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Autore: Angel666    21/07/2011    6 recensioni
Finn è diventato uno dei più famosi e ricchi giocatori di football a livello internazionale; mentre Rachel, avendo visto fallire la sua carriera di attrice nel mondo spietato dello spettacolo, si è rifugiata a Columbus cercando di nascondersi dal passato. Entrambi si ritroveranno a Lima per un evento inaspettato, ed entrambi dovranno fare i conti con quello che sono diventati, con i loro sogni e le loro frustrazioni. Perchè a volte, anche se il destino ha strani modi di agire, non vuol dire che ci stia necessariamente ostacolando. Finchel, ma prende in considerazione tutti i personaggi.
Genere: Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Finn Hudson, Rachel Berry, Un po' tutti
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Finn Hudson lasciò entrare l’aria nei polmoni dopo essersi tolto il pesante casco di football ed averlo gettato sul campo.
Aveva segnato l’ultimo touchdown, portando così i New York Giants alla vittoria per il quarto campionato consecutivo.
Secondo la NFL Hudson era il quarterback più promettente degli ultimi 5 anni, il cui contratto valeva al momento 8,5 milioni di dollari annuali.
Era una star.
Se ne rendeva conto dalle urla delle migliaia di persone all’interno dello stadio che acclamavano il suo nome. Ne aveva la conferma quando veniva invitato ai party più esclusivi della Grande Mela, accompagnato sempre da qualche modella o attricetta di turno. Come se non bastasse il football, era anche stato testimonial di varie campagne pubblicitarie importanti, così che ogni tanto girando per strada, si ritrovava ad ammirare il suo viso photoshoppato su qualche immenso cartellone illuminato.
Era ricco, famoso ed amato. Finn Hudson era esattamente tutto quello che nessuno si sarebbe mai aspettato da lui.
A stento riusciva a crederci lui stesso. Durante la notte a volte, si svegliava nel suo immenso letto pensando di trovarsi ancora nella piccola stanza di Lima, con le pareti verdi dalle stampe a cow-boy e i vestiti sporchi di grasso di qualche automobile da riparare.
Invece il suo magnifico loft era sempre lì, con i pochi e costosissimi mobili dai colori asettici che riflettevano le mille luci della città che non dorme mai.
In quelle notti Finn si alzava e si faceva un bicchiere di latte caldo.
Ripensava meticolosamente al percorso che lo aveva condotto fino a lì, come quando si verificano i passaggi di un’equazione per essere sicuri di non essersi persi nulla.
La sua vita era svoltata l’ultimo anno di liceo: durante una partita era stato notato da un manager del Cleveland Browns che gli aveva offerto una borsa di studio per la Cleveland State University. E pensare che non aveva fatto neppure alcun numero di canto durante l’intervallo.
Da lì era stata tutta una corsa verso la cima. Ventitre partite vinte e due campionati dopo si era ritrovato a New York con un manager personale e un conto in banca decisamente lievitato. In fondo Finn era sempre stato un buon leader; uno altruista e attento ai problemi degli altri.
Era ben voluto dalla sua squadra, eppure nonostante passasse con loro la maggior parte del suo tempo, non aveva più avuto la stessa sensazione di famiglia come nel suo vecchio Glee Club. Neanche a dirlo, dopo il liceo non aveva più cantato, se non da sbronzo in qualche locale dopo la vittoria della partita di turno.
Erano passati 8 anni dall’ultima volta che era stato a casa. Aveva perso i contatti praticamente con tutti già dal secondo anno di college, ed era sempre la sua famiglia a spostarsi per venire a trovare lui e il suo fratellastro, con la scusa di fare una bella gita.
Kurt viveva anche lui a New York, ma riusciva a vederlo molto meno di quanto volesse davvero. Ogni tanto lui e Blaine lo invitavano per cena, perché dicevano che nonostante la celebrità in realtà era solo come un cane. Non parlavano mai dei vecchi tempi. Sapeva che loro erano rimasti in contatto con alcuni di loro, ma nulla andava oltre le cartoline di auguri nelle feste comandate e qualche telefonata ogni tanto con Mercedes.
Kurt lavorava in una rivista di monda e da quando viveva a New York aveva dato sfogo a tutta la sua creatività, diventando ancora più eccentrico. Ogni tanto Finn se lo portava dietro a qualche evento esclusivo; a lui oramai non facevano più effetto, ma ogni volta gli occhi del fratello brillavano di gioia, e poi si divertiva a sentire i suoi commenti sulle celebrità.
Lui e Blaine erano sposati da due anni. Finn era felice per loro, anche se un po’ li invidiava: avevano un rapporto fatto di piccoli gesti abitudinari e intimi che lui non condivideva più da moltissimo tempo con nessuno.
Aveva fatto le sue scelte, anche se in realtà era stato un percorso molto più facile di quanto potesse sembrare dall’esterno. Era stato fortunato e si era preso la sua rivincita su tutti quelli che gli avevano dato del perdente e dello stupido.
Certo, per essere un giocatore di football non dovevi brillare d’intelligenza, ma questo a Finn non era mai importato un granché.
Il Super Bowl era appena finito e la stagione si era ufficialmente conclusa. Questo voleva dire una sola cosa: vacanza.
Si avviò verso gli spogliatoi assieme ai compagni quando qualcosa lo bloccò completamente. Accanto alla porta c’era il suo patrigno, ma non era lui che Finn stava fissando con stupore. Dietro di lui, a pochi metri di distanza, senza più la cresta da moicano, c’era Noah Puckerman. Non lo vedeva da quasi dieci anni, ma la faccia impertinente e il fisico palestrato erano sempre al loro posto.
“Bella partita amico.” Disse quello alzano il mento.
“Che…che diavolo ci fai qui?” lui proprio non riuscì a trattenersi.
“Ehi, non mi vedi dai tempi delle superiori e mi saluti in questo modo? Non pensavo fossi diventato così snob.” Sbottò il ragazzo.
Finn scosse la testa incredulo, ma poi si lanciò ad abbracciarlo, come ai vecchi tempi. “E’ che non posso crederci! Dio quanto tempo….tu lo sapevi?” chiese rivolgendosi a Burt.
“Sicuro, gli ho procurato io i pass per la partita. Ma mi ha chiesto di non dirtelo” Rispose sorridendo.
“Come stai? Che cosa fai adesso? E che fine ha fatto la tua cresta?” gli accarezzò i capelli, sempre cortissimi.
Puck sbottò a ridere “Ehi, ehi, fammi respirare! Sto bene, diciamo che me la cavo. Adesso ho una piccola ditta di pulizia piscine, non che ce ne siano molte in Ohio, ma vabbè. Per il resto Puckzilla non ha ancora messo radici, prima dei trenta non mi faccio ingabbiare da nessuno.” Gli strizzò l’occhio. “Tu invece te la cavi alla grande…sei una star cazzo!”
Finn si strinse nelle spalle, abbozzando un timido sorriso. Da una parte si sentiva ancora il ragazzone scoordinato di provincia, anche se con gli sconosciuti ostentava sicurezza. Certo tutti quei soldi e la fama aiutavano, ma lui non si era montato troppo la testa: pensava soprattutto alla carriera, e non aveva così tanto tempo libero per goderseli appieno. Era ancora un bravo ragazzo in fondo.
“Dimmi che ci fai qui.”
“Un vecchio amico deve avere un motivo per venirti a salutare? Goditi la vittoria della partita! Anzi, stasera per festeggiare mi porti con te e ce la spassiamo come ai vecchi tempi.”
Finn decise di fare buon viso a cattivo gioco “Guarda che le donne ricche sono molto più esigenti Puck.”
“Questo perché non hanno mai conosciuto Puckzilla. Ora datti una mossa che puzzi.” Finn scosse la testa ed entrò nello spogliatoio, lasciandosi dietro la ristata sguaiata dell’amico. C’era qualcosa sotto: uno non si faceva vivo dopo 8 anni per una bevuta; ma non voleva rovinarsi il buon umore del post partita. Accese l’acqua calda, lavando via il sudore e le preoccupazioni.





Il massimo dove era arrivata Rachel Berry era Columbus: 100 miglia da Lima, Ohio.
Non le piaceva ripensare al passato, a come fosse finita in quella insignificante cittadina a fare la cameriera al Planet Cafè, insegnando canto di tanto in tanto per arrotondare.
Ogni mattina faceva la stessa identica strada per andare a lavorare in quel buco sulla SS 33, dove l’odore di fritto era impregnato nelle pareti e nei sedili in pelle sbeccati vicino le vetrate. Odiava il suo lavoro, e per farsi forzasi ripeteva che era solo una situazione temporanea, un mezzo per giungere al suo sogno più grande: aprire una scuola di teatro e insegnare canto coreografato. Ma questo lavoro andava ormai avanti da tre anni, e con 600 dollari al mese e l’affitto da pagare era piuttosto difficile aprire un teatro.
Rachel sospirò, allacciando il grembiule verde acido e appuntandosi il cartellino sul petto, senza guardarsi allo specchio, pronta per una nuova orrenda giornata nella sua maledetta vita.
Era una perdente, povera e senza alcun tipo di relazione umana che andasse oltre il rapporto lavorativo. Rachel Berry era esattamente tutto quello che nessuno si sarebbe mai aspettato da lei.
Dopo il liceo era andata a New York, come aveva sempre sognato fin da quando era bambina, ma subito si era resa conto che diventare una star era più difficile del previsto. Una storia era brillare in Ohio, un altra era Broadway. Il talento e la forza di volontà di certo non le mancavano, ma non aveva fatto i conti che non era lei l’unica brava stavolta, e soprattutto, non aveva le amicizie giuste per andare avanti, ed esibirsi negli spettacoli che contavano. A dire il vero non conosceva proprio nessuno al di fuori di Kurt e Blaine, che però frequentavano corsi diversi dai suoi, e riuscivano a vedersi raramente nei fine settimana. Aveva provato a farsi qualche amico al college, ma in un mondo dove devi concentrarti solo su te stesso, cercando di tagliare la strada a possibili rivali, non era stato facile. Il mondo del jet-set era spietato: i corsi le piacevano, stava imparando moltissime cose, ma non c’erano più quella serenità e gioia di fondo che aveva quando si esibiva; ora aveva una perenne ansia addosso. Finito il college si era rivolta all’unica persona che conosceva nel mondo di Broadway: April Roads.
Certo, mettere il proprio futuro nelle mani di un’ubriacone non era stata un’idea geniale, ma Rachel era ingenua all’epoca e sognava il palcoscenico. Così dopo una sola misera stagione off-broadway in un ruolo secondario, lo spettacolo era stato chiuso per scarso successo e il teatro era andato in bancarotta. Rachel si era ritrovata per strada senza un lavoro e senza più un soldo. New York era una città cara e lei aveva fatto male i suoi conti.
Aveva passato il suo ultimo giorno nella Grande Mela su una panchina di Central Park a piangere tutte le sue lacrime; la prima volta che era stata in quella città era piena di sogni e aspettative, adesso sentiva solo rabbia e amarezza. Non aveva il coraggio di tornare a casa dai suoi papà e ammettere la sconfitta: Rachel Berry era una stella, non una perdente che ritornava con la coda tra le gambe. Che cosa avrebbero pensato tutti i suoi vecchi amici del Glee? Avrebbe potuto riprovarci, ma quell’esperienza così negativa le aveva prosciugato ogni speranza. Inoltre cantare era sempre stata la sua vita, oltre quello non era davvero brava in niente. Non aveva mai preso in considerazione un piano B, essendo sempre stata sicura del suo imminente successo.
Ora doveva puntare più in basso.
Quel pensiero la colpì in pieno, come un fulmine a ciel sereno. Non sarebbe mai diventata una star. Nella prima gioielleria che aveva trovato aveva venduto la sua catenina d’oro con la stella, un regalo di Finn, e con quei soldi si era pagata il viaggio per tornare a Lima.
All’orgoglio ci avrebbe pensato in seguito, adesso erano altre le sue priorità: doveva rifarsi una vita. “Ehi Patti Lupone te la dai una svegliata? Al tavolo 5 aspettano gli hamburger da mezz’ora.” borbottò Jimmy, il suo capo.
Lui non si dava mai da fare, ma stava tutto il giorno seduto dietro il bancone ad asciugare i bicchieri che beveva e a guardare il football. Quel giorno c’era la finale del Super Bowl.
Hudson, com’era prevedibile, aveva portato la squadra alla vittoria segnando l’ultimo touchdown. Rachel non lo aveva più sentito dopo il liceo. Lo aveva lasciato per inseguire i suoi sogni a New York, e le relazioni a distanza non facevano per nessuno dei due. C’era stato un periodo in cui Finn era tutta la sua vita, anche più importante del canto. Lo aveva amato davvero e si era illusa che sarebbe durata per sempre; un altro punto su cui era stata ingenua.
Era perfettamente a conoscenza di tutti i suoi successi ed era felice per lui, anche se a volte stentava a crederci. Il destino sapeva essere veramente curioso a volte.
“Jim faccio cinque minuti di pausa.”
Si infilò la giacca senza aspettare una risposta ed usci dal caffè per prendere una boccata d’aria.
Era seduta vicino al laghetto del parco pubblico di fronte al locale, quando sentì il cellulare vibrargli in tasca. Il numero era sconosciuto.
“Pronto?”
“Rachel sei tu?” una voce delicata le giunse all’orecchio.
- Non può essere lei…- Rachel non sapeva cosa dire, era come se l’aria le fosse rimasta incastrata in gola.
“Sono Qinn Fabrey, andavamo al liceo insieme…” come se qualcuno potesse scordarsi di Quinn.
“Come hai avuto il mio numero?” chiese brusca.
“Me lo ha dato tuo padre, avevo urgenza di parlarti.” Non sembrava minimamente scomposta.
“Io, ecco…è strano. Non ci sentiamo da quasi 10 anni.” Che diavolo voleva l’ex cheerleader da lei?
“E’ successa una cosa Rachel. Stiamo contattando tutti. Devi tornare a Lima.”
Improvvisamente divenne tutto nero: tornare a casa? Affrontare le sue paure? Far vedere a tutte le persone che conosceva che razza di perdente fosse? Non poteva farlo.
“Quinn? Io…non penso di esserne in grado.” Sospirò stancamente.
“Artie Abrams è morto. Dobbiamo organizzare il suo funerale; ma se pensi di avere qualcosa di più importante da fare, allora sei libera di non presentarti.” Chiuse la comunicazione senza aggiungere altro.
Rachel fissò il laghetto davanti a se, senza vederlo realmente. A quanto pare era giunto il momento di affrontare i suoi fantasmi.





A/N: non so da dove mi sia uscita questa storia, so solo che nella maggior parte delle fan fiction che ho letto Finn è un perdente e Rachel è ricca e famosa. Ho pensato di mescolare un po’ le carte e vedere che succede. L’idea mi è venuta di botto, è stato un impulso irresistibile e ho deciso di buttare giù questo capitolo. Sono piuttosto famosa per non finire mai le mie storie e per essere una slasher di prima categoria, ma a cambiare si fa sempre in tempo. L’idea del funerale è banale lo so, ma almeno non ho fatto schiattare quel povero Shuester, che ammetto, era il candidato numero uno. Fatemi sapere cosa ne pensate, e se vale la pena andare avanti, ovviamente prenderò in considerazione tutti i personaggi, non sarà esclusivamente Finchel. Grazie!
   
 
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