Film > Sherlock Holmes
Ricorda la storia  |      
Autore: manubibi    21/07/2011    3 recensioni
La prima volta è Inverno e la teiera scoppietta pigramente con dei piccoli borbottii sul fuoco basso, mentre John Watson aspira a piccole boccate dalla sua vecchia pipa reduce dei tempi di guerra; seduto - o meglio, quasi sdraiato - sulla sedia, guarda in alto e riflette sulle tante e varie domande che si è posto negli ultimi tempi, fra le quali: come dire a Holmes, al suo caro Holmes, che presto o tardi se ne andrà? Infatti da poco il dottore ha scoperto di provare dei sentimenti che mai prima avrebbe previsto di potersi sentire sciogliere nel petto. Sentimenti molto simili all'affetto, al calore, al conforto. John Watson sente ancora le ferite della guerra, nonostante siano passati degli anni e le macchie di sangue sulle sue dita, che prima vedeva continuamente, sembrano essere sparite. Ed è certo che tutto quell'insieme di grovigli che sente nello stomaco quando la vede non siano malori, ma piacevoli torture che rendono più vivi i suoi rapporti con la donna.
Ed è proprio il coinquilino che interrompe il filo dei suoi pensieri, picchiettando dolcemente sul suo naso e guardandolo con espressione seria ed incolore, come sempre.
one-shot da 5000+ parole, quindi mettetevi comodi XD
Genere: Erotico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lime, Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 

❦ TRE VOLTE IN CU JOHN WATSON AVREBBE VOLUTO USARE LA FRUSTA ED UNA VOLTA IN CUI L'HA FATTO DAVVERO ❦

 

 

La prima volta è Inverno e la teiera scoppietta pigramente con dei piccoli borbottii sul fuoco basso, mentre John Watson aspira a piccole boccate dalla sua vecchia pipa reduce dei tempi di guerra; seduto - o meglio, quasi sdraiato - sulla sedia, guarda in alto e riflette sulle tante e varie domande che si è posto negli ultimi tempi, fra le quali: come dire a Holmes, al suo caro Holmes, che presto o tardi se ne andrà? Infatti da poco il dottore ha scoperto di provare dei sentimenti che mai prima avrebbe previsto di potersi sentire sciogliere nel petto. Sentimenti molto simili all'affetto, al calore, al conforto. John Watson sente ancora le ferite della guerra, nonostante siano passati degli anni e le macchie di sangue sulle sue dita, che prima vedeva continuamente, sembrano essere sparite. Ed è certo che tutto quell'insieme di grovigli che sente nello stomaco quando la vede non siano malori, ma piacevoli torture che rendono più vivi i suoi rapporti con la donna. 

Ed è proprio il coinquilino che interrompe il filo dei suoi pensieri, picchiettando dolcemente sul suo naso e guardandolo con espressione seria ed incolore, come sempre.

«Watson, si stava addormentando?» Mormora, come sempre. C'è una qualità nella voce di Holmes che affascina sempre il dottore: quando vuole la fa scivolare come olio o come un balsamo per calmare le sue frequenti ed evidenti ire, o semplicemente accompagna momenti di rilassamento come questo per rendere più piacevole un pomeriggio nel loro appartamento confortevole e familiare. Watson non ha nessun problema ad immaginarsi una lunga e proficua convivenza, fino a quando saranno anziani. E subito dopo si dà dello stupido, perché è certo che non vivranno assieme ancora per molto. Al formulare questo pensiero, Watson sospira quasi di delusione, scuotendo la testa.

«No, non mi stavo addormentando, amico mio. Stavo solo pensando...»

Holmes sorride appena, lasciandogli qualche pacca sulla spalla. «Beh, mio caro Watson, è ora di lasciare da parte i pensieri e saltare in carrozza! Ho in mente di fare una visita ad uno degli inquilini delle Houses of Parliament.»

«Perché?» Chiede subito l'altro, onestamente spiazzato.

«Pare che un parente di Lord Knollys sia stato ucciso proprio nella zona di Westminster...»

«E perché non ci va da solo?» Chiede quieto l'altro uomo, sospirando e rilasciando un altro sbuffo di fumo, che Holmes segue con gli occhi prima di tornare sulle sue labbra e posare lo sguardo su di esse per dei lunghi secondi, salvo poi riscuotersi. 

«Mi serve un parere medico sul cadavere. Pare che non sia stata utilizzata una semplice arma da taglio, il detective Lestrade non ne è venuto a capo.» Holmes piega la testa ghignando, lasciando intendere di non essere per niente stupito dell'ultima cosa che ha detto.

«Oh, sono certo che per una volta può fare a meno di me» Osserva il compagno, guardandolo di sottecchi. «Ci sarà pure un altro medico a Londra in grado di aiutarla... Perché oggi non mi lascia bere un tè senza vedere cadaveri tumefatti?» Lamenta poi, con una lieve supplica nella voce. «Per favore?»

Holmes lo osserva, strofinando le mani pacatamente.

«Non vorrà deludere un importante Lord del nostro Paese, vero?» Insinua, alzando un sopracciglio come a minacciarlo bonariamente.

«Questa è la cosa più assurda che lei abbia mai detto» Scandisce lentamente Watson, quasi ridendo.

«Sa benissimo che i giornali ormai ci descrivono come una coppia. Sul lavoro, intendo.»

«Sì, avevo capito in che senso» Replica John Watson, con un tono lievemente acido. «E comunque per una volta posso anche mancare.»

«No.»

«Holmes, perché non va a risolvere il suo caso e non mi lascia in pace?» Sospira pesantemente, alzando gli occhi al cielo. «Parola mia, a volte non capisco perché sia così insistente.»

«Perché mi sento più sicuro se è lei ad aiutarmi. Non voglio affidare un caso a mani che non conosco. Voglio le sue» Aggiunge Holmes, quasi in tono allusivo.

«Insomma, non sopporta che io voglia riposare un po' dopo un turno mattutino?» Conclude Watson, fissandolo con aria irritata.

«Esatto.»

«Vada al diavolo» Risponde, prendendo il giornale ed aprendolo con uno scatto di rabbia, facendo schioccare le pagine nell'aria ferma. «E mi versi il tè.» Aggiunge, senza guardarlo in viso, leggendo le notizie di cronaca ed alienandosi di nuovo - volontariamente - dall'amico. Che lo osserva e poi si arrende, decidendo che chiederà aiuto ad un medico qualsiasi, anche se poco auspicabile. Watson, con la coda dell'occhio, lancia un'occhiata al suo frustino per cavalli posato nell'angolo della stanza, vicino agli ombrelli. Quasi quasi lo userebbe per cacciare Holmes fuori di casa, una volta tanto.

 

 

 

La seconda volta John Watson sta correndo. Ansima, maledicendosi fra sé e sé nel buio appena rischiarato dalle lanterne e da qualche finestra, si maledice perché quel maledetto vizio del fumo l'ha affaticato negli sforzi fisici. Si maledice senza motivo, perché non sa bene come sia potuto finire in questa situazione: sta fuggendo da una minaccia robusta come uno stallone, aggressiva come un cane da guardia e pericolosa come un alligatore femmina che sorveglia la propria nidiata. E non è divertente neanche pensando che il soggetto in questione è un maschio.

In poche parole, Big Joe. Non sa bene come se lo sia ritrovato alle calcagna, ringhiante ed arrabbiato, quasi caracollante nella sua andatura goffa e distruttiva. Nel suo passaggio ha già distrutto o rovesciato svariati barili, porte lasciate incautamente aperte, sedie e persone senza risentirne minimamente. 

John Watson corre per salvare la pelle, più forte che può, nonostante la gamba che pulsa di un dolore quasi insopportabile. Ma di fronte alla possibilità di morte (o di un pestaggio da parte di uno dei criminali più grossi di tutta Londra)  si corre anche da zoppi. Stanno correndo entrambi nelle stradine più strette del West End, fra gli odori di liquami di dubbia provenienza, canti dissonanti di uomini ubriachi, gemiti che gli avventori di certi edifici non si prendono nemmeno la briga di abbassare di volume. E John Watson invece corre, sudando come mai in vita sua e sperando solamente di riuscire ad arrivare a Baker Street tutto intero; col cuore che, non abituato a sforzi così prolungati, batte forte non solo nel petto ma anche nelle vene del collo, nei polsi, nelle orecchie e contro le tempie. 

Finalmente giunge ad un incrocio che conosce - certo che lo conosce, è proprio sull'angolo con casa di Mary - ed accelera l'andatura, sotto le silenziose proteste del ginocchio e del miocardio. Solo un altro sforzo, solo altri dieci minuti e poi troverà casa, barricandosi dentro e lasciando l'affare nelle mani di Holmes. Dopotutto, se stasera sono usciti per indagare sul caso di Lord Knollys, è stata tutta colpa sua. E sì, non avrebbe dovuto lasciarsi convincere, ma dopotutto Holmes ha metodi piuttosto forti per convincerlo, ed ora che ci pensa John Watson ha un altro motivo per biasimarsi. Il suo proprio maledettissimo istinto animale. Se fosse calcolatore e freddo come il proprio compagno, probabilmente non lo asseconderebbe mai per poi trovarsi in questi pasticci.

Finalmente, in una vera e propria doccia appiccicosa di sudore e polvere, raggiunge casa fra un respiro difficoltoso e l'altro. Fa talmente fatica a parlare - a dire il vero anche solo a respirare - che non riesce quasi ad articolare alcun suono mentre prende a pugni disperati il proprio portone. 

Può sentire le urla selvagge di Big Joe rimbombare nella notte, noncuranti del silenzio nel sonno di chi l'indomani deve svegliarsi presto.

«Holmes... Holmes...» Ansima Watson, continuando a dare pugni sempre più deboli alla porta, sentendo girare la testa e chiudendo gli occhi, deglutendo e tornando brevemente in sé quando prende un respiro profondo che lotta contro l'attività forzata dei polmoni ed esclama un po' più forte. «Holmes!»

La porta si apre fortunatamente presto, quando l'amico si fa da parte guardandolo insistentemente e richiudendola piano dietro di sé.

«Che cosa le è successo, Watson?» Chiede, con la sua tipica flemma, che in questo caso non dà nemmeno sui nervi al dottore. È troppo stanco per rispondere piccato come dovrebbe.

«Big Joe... Fuori...» Esala, buttandosi sulla poltrona nonostante tutto lo sporco che riempie lo spazio limitato con un odore a dir poco disgustoso.

«Che cosa gli ha fatto per farlo arrabbiare tanto?» Domanda con calma, scostando cautamente la tenda della finestra giusto in tempo per osservare il testone del galeotto sfrecciare davanti al vetro.

«Io non gli ho fatto nulla, Holmes. Pare che gli sia bastato vedermi fuori dal pub per farlo arrabbiare. E capirà che non mi sono fermato a discuterci» Balbetta l'altro, senza risparmiare una vena di ironia.

«Ah.»

Pausa.

«Cosa vuol dire, "ah"? Holmes, per favore... La prego, mi dica che non c'è lei di mezzo. Ho davvero, ho assolutamente bisogno che lei me lo dica.»

«... Va bene, non ci sono io di mezzo» Risponde l'altro, dopo qualche attimo di esitazione.

«Bene... Bene» Mormora Watson, chiudendo gli occhi e rimanendo in quella posizione, concedendosi il lusso di concentrarsi sul dolore alla gamba che sta pulsando di nuovo, affievolendosi lentamente.

«È bene anche se non è la verità?» Chiede Holmes dopo qualche minuto passato a guardare fuori, accertandosi che la minaccia non stia tornando a farsi viva. Quasi teme il silenzio carico di tensione che si sta sollevando alle sue spalle come il più intenso dei boati, mentre Watson lentamente porta una mano agli occhi, massaggiandosi le palpebre e prendendosi la base del naso fra le dita, cercando di trattenersi.

«Che cosa vuol dire, Holmes?» Chiede a bassa voce, giusto per non mettersi ad urlare. Il che sarebbe sconvenientissimo e non è abbastanza ubriaco o stanco da dimenticarlo.

Il detective sospira piano, pensando fra le altre mille cose che ha preso dall'uomo seduto sulla poltrona un bruttissimo vizio: l'onestà immotivata. Perché avrebbe potuto rimanere in silenzio e lasciargli credere che quell'inseguimento fosse completamente scollegato dal proprio lavoro - o meglio, passatempo - ed invece non ha saputo resistere alla solita vecchia tentazione di essere onesto con lui e di dirgli sempre la verità. Prima o poi.

«L'ho solamente messa alla prova, mi serviva lei per sperimentare una mia teoria» Replica, chiudendo gli occhi ed attendendo una sfuriata che non tarda ad arrivare.

«Che cosa?!» Esclama Watson, spalancando gli occhi e girandosi verso di lui, più pallido del solito. «Mi dica che sta scherzando. Mi dica che non mi ha fatto correre per mezza Londra solo per provare uno dei suoi... Cielo» Si interrompe, lasciandosi di nuovo andare sulla poltrona, battendo piano la mano sul bracciolo per il nervosismo. «Mi dica che... Che sta scherzando.»

«Non sto scherzando, avevo previsto che sarebbe andata così» Spiega Holmes, sedendosi davanti a lui ed osservandolo di sottecchi. Watson, completamente esausto, non ha nemmeno la forza, o forse non vuole, di aprire gli occhi e guardare l'uomo che in questo momento sta odiando più di chiunque al mondo.

«L'aveva... Previsto?»

«Sì. Vede, mi serviva verificare che non fosse stato Big Joe ad uccidere il fratello del nostro Lord, perciò mi è servito ricostruire, più o meno, lo svolgimento dei fatti. E fortunatamente ho avuto ragione, altrimenti...» Si interrompe, lasciando svolazzare per aria un bruttissimo non-detto.

«Holmes. Per favore, mi spieghi cosa aveva intenzione di fare.»

Sherlock Holmes sospira, accomodandosi meglio ed alzando gli occhi al cielo come quando riflette. 

«Il signor Knollys è morto alle ore dieci e venticinque di due giorni fa, quindi di Martedì, quando una donna ha sentito il suo urlo riecheggiare lungo la strada; l'ultimo testimone ad averlo visto in vita ricorda che erano le nove e quarantasette quando l'ha visto camminare frettolosamente guardandosi alle spalle come se, per l'appunto, fosse inseguito. I miei sospetti sono ricaduti per prima cosa sul nostro amico Big Joe, essendo un tipo aggressivo - ma credo che lei l'abbia capito - ed avendo conti in sospeso con moltissimi nostri concittadini. Il fratello di Lord Knollys, Arthur, era inoltre un assiduo frequentatore di una delle case di Madame Plaisir...»

«"La poco linda" Lucinda?» Sospira Watson, passando di nuovo una mano sugli occhi.

«Esattamente. E la signorina in questione è anche legata affettivamente al signor Joe, quindi può immaginare da solo le mie conclusioni.

«Sì.» Watson si limita ad annuire, aspettando che l'amico arrivi al punto.

«Bene. Il mio esperimento, stasera, era nel confutare questo mio sospetto. Lei ci ha messo esattamente quaranta minuti ad arrivare qui, più di quanto mi aspettassi, e Big Joe non è riuscito a raggiungerla ma anzi, lei l'ha anticipato di ben cinque minuti, circa. Quindi non può essere lui il nostro assassino dato che non correva abbastanza forte, giusto per dirla in termini semplici.»

Se Watson ne avesse la forza, si metterebbe ad urlare così forte da farsi sentire fino a Cavendish Square; si limita invece a sospirare forte, parlando piano per troppa paura di avere un malore.

«Quindi, se non ho capito male, lei questa sera è uscito con me solo per fare questo bell'esperimento, vero? E mi ha lasciato solo non perché fosse annoiato dalle solite chiacchiere della borghesia, ma perché doveva venire a casa a... Misurare il tempo?»

«Tutto corretto, ma si sbaglia su un dettaglio: Io ero lì con lei, travestito da Lestrade.»

Watson per lo stupore decide anche di aprire gli occhi, fissandoli incredulo in quelli scuri del detective.

«Un momento. Significa che... Per venti minuti ho parlato con lei? E... Come ha fatto ad arrivare qui prima di me? E non sembra per niente affaticato!»

«Esattamente, ora so tutti i dettagli del matrimonio di Mrs. Wilson grazie a lei. Non che mi interessino. E per rispondere alla sua altra domanda... La prego, è stata una corsetta. Le riconosco che la sua lentezza fosse dovuta al dolore alla gamba e a proposito, mi dispiace che ne abbia dovuto risentire per questo esperimento.»

«Oh mio Dio, Holmes» Sospira di nuovo l'altro, con uno sconforto talmente grande nel petto che l'indecisione è fra alzarsi e rovesciare qualsiasi cosa giusto per sfogarsi, o rimanere lì aspettando che la rabbia e l'indignazione se ne vadano da sole. Considerando che è troppo stanco per qualsivoglia sforzo fisico, opta finalmente per la seconda. «Io non posso credere che abbia rischiato la mia vita semplicemente per avere un indizio per risolvere il suo caso. Io non ho parole, Holmes, io... Non lo so. Non so più commentare il suo... Comportamento.»

«Oh, ma lei è vivo, è questo l'importante.»

«Sì, sono vivo, e sicuramente non pianificavo di farmi una corsa di quaranta minuti per farla divertire, stasera!» grida, stavolta sì, dimenticando le buone maniere ma ricordandole subito dopo, abbassando il tono. «Io non voglio più vederla fino a domani. Per favore. Mi lasci in pace, va bene?»

Si alza a fatica, gemendo piano per il dolore ed avviandosi verso le scale.

«Vuole che la aiuti?» Chiede Holmes in tono tranquillo.

John Watson quel giorno guarda di nuovo il frustino, quasi per caso, immaginando torture atroci alle quali sottoporre, almeno nelle fantasie, il proprio atroce coinquilino.

«Vada in malora» Borbotta, prendendo le scale e salendo lentamente, deciso a concedersi, almeno come parziale lenitivo, un bagno caldo. Ed i borbottii di rabbia potranno aspettare la notte.

 

 

La terza volta è di primavera, e John Watson ha freddo anche se l'Inverno è appena passato senza nevicate ma con tante tensioni che hanno serpeggiato per tutta Londra animando pettegolezzi e cronaca nera - o rosa. Uno di questi è proprio quello del matrimonio del dottore con la rispettabilissima Mary Morstan, che pare assicurargli una trentina d'anni di pace nella quale le uniche tensioni saranno brevi screzi da sistemare in camera da letto. Prospettiva che Watson trova così allettante che da un paio di settimane non fa altro che gingillarsi nel suo completo nero per il matrimonio, passando davanti a Holmes con un sorriso largo da un orecchio all'altro, mentre il detective si sforza di pensare al proprio caso che trascina da mesi. Sì, sempre il solito. Ed Holmes è anche irritato per questa soluzione che tarda a presentarglisi davanti come sempre. Ma a parte questo, a Watson non sono sfuggite le occhiate di nervosismo che gli lancia dalla sua sedia, dove sta sfogliando l'ultima copia del Times alla ricerca di indizi facili.

«Watson, non si sgualcisce quel completo a forza di portarlo da due settimane e mezza almeno per tre ore al giorno?» Chiede, fingendo tranquillità.

«Ah, non si preoccupi, ci sto facendo attenzione. Ma sono troppo contento di portarlo» Risponde gongolando.

«Oh, no, non mi preoccupo. Ma sembra una donnina eccitata» Replica, leggendo il titolo di una notizia ed accigliandosi. «Sa che a Lestrade è stata conferita una medaglia per il caso Blackwood?»

Watson, ignorando la prima parte del discorso - ma anche un po' la seconda, scuote la testa. «Mah, non è una novità che quell'uomo si sieda sui nostri allori.»

«Sì, anche questo è vero, ma...»

«... Ma si aspettava una menzione? Andiamo, Holmes, lo sanno tutti ormai che dietro i successi di Scotland Yard c'è sempre lei.»

«Quasi sempre.»

«Facevo per dire.»

Holmes annuisce, afferrando la pipa dal tavolino e piazzando i piedi sopra di esso, caricandola di tabacco ed accendendo un fiammifero. 

«Comunque mi stupisce, perché quando Lord Blackwood si è ucciso senza volerlo Lestrade era nel suo ufficio a scartabellare carte inutili, lo sanno tutti» Borbotta fra una pipata e l'altra.

«Oh, ma questi sono dettagli. Non capisco perché con tutti i casi che gli abbiamo risolto proprio questo dovrebbe essere diverso» Risponde allegramente Watson, specchiandosi sul vetro ed accarezzandosi i baffi con aria soddisfatta. «Secondo lei dovrei tagliare i baffi per il matrimonio? Così, giusto per... "Dare un taglio" alla vecchia vita.»

Holmes rimane in silenzio, oscurando la propria espressione ed accigliandosi, con gli occhi appena velati di un sentimento a lui solitamente estraneo, prima di sillabare qualche risposta e mugugnarne qualcun'altra.

«Mh. Sì, uhm, già.»

Watson non la prende per il sottile ed annuisce, passandosi ancora le dita sopra il labbro, come a voler verificare che non cadranno da soli ma che potrà prendersi la soddisfazione di tagliarli lui stesso.

«Ed il suo altro caso? Quello di Novembre...» Chiede con aria vaga, lisciandosi la giacca lunga e sistemandosi la cravatta come se dovesse sposarsi proprio oggi. Holmes si riscuote, passando col pensiero a tutt'altri settori. 

«Sono vicino ad una soluzione.»

«Come fa a saperlo? Dopotutto è da tempo che lo dice» Risponde Watson, guardando fuori dalla finestra e perdendosi a sua volta in altri pensieri. Uno di questi va ad Irene Adler, quasi senza motivo. La verità è che da quando hanno risolto il caso di Blackwood Holmes si è dimostrato diverso per dei giorni, con dei silenzi più prolungati. E l'ha anche trovato a fissare la foto ingiallita della donna, per poi distogliere lo sguardo. Ma è rimasto in silenzio, perché dopotutto non può pretendere che Holmes non abbia interessi fra le donne. Dopotutto lo stesso dottore ha una futura moglie, perché non Holmes? Anche se, a pensarci bene, non l'ha mai immaginato a corteggiare una donna sinceramente, cioè che non l'avesse fatto strategicamente per risolvere un caso. Si chiede anche, con uno sguardo inconsciamente teatrale verso il cielo, se Holmes sarà mai in grado di amare qualcuno.

Dopotutto, anche se gli procura più guai che vantaggi, si preoccupa per il suo futuro, cosa che il detective non pare fare per sé stesso. Come fosse un figlio.

In verità Holmes è stato tante cose: un fratello, un padre, un figlio. E per qualche motivo anche la parola amante si accoda a questi termini.

«Perché stasera il nostro probabile assassino si ritroverà sul luogo del delitto e cercherà di uccidere anche il Lord al quale puntava inizialmente» Risponde Holmes, facendo vagare lo sguardo in tutti i luoghi dove non c'è Watson, per non farlo scontrare col suo sguardo.

«Oh, beh, allora va bene» Risponde Watson, alzando le spalle e poi stiracchiandosi. Una volta avrebbe chiesto ulteriori dettagli, ma ha cose più importanti per la testa al momento.

Come se Holmes avesse capito esattamente l'antifona, rimane in silenzio senza tediarlo ulteriormente con il suo caso. A Watson palesemente non interessa.

Ma quando passa accanto a lui non può proprio trattenersi, e quasi per sbaglio finge di aver acceso un altro fiammifero per ravvivare il fuocherello della pipa, finendo per farlo cadere - altrettanto inavvertitamente, chiaro - sul vestito nuovo da sposo di Watson. Per poi continuare a fingere, quasi, di non averlo fatto apposta, alzandosi e sbarrando gli occhi.

«Oh, Watson, mi scusi!» Esclama, mentre l'altro prende a schiaffeggiare i pantaloni freneticamente, spaventato. 

«Holmes, guardi cosa ha fatto!» Grida, una volta spento l'incendio, fissandolo negli occhi e poi sospirando, lanciando un'occhiata al solito frustino e mormorando qualcosa fra sé e sé prima di salire di corsa in camera, per poi scendere vestito normalmente ed uscendo con i soldi delle ultime scommesse, diretto verso la boutique del sarto.

«Non so proprio perché l'ho fatto» Mormora Holmes alla porta chiusa, chinando appena la testa pur se solo e sedendosi di nuovo sulla propria poltrona, combattuto.

 

 

La quarta volta John Watson è di pessimo umore. La quarta volta stringe i denti come a volersi fermare dal dire qualcosa di cui si pentirà. La quarta volta è notte, ed è proprio quella prima del matrimonio. Ogni sua fibra è tesa dal nervosismo, ogni suo gesto è quasi uno scatto e per di più l'improvvisa angoscia di andarsene dal 221B l'ha reso ancora più intrattabile. 

Così intrattabile che lo guarda e per un attimo vorrebbe solamente fargli del male. Così, senza motivo, solo perché gli sta rovinando il matrimonio prima ancora di celebrarlo, e semplicemente esistendo. Non sa perché debba essere così negativamente carico proprio prima di quello che dovrebbe essere il giorno più felice della sua vita, ma lo è. Lo è e non può nemmeno trattenere le occhiate di puro veleno che gli rivolge mentre Holmes, invece, pare assolutamente calmo, scrivendo qualcosa per una delle sue monografie. 

E poi lo sguardo di John Watson, quasi come spinto da qualcosa di esterno, si posa di nuovo sul suo frustino per cavalli, uno dei tanti ricordi di guerra, di quando cavalcava attorno agli accampamenti col fucile in resta, pronto a scendere con un salto appena lo avvertivano di un uomo da ricucire. E non sa perché proprio il concetto di cavalcare gli sia rimasto in testa, ma quella unica parola prende a ricorrersi come un cane che cerca di mordersi la coda. Vortica così veloce che spazza via ogni altro pensiero o preoccupazione, così veloce che il sangue del resto del corpo pare confluire verso un punto decisamente più basso, dove non pensava mai potessero svegliarsi tali desideri, e proprio in presenza di Holmes.

Holmes lo fa arrabbiare, perché non pare minimamente toccato dalle ansie e dalle angosce che invece animano i pensieri di Watson. Holmes dovrebbe essere triste, Holmes dovrebbe chiedergli di rimanere.

Conta così poco, per lui? Non gli importa niente che il proprio compagno di anni di avventure, misteri e pericoli potenzialmente mortali si disinteressi completamente della sua partenza? E non che desideri necessariamente il dramma, ma almeno un discorso sentito, almeno qualche segno che gli ricordi che il suo Holmes è un essere umano. Ma non lo è, riflette la sua parte più triste. Non lo è e non sei riuscito a renderlo neanche un po' umano, lui non sente nulla in quel suo cuore freddo.

Rimane seduto, attendendo e continuando a pensare che dopotutto, se Holmes pare così indifferente, dovrebbe comportarsi anche lui in quel modo. Ma non ci riesce, e questo lo fa arrabbiare ancora di più. Con se stesso, e soprattutto con Holmes. Lo guarda in silenzio, mentre scrive appassionatamente sul suo taccuino. Ma certo, a lui interessa quello, ora. Gli interessa il suo caso, nient'altro. Gli interessano i morti ed i criminali più dei vivi e delle persone oneste. Comprensibile, certo. Ma non si aspettava tanta freddezza, questo no.

Guarda altrove, verso i libri, riflettendo sulla possibilità di mettersi a leggere, ma il rumore di quel continuo scribacchiare lo distrae facendolo sospirare di nervosismo e chiudere gli occhi.

Gladstone li guarda, come incuriosito da quella nuova dinamica fra i due che è tutta un silenzio e tutta un lanciare messaggi strani. Niente parole, niente suoni. Ma poi torna a sdraiarsi nel suo angolo nell'altra stanza, pianificando una bella dormita fatta di soddisfazione e pace, dato che i due inquilini per una volta paiono quieti.

Paiono, perché non c'è niente di più falso nell'affaccendarsi di Holmes e nello star seduto di Watson, col ventre teso ed il piede che si muove da solo, come se avesse fretta di fare qualcosa. Sospira di nuovo per la tensione che improvvisamente si è creata nel proprio corpo, e si massaggia piano le tempie, cercando di eliminare quella parola - "cavalcare" - dalla propria testa. Ma proprio non ci riesce, e pare che quel verbo si debba per forza abbinare alla figura scrivente davanti a lui. Forse sta cercando di dirsi qualcosa, dopo anni che aveva messo in silenzio tante piccole voglie che aveva sviluppato nei confronti del detective: accarezzargli la mano, sedersi più vicino a lui, abbracciarlo come avrebbe voluto. E la rabbia aumenta quando riflette che dall'indomani non potrà più desiderare nessuna di quelle cose, nessuna. Ed aumenta ancora ed ancora quando si rende conto che a lui, certi impulsi, non dovrebbero venire. Ed è proprio la rabbia contro Holmes e contro sé stesso che lo porta ad alzarsi lentamente. Guarda per caso il frustino, di nuovo, prima di afferrarlo una buona volta ed osservare Holmes che, come se non si fosse accorto del movimento - e forse è così - continua a scrivere imperterrito, probabilmente la centesima pagina da quando ha iniziato nel primo pomeriggio.

Ma persino Holmes è costretto a distrarsi quando la punta della frusta che nessuno ha mai usato in quella casa accarezza piano la sua gamba. Con gli occhi scuri alza lo sguardo sul magnete che sembra posto dietro quelli chiari di Watson, che a sua volta lo guarda molto più carico di tensione di quanto non sia mai stato. E non dicono nulla, ma il primo si limita a poggiare il taccuino di lato, l'altro muove il polso in modo che le frange tocchino ed accarezzino lievemente la stoffa e si muovano lentamente su e giù per la sua gamba, accarezzando l'interno coscia quando, inavvertitamente, Holmes lascia che le sue gambe si schiudano appena, ricordando forse ben altre sollecitazioni da parte del dottore, negli anni trascorsi insieme. Ma deglutisce, atto di difficile interpretazione, che Watson preferisce recepire come una sopita voglia che sembra risvegliarsi piano, come se quella parte di Holmes fosse rimasta congelata dall'ultima volta e come se quel lievissimo tocco di cuoio la stesse riscaldando velocemente. Ma dal suo sguardo pare non cambi nulla, anzi c'è una nuova freddezza nei suoi occhi che potrebbe nascondere un conflitto fra la disapprovazione ed il desiderio di vedere che cosa succederà dopo. 

E Watson sembra aver trovato il motivo per cui era così nervoso. Perché quel corpo gli manca troppo ed al pensiero di non averlo più sotto le sue mani, fra le sue cosce, intorno a lui e sotto di lui, pare desiderarlo più di quando erano insieme senza alcuna Lady Morstan fra loro. E ricorda che a Holmes piace guardarlo mentre inizia a sudare, portando le dita alle sue guance e limitandosi ad osservarlo come se anche durante l'atto più istintivo dovesse analizzare ogni singola reazione, come un esperimento chimico. 

Ma ora è il dottore a sperimentare, ed onestamente si stupisce di toccare un gonfiore appena accennato al livello della cucitura dei pantaloni. Sorride appena, mormorando.

«Non le manco già?»

Holmes lo guarda da sotto in su, senza dire nulla ma mostrando sempre più un forte conflitto fra sé e sé, mentre sospira e si rilassa parzialmente, stringendo però le mani a pugno.

«Watson... Domani...»

«Lo so.»

Non aggiunge altro, ma lascia che sia l'oggetto lungilineo e flessibile che ha in mano a persuadere Holmes ad ammorbidirsi. Ad arrendersi, a lasciarsi andare. E non è veramente una novità che anche se quel frustino ora gli procura dolore infrangendosi per tutto il suo corpo, il detective non voglia ribellarsi. Perché è legato ad un letto, sotto le inaspettate e lente torture di Watson, che sa di star pagando per ed insieme approfittando di una punizione che gli spettava da tanto tempo.

Ed è quando Watson avverte di nuovo il corpo tonico, umidiccio, salato, suo, sotto il proprio mentre si muove sopra di lui e mentre lo guarda negli occhi scuri ed ancora misteriosi, che comprende la portata della scelta che sta per fare.

Mai più notti insieme, mai più il suo corpo asciutto e bello da usare, mai più gli occhi che fanno sempre fatica a scaldarsi ma che, alla fine, quando ogni traccia di matematica lascia il suo viso, si sciolgono come i ghiacci polari. E John Watson forse è troppo arrabbiato - con se stesso, con l'uomo sotto di lui, con Mary e con il mondo in generale - per fare caso alle poche sillabe che lasciano le labbra sottili di Sherlock Holmes proprio mentre, tremando ancora in parte riluttante, riversa sostanze trattenute troppo a lungo - e con esse anche una parte di sé, quella calda e torrida ed umana - dentro il corpo e forse anche un pezzo d'anima dell'uomo che, primo e ultimo nella sua vita, l'ha posseduto.

E finalmente, una volta soddisfatte entrambe le represse e diverse necessità, fra le lenzuola stracciate e l'odore persistente che culla le loro percezioni, Sherlock Holmes apre gli occhi sulle spalle voltate contro di lui, come se l'altro uomo fosse troppo impegnato a pensare altri pensieri. E come non ha fatto mai lo cerca, con le dita, con le gambe e col ventre, limitandosi solo nel silenzio ad ascoltare i suoi respiri irregolari, forse intuendo quali ansie stanno ora popolando le immaginazioni di quell'uomo così semplice eppure così complesso, l'unico che non ha mai capito e l'unico mistero rimasto irrisolto. Lo cerca e trova solo pelle, fiato caldo e stanco, un odore familiare ma che, lo sa già, appartiene a qualcun altro. E se non è quello il rumore di un cuore che si rompe come un ingranaggio delicato, allora non sa proprio cosa sia.

E Watson volta il proprio corpo con delicatezza, come se ora non volesse ferire di più l'amico e l'amante ed il fratello ed il padre, tutto in una persona sola e tutto in un corpo solo, prendendogli la mano ed accumulando il coraggio necessario a guardare il suo viso, i suoi occhi di nuovo freddi ma bugiardi, deglutendo e toccando la sua spalla che subito trema. Comprende che in questo momento Holmes non ha più corazze, ed un lieve ma soffocante senso di colpa lo afferra tutto intero, dandogli l'esigenza di sentirlo accanto, di confortarlo solo un po' per permettergli di ricomporsi.

«Io non voglio che se ne vada» Mormora Sherlock Holmes, chiudendo gli occhi ed assopendosi poco dopo, lasciando che il freddo torni a circondarlo come una crisalide invisibile.

«Nemmeno io» Risponde dopo lunghi minuti John Watson, riempiendosi di mille dubbi ed angosce che probabilmente, anche dopo l'indomani e dopo anni forse ancora non lo lasceranno.

Dopo di ciò, niente più parole.

 

 

NdA: Eh sì, nopparole x'D questa è tipo la mia impresa più titanica, scritta per il kinkmemeita ed anche per Minnow, e vedi come si crossposta con classe (muahahahahahah). Comunque bon, NOPPAROLE rimaste, credo che dopo un pomeriggio a scrivere domani non saprò più usare le mani.

Sto odiando tutto in questo momento, quindi non mi perdo a fare precisazioni storiche (che poi boh, sarò stata anacronistica in più di un punto, ma onestamente #fottesega. Però Lord Knollys è stato davvero nella camera dei Lord fra il 1890 ed il 1900, almeno a quanto ho trovato, quindi bon. #no1curr

Mi fa male il pollice. Vado a morire altrove.
EDIT: Ho sistemato un piccolo errore nel senso della trama, ora dovrebbe essere a posto XD

   
 
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > Sherlock Holmes / Vai alla pagina dell'autore: manubibi