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Autore: KaienPhantomhive    22/07/2011    3 recensioni
Pierre Zoroastro Dharc è un teatrante. No: è un Perfetto Teatrante.
Ogni ruolo che gli viene assegnato, lui lo svolge con tale dovizia da risultare inumano, quasi si trasformasse nel personaggio stesso.
Bellezza, soldi, fama...nessuno riesce a resitere al suo fascino d'altri tempi, nemmeno la famosa e bella lady Catlina.
Ma non tutti sono dello stesso parere...
Cosa dirà monsieur Dupreè, un rivale in amore e teatro, delle 'strane creature' che si celano a Villa Dharc?
Ma soprattutto: cosà dira dello stesso Pierre Dharc, in quella notte di Luna piena?
(Tanto per informazione, il brano che sente Dupreè verso la fine è 'Diabolic Waltz' di Kuroshitsuji)
Genere: Dark, Horror, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Videogioco
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Nota di servizio: attenzione: questa non è la solita fiction del famdom; contiene elementi tragici, potrebbe inquietare i più suscettibili ed è scritta in uno stile laborioso; tuttavia, vi invito a leggerla e ad esprimere il vostro più personale parere. Buona lettura.

 

Quel Perfetto Teatrante

 

 

L’avvolgente poltrona barocca, imbottita di velluto nero, era posta innanzi l’immensa vetrata ad ogiva, sulla quale i montanti dei vetri si intersecavano in una croce di ferro battuto.

Insieme alla suggestiva forma della finestra stessa, le pesanti tende nere laterali incorniciavano un paesaggio silenziosamente spettrale: la bella e pallida Luna risplendeva alta e gigante nel cielo stellato, arridendo all’uomo seduto oltre l’alta finestra.

 

Lui fissa a lungo le nuvole candide –ora annerite dalle tenebre– allungando di tanto in tanto una mano sottile ed elegante verso il minuscolo tavolino circolare posto di pioppo, accanto a lui.

Afferra la bottiglia di cristallo lavorata a diamante, riempita di squisito liquore francese.

Ne versa il contenuto in bicchiere dal fusto in metallo cesellato nero.

Lo mescola con movimenti lenti e circolari, senza berlo: quel gioco è troppo ironicamente divertente per lasciarlo finire.

La sue dita lunghe e curate –le unghie bianchissime– non esercitano pressione sul calice, ma la loro presa è tanto decisa da risultare dolorosa quasi quanto quella di un predatore crepuscolare.

 

Con garbo, un maggiordomo spinge la piccola porta dello studio, entrando.

Alle sue spalle, un candelabro nero galleggia a mezz’aria, spandendo una chiarore azzurrognolo.

Un candelabro…vivo.

 

Quella stanza, per il ruolo ad essa adibito, è enorme: le pareti sono alte più di cinque metri e si sviluppa soprattutto in lunghezza, quasi un corridoio di largo pianale.

Il pavimento è in marmo; tre delle pareti ricoperte di scaffali stracolmi di libri, maschere teatrali piumate ed alcolici ricercati; il muro anteriore alla porta è invece costituito da un trittico di archi a sesto acuto, intervallati da tendaggi corposi.

 

Monsieur Dharc, è passata la Mezza.” – il servo dal volto sottile e ben impostato si calca gli occhiali sul naso.

“Lo so bene, Claude…” – risponde il padrone; dalla voce, si può evincere che sia molto giovane, non più di una ventina d’anni.

Con timbro mellifluo e cantilenante, riprende:

“…ma questa notte è così bella che non riesco a prendere sonno. Osserva il volto di Madonna Luna: oggi è più gaio che mai! Vorrei recitarle versi d’amore, se solo potesse udirli! Tuttavia, mi pare sempre che mi sorrida sardonica…”

“L’ora è tarda: il buio ci è compagno, ma non tiene per sé i suoi inganni. Non vuol dunque cedere all’oblio ristoratore?”

“No…” – il giovane castellano respira profondamente, nel suo abito nero; il collo fasciato in un complicato fiocco bianco e pomposo, ottocentesco – “…io vi appartengo già, da molto tempo. E poi, come mai potrei dormire, conoscendo il demone che brama nei miei incubi?”

“Comprendo.”

“Piuttosto, Claude…” – la sua voce si fa quasi infastidita, stanca – “…invece di annoiarmi, ti prego, dimmi: come ha reagito lady Catlina all’omaggio?”

“Ne è rimasta incantata. In vero, ha ammesso che sono i gigli, i suoi fiori preferiti; tuttavia, il suo bouquet è stato recapitato di sera, cogliendola in un momento di grande tensione erotica. Si fidi di me, le rose sono state la scelta più adeguata.”

“Mi togli un grande peso, mio adorato servo.”

 “La ringrazio.” – poi controlla l’orologio del taschino – “Oh, sono mortificato…per la mia negligenza ho dimenticato di informarvi che monsieur Dupreè ha chiesto, stamane, di incontrarvi. Dati gli impegni, sarebbe passato stanotte stessa, sul tardi. Credo arrivi a momenti.”

“Che seccatura…” – Pierre si leva a sedere: è alto, bello con quei suoi occhi di zaffiro ed i capelli biondi e fluenti.

“Posso liquidarlo, se lo desidera.”

“No, per carità! Che mancanza di charme, sarebbe! Se quell’attoruculo da strapazzo ha ancora lamentele da esporre, che faccia. Non che questo cambi la realtà dei fatti; e poi, come ho detto, non ho sonno durante le notti di Luna piena…”

Infine si volta, richiamando con un gesto lo spettro simile ad un luminare gotico:

Alons, Chandelure! Andiamo ad accogliere il nostro ospite…”

 

 

*   *   *

 

 

Il corpulento Alfonse Dupreè mosse un piede oltre la soglia del salone di ricevimento della Villa, faticando a mettere a fuoco il locale, data l’unica fonte di illuminazione: un grande camino in marmo e stucchi, dal fuoco scoppiettante ma non certo sufficiente a rischiarare l’intera stanza.

Ingioiando un groppo alla gola, l’uomo fece:

“E’ permesso?”

 

“Prego, prego…” – ripose il giovane anfitrione, ancora una volta di spalle al suo interlocutore.

 

Tentando invano di darsi un’aria di distaccata superiorità e durezza, Dupreè si schiarì la voce:

Eh-ehm! Non vedo dove mettere i piedi! Se si potesse avere…”

 

“Luce? Ma certo. Anzi, perdoni la mia sbadataggine. Sa com’è: qui sono sempre solo, non ho motivo di illuminare l’intera magione. E sia! Luce in sala, prego: Flash!”

Dharc schioccò le dita eburnee.

In sequenza, con un leggero crepitio, oltre duecento grosse candele si infiammarono, sul cornicione rialzato del soffitto alto oltre dieci metri.

 

L’ospite non poté non rimanere quantomeno impressionato: come c’era riuscito?

Tutto a Château Dharc era fuori dal tempo: dal mobilio all’impianto d’illuminazione, fino allo stesso padrone di casa.

Tutto così gotico, barocco, spettrale…quasi di un’altra epoca. Eppure era il Ventunesimo Secolo.

 

La sala era lunga e tappezzata di arazzi e tappeti persiani, in mezzo alla tavolata centrale splendeva una strana pietra dal giallore malato.

Uno specchio enorme pendeva proprio sopra il camino.

 

Procedendo lento, l’attore francese parlò:

“Ha davvero una villa meravigliosa…e piena di oggetti bizzarri. Doni delle compagnie teatrali?”

 

“Qualcuno sì…altri no. Sono perlopiù reperti archeologici, collezionati in tanti anni. Cianfrusaglie senza valore.”

 

“Davvero? A me non sembra: questa pietra, ad esempio…” – ed indicò il grosso pseudo-topazio sul tavolo – “…sembra antica. E’ autentica?”

 

“Ovviamente. A quella però tengo molto: preferirei non la toccasse. Sa, l’ho rinvenuta in un viaggio in una lontana regione. Io la chiamo ‘Grigiosfera’.”

 

“Che nome insulso…” – sibilò l’altro, con una vena di disgusto - “I soliti attori di Stanislaski! Sempre in vena di calarsi nella parte di qualche personaggio…!”

 

Per un momento, preferì non aver parlato: un sibilo nell’ombra gli solleticò i sensi; c’era qualcosa che non andava: le candele erano grandi…troppo, enormi e deformi. Sembravano quasi osservarlo e deriderlo.

 

“Che fa, Dupreè? Non si siede?” – domandò il giovane Pierre, spazientito. 

“Oh, si…è vero.”

E si accomodò su una poltrona a fianco.

Notò subito ciò che il suo ospite teneva in grembo: un gatto magro e nero, dalla pelliccia lucida; gli occhi rossi…il pelo maculato di anelli gialli e fosforescenti.

 

“E’ davvero un gatto…singolare.” – disse, a metà tra il disprezzo ed il timore.

Gatta, prego: sa essere suscettibile. L’ho soprannominata  ‘Isabella’: è un esemplare di Umbreon molto intelligente.”

Umbreon? Cos’è? Mi prende in giro?”

“Oh, no di certo! Non sa cosa sono gli Umbreon? Si vede che non è abituato a viaggiare…”

“A differenza di lei, certo!” – controbatté, ironico e malizioso.

Pierre Zoroastro Dharc inarcò un sopracciglio; gli occhi sottili e penetranti. Con un  gesto scocciato, scacciò il gatto, poi chiese:

“Allora, suppongo non siano i miei animali domestici la causa della sua visita. Posso sapere cosa l’ha spinta qui?”

Alfonse strinse il bracciolo della poltrona, seccato:

“Signor Dharc…temo di doverle esprimere il mio disappunto. Sebbene io la stimi professionalmente, non posso nasconderle un certo fastidio personale: i suoi modi sul set non sono molto cortesi…a differenza dei modi che assume con lady Catlina!”

“Sta insinuando che ho due pesi e due misure?”

“Non lo insinuo: lo affermo!”

Pierre sospirò, rassegnato:

“Forse ha ragione…ma non è dunque giusto desiderare l’affetto di una donna tanto amabile, in una vita consacrata alla finzione?”

“Lei considera il Teatro una finzione? Certo, è questo…ma uno della scuola di Stanislaski non dovrebbe parlare a questo modo…” – fece notare l’ospite, con cipiglio.

“Vede, monsieur Dupreè…è questo che differenzia un attore di spessore come me da uno anonimo ed inverosimile come lei.”

L’altro avvampò:

“Come ha detto, scusi?! Osa anche…!”

Monsieur Dupreè, io non sopporto essere interrotto.” – lo frenò il Perfetto Teatrante; la voce ancora pacata ma irremovibile – “Come dicevo…il tutto è nella Filosofia del Teatro! Essere attori è un lavoro da Sofisti: quando si recita non esiste una sola realtà, ma tante quanti i ruoli. Bisogna trasporre il personaggio in persona…”

“Vorrebbe ora darmi lezioni di recitazione?!”

“No…anche perché, vede, lei non potrebbe mai eguagliarmi.”

Dupreè si alzò in piedi, il volto livido:

“QUANTA INSOLENZA!”

“Desolato di sembrarvi fuori luogo.” – con noncuranza, si versò un distillato nel bicchierino di vetro – “Del gin?”

L’altro si risedette, pesantemente offeso:

“No. Grazie.”

“Ad ogni modo…riguardo mademoiselle Catlina, credo che nutra un’incontrollabile pulsione erotica verso il sottoscritto. Ciò non mi dispiace, non mi fraintenda, ma credo sia opportuno richiamarla al contegno.”

“Sta dicendo che di Catlina non le importa?”

“No, infatti. Il mio comportamento è solo atto a suscitarle una passione di diverso tipo: mi sia grato, in questo modo sarà predisposta all’amore. Potrebbe essere una buona occasione, per lei.”

“M-ma come…?! Io…con...!” – balbettò l’attore più anziano.

“Suvvia, è chiara la sua situazione. Non menta.”

 

Improvvisamente, Dupreè smise di atteggiarsi: quel giovane lo inquietava.

Non pensava più né al teatro, né alla donna: iniziava piuttosto a sentire un certo caldo, una sensazione soffocante.

Prima non lo aveva notato: monsieur Dharc aveva canini lunghi oltre la norma e quei suoi occhi di gelo risplendevano soprannaturali…sembrava addirittura che l’intera sclera dell’occhio pulsasse d’azzurro.

Poi…ripensò al nome del suo ospite: Pierre Zoroastro Dharc…morto sette anni prima.

 

La bocca tremò incontrollata, la lingua si arrotolò goffa:

“L-l-le…l-lei…è…è m-morto!”

“Io? Morto? Può darsi…” – ripose, sorridendo felino.

Si alzò in piedi, incamminandosi vero il centro della sala.

 

Le leuci si estinsero, gettando il salone nel buio oppressivo, squarciato solo dal barlume lattescente lunare.

Una musica iniziò a suonare da qualche parte nella magione dei Dharc, appena udibile.

 

Il ragazzo dai capelli biondi – ora più simili all’argento - parlò enfatico:

“Vede, il teatro è il luogo dove “IO è morto” può assumere espressione. Il teatro è il luogo in cui NULLA  succede: proprio in quanto consiste d’un siffatto mancare, esso è Teatro. Se così non fosse si tratterebbe di piatta imitazione d’un atto ordinario di vita, anche se a forti colori drammatici, o disposto oltre la paura di morte.”

 

Lentamente, piccole sagome bianche fluttuarono nell’alto del soffitto: candele rigonfie, dagli occhi vispi e gialli.Un nugolo di pipistrelli enormi e violacei dotati di due paia d'ali si affollarono contro le nubi, all’esterno.

 

“Mi spiace che lei abbia viaggiato così poco, in vita sua…tante cose, per quanto assurde ed incredibili, possono smettere di essere sorprese, se le si ha conosciute prima.” – continuò l’anfitrione, mentre la sua voce assunse tinte fosche e roche.

 

Alfonse Dupreè rimase sulla sua poltrona; la schiena affondata tra i cuscini e il volto contratto ina smorfia di puro terrore.

 

“Anche per questo motivo, lei un è pessimo attore: un esperto non troverebbe mai inattesa la notizia di un uomo tornato in vita. Tuttavia, posso capirla. D’altronde…io non sono morto. Non personalmente, almeno.”

 

“C-che cosa sta blaterando?!” – gridò l’uomo, sgranando gli occhi colmi di disperazione.

 

“Vede, quando prima le ho detto che non potrà mai eguagliarmi, intendevo dire che non potrà mai eguagliare me, non il signor Dharc.”

 

“Ma lei non è…?!”

 

Con un sibilo, il giovane in nero si retrasse nell’ombra.

Nel vuoto nero…due occhi sottili ed affilati come lame rilucettero di una soffuse luce azzurrognola.

Un rumore di ossa contratte.

Un respiro affannato.

Un brontolio sommesso.

Un rapido bagliore violaceo.

 

Dupreè si levò in piedi, con cautela, avvicinandosi al fondo della sala, nel tentativo di mettere a fuoco la vista.

 

Una voce cavernosa ed impastata si espanse nel salone:

“Il Teatro è imitazione della realtà…fino a riscriverla del tutto. Ed io…”

Un muso animalesco emerse appena dall’ombra; le labbra rosse in fremito.

Una criniera o comunque una folta massa di peli rossi oscillò serpentina.

 La voce tornò:

“…ed io…io sono solo un Perfetto Teatrante.”

 

Del signor Alfonse Dupreè non si seppe più nulla, ma talvolta i ragazzi di strada sussurrano che se  -nelle notti di Luna piena - si tende l’orecchio verso Château Dharc si possano udire ululati disumani e urli di disperato dolore e strazio.

Dal canto suo, invece, Pierre Zoroastro Dharc continuò ad essere sempre il solito, comune, brillante, noto, benvoluto, perfetto attore.

   
 
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