero matta.
Quello stile di vita m’era entrato dentro dai 14 anni, dal mio primo concerto.
Mentre osservavo Davide parlare e parlare, mi venne in mente una vecchia canzone di Cristina Donà, quella dell’astronauta, “Universo”.
“Dentro una vertigine che danza e ci porta aldilà del tempo”
Vista da fuori potevo sembrare una tipa “dura”, ma dentro ero calda, in quel momento addirittura mi sentivo sciolta; mi palpitava il cuore e il respiro prendeva il volo. Arrossivo e me ne vergognavo.
Mentre Davide parlava del tour, delle gaffe, del divertimento, mi perdevo nella luce soffusa del lounge bar, mi perdevo nel suo crepuscolare tono di voce dalle due di notte, mi perdevo nella distesa immensa del mio animo.
-E allora io guardo Leo ed urlo : “Occristo, i miei calzini, sulle tue orecchie!”-
Risi di cuore.
Presi l’I-phone e confessai ad Eden tramite sms il mio reato.
Sono a prendere un caffè con Davide.”
Il suddetto tastierista, intanto, rigirava il cucchiaino nella sua crema di caffè gelata (- era inverno, ma cazzo),  sembrava ridacchiante.
-Menomale che è così tardi e che ‘sto bar è sconosciuto. –
-Ti manca?-
-Cosa?- drizzò lo sguardo e inclinò la testa.
-Andare in giro tranquillamente, cose così-
-Molto, sì.-
-Immagino.-
Il cellulare vibrò.
Ma se non lo vedevi dalle elementari?”
Ridacchiai.
-Chi è?- disse lui cercando di sbirciare.
-Nulla, la mia migliore amica, Eden. Mi odierà a vita. -
-Dille che la saluto.-
Davide il tastierista; non odiarmi, ti saluta”
La risposta fu quasi immediata.
Cortesemente, ficcati un cipresso in culo – firmato, la redazione. (CIAO DAVI!)”
Davide poggiò quasi la testa sulla mia spalla nuda (- vestirsi d’estate in Dicembre!), lesse il messaggio e ridacchiò.
-Però, è simpatica.-  disse, grattandosi il naso.
Ridacchiai facendo sobbalzare la testa di lui, ridacchiai nervosa ma senza mostrarlo. Un filo di vento entrò dalla finestra del lounge bar, rabbrividii.
Lui, intanto, dopo essersi guardato demoralizzando rendendosi conto di non avere una giacca da offrirmi e dopo aver sorriso al mio cardigan nero (emerso dalla borsa), afferrò l’I-phone ed iniziò a curiosare nella mia vita.
-Cosa ti dà il diritto di farlo?- dissi irritata.
-Il fatto che, a quanto vedo, si parla di me .-
-EH?-
Sinceramente non saprei cosa farmene di Leo, carino sì, ma è Davide che…beh, insomma.
E la risposta di Eden: “Tu sei più per il sesso selvaggio, sorella!
Ed io: “Macché, Davide si scoprirebbe più romantico del previsto – credimi.
Arrossii terribilmente.
-Dai, non ti biasimare.- disse lui tutto fiero di sé  -E poi credo tu ci abbia azzeccato- aggiunse facendomi un maldestro occhiolino.
Volevo mordermi il labbro fino a distruggerlo.
-Narcisista. -
-Ma se l’hai detto tu!-
-Dettagli. – sorrisi. Lui sorrise.
-Dove abiti?-
Ero inesperta e lui aveva una decina d’anni più di me ed io ero stupida e mi sentivo male solo a pensarci ed avevo vissuto momenti così terribili da averne le cicatrici sulla pelle e lui, lui non lo poteva sapere. Non poteva sapere nulla della nausea che mi prendeva alla bocca dello stomaco al pensiero di tornare a casa, non sapeva nulla neanche di quanto avrei desiderato dormire con lui – era un pensiero stupido e superficiale, e lo sentivo divenire cutaneo, era sulla mia pelle, quel pensiero; me lo si leggeva negli occhi. Non volevo star con lui o farci sesso, avrei solo desiderato star via per quella notte, lontano da me stessa e da chiunque. Volevo immergermi di quell’assurda sensazione per un altro po’, invaghita di quella figura sulla quale gravavano anni ed anni di idealizzazione, di stima artistica ed amore…amore per la sua arte. Invaghita di qualcuno che non conoscevo neanche di sfuggita.
Comunque non risposi; mi alzai direttamente. Strozzai sul nascere un attacco di panico e presi coscienza del fatto che dovevo andarmene. Mi corrucciai un tantino.
-Torno da sola.-
-…Come?-
-Metrò- risposi distogliendo lo sguardo dai suoi occhi, guardando altrove, guardando avanti nel futuro, alle mille altre notti insonni che sarebbero venute, alle mille volte in cui avrei detto a chiunque di quella volta in un bar sconosciuto a prendere un caffè col mio idolo, sì, quello di cui parlavo spesso, sì, quello.
-Metrò- ripeté lui, ribadendo con un cenno della testa, con un riccio che cadde a coprire gli occhi scuri.
Mi accompagnò fino alla stazione sotterranea, mi accompagnò fino alla vettura lercia e semi-vuota, si assicurò che fossi al sicuro e che tornassi a casa. Non mi chiese neanche quanti anni avevo.
Mi abbandonò, lì, con un saluto, come se fossi una vecchia amica, ed io rimasi davanti alla porta della carrozza, rimasi a toccarmi il braccio su cui le sue dita avevano esercitato una leggera pressione a mo’ di saluto. Rimasi lì, me stessa, la saudade brasiliana che sbocciava nel mio petto al pensiero di tornare alla normalità, agli esami, senza più un concerto, una data d’aspettare, una liberazione da quella vita spoglia, nuda, invernale tutto l’anno. Non ero una superdonna, non ero capace di colpi di scena teatrali o storie ricche di suspance, non ero capace di gestire rapporti umani soddisfacenti, né di battute brillanti, né di sostenere complimenti senza arrossire. Ero me stessa e la mia storia non aveva nulla di particolare dalle altre. Carne fra carni, donna fra donne e vita fra vite.
Rimasi lì a ricordare il tour della mia vita, della mia storia, finché la voce femminile della metrò annunciò la mia fermata.
Il tour del mio cuore aveva annullato una data: quella per raggiungerlo. Era lontano – immensamente.

 

   
 
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