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Autore: Elizabeth_Tempest    24/07/2011    3 recensioni
Tu l’anima mia, mi rubasti, e io ti rubai la vita, e la faccia. Fosti tu a creare questo mostro, non sei contento?
Genere: Drammatico, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Cancer DeathMask, Nuovo Personaggio
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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 Era irrequieto, quel giorno. Forse perché s’avvicinava quella data maledetta, che, per quanto cercasse di dimenticare, pareva persistere per puro dispetto sul calendario. Forse anche il tempo stesso, si beffava di lui? Cosa sarebbe costato a Crono dare una spintarella a quella sequela di lunghissimi minuti, di eterni secondi che componevano quel giorno, cosa gli sarebbe costato eliminarlo per sempre, per la gioia dell’umanità? O, meglio, per la sua gioia, nel non dover più ricordare che quel giorno esistesse.
Come sempre, camminò per la sua casa, cercando, tra quei volti dalle mille orribili smorfie, che urlavano sofferenza e dolore, paura e disperazione con la voce silenziosa della morte, che in quella casa aleggiava e dimorava, padrona e compagna, una in particolare. Quel volto orribile e sfigurato dalla sua inesperienza e dalla crudeltà animalesca che albergavano nei suoi tratti quando ancora essi vivevano, che poteva vantarsi, agl’altri volti sfigurati dalla paura della fine, d’esser stato il primo, ad esser appeso a quelle pareti di gelida pietra, il primo ad assaggiare la furia cieca di un’anima nera come la pece, il primo a vedere la follia che poteva albergare nell’anima di un Santo di Atena.
Si fermò dinnanzi a quella maschera di meschina disperazione, osservandola. Come poteva quell’uomo, aver tanta paura della Morte, che, invece, era stata sua amante per anni? Come poteva quella che, indegnamente, veniva chiamata vittima, aver timore della Nera Signora che per anni aveva nutrito con succulenti bocconi, vite inermi, che aveva sacrificato, come l’agnello sull’altare dell’olocausto? Death Mask non sapeva rispondersi. Quando quel maledetto ragazzino, cieco, oltretutto, lo aveva scaraventato negl’Inferi, dei quali era guardiano, non aveva provato paura, ma solo rabbia. Cieca e feroce, ed umiliazione. Come poteva quel giovane, ad egli inferiore, batterlo di tal maniera? Cos’aveva quel ragazzo, più di lui?
Aveva capito solo dopo, in quell’ultimo istante di lucidità, che, dentro quel cuore trepidante degl’ideali che muovono mari e monti, in coloro che ancora non comprendono perfettamente il mondo, albergava un sentimento non molto dissimile rispetto a quello da egli provato anni prima, in quella gioventù che pareva lontana. Perché lui, Death Mask di Cancer, aveva detto addio a quell’età, tanto tempo prima, quando aveva creato la prima maschera, che gli aveva fatto guadagnare quel soprannome ed innalzato al rango di più spietato assassino del Santuario. Che creatura perversa, si celava nella Quarta Casa, quale mostro di crudeltà, quale contenitore di rabbiosa follia. Un uomo nato col cuore di tenebra.
-Sempri a stessa facci, eh, vecchiu bastardu?- si rivolse ad esso -Ma comu, nun fosti tu, chiddu ca amava a morti?E vardati, ccu ca scantu ùora vardi a tà amante…
Lo fissò ostinato, come se attendesse una risposta da quella maschera di morte. Una risposta che non arrivava. Gli occhi vitrei fissavano qualcosa che Death Mask non poteva vedere, o forse era solo impressione di quelle vuote palle acquose, sgranate. Che l’avevano spiato, sotto il sole cocente di Trinacria, tra i fichi d’India e l’erba bruciata dalla canicola, la terra spaccata, che pareva tutto prendesse fuoco, sotto quella sfera gialla che rendeva secco pure il colore del cielo.
E quel paesello di duecento anime scarse,che si ergeva in quel desolato tripudio di spirito siculo, come l’ultimo, ostinato avamposto dell’uomo contro cotanto invincibile nemico, davanti a sé l’azzurro mare, che ispirava negli sprovveduti quel senso di sicurezza e fiducia che ti ci faceva fa a fine du sorcio, sopra il carro infuocato di Iperionio,  di quelle terre signore, dove vi pascolava le sue sette mandrie di buoi, e le sue sette mandrie di pecore, di cui si cibarono gli incauti compagni di Odisseo dal multiforme ingegno, e alle spalle tenevano il vulcano, casa di Efesto.
In esso, un bimbo albino si ritrovò, nella sua ricerca della forza per assumere il suo posto.
 
Il Patriarca li aveva riuniti, quel giorno, poiché aveva importanti comunicazioni da fare. Il bambino albino, quello di cui anima viva conosceva il nome, stava in disparte, giacchè di anima viva voleva esser amico. Temendo quella truppa di bimbetti come il demonio l’acqua santa, pronti a deridere il suo aspetto bizzarro, il bambino innominato, li guardava scambiarsi battute. Nella sua mente di bambino, pensieri fugaci balenavano nella sua mente, ma non li espresse ad alta voce, conscio che anima viva li avrebbe ascoltati.
Poiché nessun vivente voleva ascoltare chi sembrava toccato dal demonio come lui, che portava la jella ovunque andasse. Chiare erano state le comari del paesello, segnandosi quando passava ed invocando santa Rosalia e la Madonna Addolorata, chiedendosi di qual peccato comare Sabedda e cumpa’ Vituzzu stessero scontando la crudel pena. Se l’era chiesto la levatrice, quel malaugurato giorno, quando tra le mani s’era trovato quel terrificante pargolo, se l’era chiesto don Badassanu, quand’aveva suonato le campane a morto, ed era accorso a dar il battesimo al figliulo del demonio, che gente per bene aveva addolorato.
Se l’eran chiesto tutti i compari e le comari del paesello, nel veder che disgrazia fosse toccata alla loro gente, che sperava che i guai fossero terminati con la guerra e con la comare Rusidda, che s’era inguaiata con un soldato.
Ed invece, Sabedda e Vituzzu iddi aviano messo ô munnu u figghiu rô diavulu, ca sapia sulu Iddio cosa iddi aviri a pavari.
Ed infine il Patriarca era apparso, solenne come sempre, con Gemini e Sagitter, baldi giovini cavalieri, che lo seguivano sempre manco i vecchi randagi davanti alla chiesa dell’Addolorata, che seguivano ratti ratti  ‘Ntoni u foddu, non sapeva dire se nella speranza che l’anima pia desse loro da mangiare, o se aspettassero che la Signora Morte venisse a prendersi l’anima di Totò, per portarlo in quel posto migliore che don Badassanu predicava, e che il figlio di donna Sabedda s’immaginava come la terra della cuccagna, con alberi di quel delizioso cibo scuro e dolce che una sola volta, a Palermo, suo padre gli aveva comprato, chiamato cioccolato, che grondavano di salsicce, forme di delizioso formaggio al posto dei sassi, erba di verde zucchero, fiori di caramello e fiumi di latte caldo e vino, per potersi riempir gli stomachi vuoti con la poca carne attaccata alle ossa del vecchio.
Ed Egli parlò, autorevole e fermo, declamando la volontà di quella sconosciuta dea, che il bambino serviva, senza saper neppure che viso avesse. Dovevano andar lontano, i bambini, poiché lontano erano i loro destini, disse loro. E fu un tripudio di addii e pianti d’infanti, mentre il bambino senza nome nessuno salutava e, fatto fagotto, se ne andò, accompagnato da un servo che di raro aveva incrociato.
 
E così se n’era andato, a cercar la sua fortuna nella sua natia terra. Aveva viaggiato su quel mare che tanto gli ricordava il paesello, e aveva percorso a piedi la strada che da Messina su per l’Etna l’aveva portato. Ed in quel paese nuovo e conosciuto, per certi versi, con la sua brava chiesetta, i vicoletti scoscesi pavimentati di pietre, le casette, gli anziani, le mamme che stavano nelle loro case, a rasettare e preparar la cena, e i bambini che schiamazzavano allegri. E tutti gli sguardi s’era fissati sulla sua chioma albina, e quegl’occhi che sembravano fatti delle fiamme dell’inferno. Qualche anziana comare s’era segnata, e le madri avevan ritirato i figli dalle strade, mentre lui procedeva a capo chino, sempre più su, oltre l’ultima casa isolata, più su, oltre le caprette che qualche birbante aveva lasciato sole, e che, probabilmente, se la dormiva della grossa dopo essersi ben ciucciato una fiaschetta di vino rubata dalla dispensa, consolazione alla canicola estiva e alla misera paga di pastore.
Ed era arrivato a quella casa diroccata, nella quale s’era installato, stanco, finchè non l’aveva vista.
 
Tra una trave e l’altra, notò il bambino, qualcuno s’era già installato. Un piccolo giaciglio di coperte lise e consunte, un tozzo di pane raffermo e un pezzo di formaggio di cui, ormai, i vermi si cibavano, ingozzandosi del lauto banchetto.
-Chi ci sta ca?-chiese, guardandosi attorno, cauto, mentre le mani gli prudevano per rubare quel pane e scappare a gambe levate, per riempire quel doloroso vuoto nello stomaco.
Si trovò qualcosa di duro puntato alla schiena (un pezzo di vetro? Un coltello?), mentre una voce dura lo apostrofava. –Cu si? Venisti ri iusu? Ro villaggiu?
-Ca, ta s'i scimunito? Iusu chiddu cuteddu , ca nun sugnu ca a circari probblemi
-Tsé, non avessi cercato rogne, nemmeno qua dovevi venire.- disse ancora la voce. Abbassò il rasoio, lo sconosciuto, piazzandosi davanti a lui.
Una bambina lurida e macilenta, con indosso stracci, lo squadrava.
-Eh, chi siamo? Scappasti anche tu dall’orfanatrofio, cadaverino? Mi dispiace per te, ma qui di posto non ce ne sta, quindi smamma, va’.- disse la bimba, rinfoderando il temperino in una delle tasche dello scamiciato grigio. I capelli scuri della piccola erano induriti in ciuffetti dello sporco, il viso era lurido, le manine sporche e le unghie nere e le scarpe non le portava, cosicché i piedi eran zozzi anch’essi, e feriti.
-Ti feristi i piedi?- disse il bimbo, guardando la ragazzina, che zoppicava.
-Che te frega, cadaverino? Ma ti facesti gli affari tuoi… va’, già che ce sei, vieni qua, che mi sembri messo maluccio.- gli disse, brusca. Il bambino senza nome avanzò, intimidito. –Su,avanti ca nun ta mancio! sì peddi e ùossa, siddu ai a faticari a scannare qualcuno, mancio u parrinu, ca è tuttu rassu, sutta a tonaca...
 - rise. –Avanti, via quella faccia. Io sono Mena, e tu? Che, non rispondi? Non te lo diedero un nome, a te? No, eh? Vabbe’, si vede che te non sei un cristiano. Sei figlio di una vacca? O di una capra? Ma pure a loro si danno dei nomi.
Il bimbo mise il broncio, guardandola in tralice. Chi era quella pazza? Mena rise più forte.
-Almeno posso sapere quanti anni ha, il signorino offeso?
-Otto.
-Però, sembri più grande. Siedi, picciriddo, che c’hai una faccia da fame che paura mi facesti, prima. To’, mangia, per oggi, questo passa il convento.- disse, offrendogli il pane.
-E tu che mangi?- chiese il ragazzino, titubante, accettando il tozzo di pane e sedendosi accanto a Mena.
-Formaggio ai vermi. Carne pure quella, è.
-Che schifo!
-Eh no, eh, mai dire schifo a qualcosa che si mangia, che sennò mica mi duri.- lo redarguì la ragazzina –Chi cerchi, picciriddo? Cerchi a mammà? Che sbagliasti strada, allora.- disse, prendendo poi un boccone di formaggio e storcendo il naso.
-Cerco un uomo. Che mi deve addestrare.
-Nu mafioso, picciriddu?
-Ma che mafioso e mafioso! Un maestro.
-Ah be’, un maestro, certo. Quello lo trovi a valle, picciriddu, alla scuola.
-Non quel tipo di maestro.
-Ah, forse intesi. Parli del vecchiaccio che vive col culo attaccato alla lava? Quello col nome strano, che dicono che sia miscredente, c’abbia fatto un patto col diavolo? Beddu maistru t'attruvasti, picciriddu, avia vidiri quantu duri ccu chiddu.
 
Mena si tenne il picciriddu per la notte, mossa a pietà. Death Mask si rannicchiò in un angolo, giù dal giaciglio, e s’addormentò, sfinito. La mattina dopo, non si ricordava come, s’era ritrovato tra le vecchie coperte, con la ragazzina. Quella s’era svegliata e, con un saluto ruvido, gli aveva detto d’infilarsi le scarpe, che lo portava dal vecchio pazzo. Il bambino senza nome s’era vestito, muto, infilandosi le scarpe e la giacca di cui s’era liberato la sera precendente, per poi seguire Mena fuori dalla casa in rovina.
-Ta riurdi Mena, vecchiu porcu? Sì ca ta riurdi.. A storpia, a chiamavi..
 - disse Death Mask, rivolgendosi di nuovo alla maschera. Per un istante gli parve ch’essa cambiasse espressione, assumendo un ghigno compiaciuto, al suono del nome “Mena”.
-Sempri bona fu ccu mia. Ma purtò ri maistru e restò ccu nuatri.
 
Mena s’era guardata attorno, con timore, tenendo per mano il bimbo. Cadaverino, come l’aveva ribattezzato, era più giovane di lei di qualche annetto, ma abbastanza alto, e c’aveva un gran fegato, a voler vivere con quel folle lì, con la pelle nera come il carbone, che pareva uno dei diavoli tentatori delle storie che le suore le raccontavano la sera, in orfanotrofio, e lunghi capelli candidi, come lunga era la barba, che s’addicevano più al Signore, che all’Uomo Nero . Anche il luogo stesso era intimidante, minaccioso, ricavato da una fenditura nella nera roccia lavica, oscuro anche nel sole cocente della tarda mattina,e fresco, arredata solo con un tavolo, una sedia, uno spartano giaciglio ed una cassapanca.
-Che volete, voi due?- chiese l’uomo.
-Vengo da Atene, dal Santuario, mi manda il Gran Sacerdote, affinchè siate il mio maestro. Sono un aspirante cavaliere.
-Tu?! Tsè, non farmi ridere, che sembri un cadavere che cammina.
-Uè, porta rispetto, che Cadaverino lo insulto solo io, intesi?- lo rimbrottò, brusca, Mena.
-Ah, ma te ti conosco. Sei la ladruncola storpia che sta qua in giro... eh, ma che male ho fatto, io?-chiese l’uomo, alzando gli occhi al cielo, nel trovarsi di fronte a cotanta caparbia e stramba compagnia, Mena la storpia e un bambino senza nome -Eh, Anansi, che male ho commesso, per beccarmi in un colpo solo una ladra e un moccioso? Volete star qui? Essia, essia, volete rimanere? Rimanete, ma non rompetemi l’anima. Ragazzino, da oggi sarai mio allievo, t’insegnerò quello che c’è da sapere, poi, chi s’è visto, s’è visto. Puoi sistemarti qua, se credi, ma sappi che io sono solo il tuo maestro, non provvederò a te. Sei grande, arrangiati. E ora, potete andarvene.- disse, con un tono che sapeva tanto di congedo. I due ragazzini si guardarono ed in silenzio uscirono dalla grotta.
-Picciriddu, nuddu ti disse ca tu s'ì scimunito? Chistu è foddu, cue to fa fari?- disse Mena, prendendolo di nuovo per mano, e iniziando la lunga ridiscesa, senza attendersi una risposta da lui. Il bambino senza nome incespicava dietro di lei, che pur zoppa, sembrava più sicura sulle sue gambe d’egli, come una capretta  di montagna, che sicura avanza sugl’impervi pendii della montagna.
 
Per gl’anni a venire, fu Mena a prendersi cura di lui, come una mamma. Filomena, figlia d’una malafemmena, era scappata d’un orfanotrofio quando aveva nove anni, dov’era stata lasciata dalla sua signora madre quando la donna Filomena s’era decisa ad andare a Milano a fari furtuna, a Messina, e se n’era andata al paesello, dove vi era nata, per cercare lo zio ‘Ngiulinu. Lo zio, però, già stava sotto terra da un po’ e Mena, piuttosto che tornare dalle suore, s’era traslocata nella casa diroccata, vivendo di furtarelli. Aveva insegnato anche a lui, Cadaverino, come rubacchiare, qua a là. Una volta una pagnotta, che doveva durare ai due ragazzini per tutta la settimana, a volte un pezzo di salsiccia, che non si doveva cuocere e si poteva nascondere facilmente, magari una patata, o una rapa, i fichi, oppure qualche limone, o un arancio, del filo per rattoppare i vestiti un pezzo di spago per farci una trappola per qualche incauto uccellino o un bel coniglietto pasciuto, al quale Mena tagliava la gola senza troppe reticenze.
Una volta gli aveva passato il suo rasoio.
 
-To’, Cadaverino, a te. Tagliagli la gola, ché io c’ho fame.
-Ma... io non posso farlo!- si lamentò Cadaverino, guardando l’innocente creatura che l’amica stringeva tra le mani, che si dibatteva furiosa, come se percepisse la fame della sua aguzzina ed i suoi intenti.
-Oh certo, che puoi. O lei, o noi.- lo riprese Mena, tenendo ferma la bestiola, affinché potesse reciderle la gola. Il bambino degluì a vuoto, guardando il povero coniglietto, poi posò il temperino sulla pelliccia fulva e quello smise di muoversi. Osservò la povera lepre, con le lacrime agl’occhi, prima di sentire le braccia di Mena che l’avvolgevano.
-Hai fatto bene, Cadaverino, sei stato bravo, non ha sofferto. Su, piccino, che va tutto bene, piangi, se vuoi.
E lui aveva pianto, aveva pianto a lungo, pensando a che razza di creatura fosse, lui, che aveva ucciso una povera lepre, e i suoi stessi genitori. E se n’era stato buono tra le braccia di Mena, che non aveva detto nulla tutto il tempo.
 
A volte, gli sarebbe piaciuto che Mena fosse ancora lì con lui, a consolarlo, quella stramba bimba selvaggia, coi capelli neri e gli occhi scuri che sembravano sempre scrutarti l’anima, invece del viso ed i vistuti tuttu cùsiri. Non aveva più bisogno, di quelle parole dolci, eppure, le anelava, forte di quel vizio dell’uomo di voler qualcosa che, ormai, non poteva più ottenere.
- Avia dummannari na cosa, vecchiu bastardu: picchì? 'N tuttu chistu tempu, nun aiu mai attruvato na riposta, mai. Mi riri armenu picchì!- si rivolse ancora con amarezza alla maschera. Ancora una volta, gli sembrò ch’essa ridesse di lui, come a dirgli ch’egli lo sapeva. Che era come lui.
- Sugnu puru iu sìenza anima, bastardu, u sacciu. Ma pirchì Filumena?
Ancora una volta non trovò risposta. Ripensò alla sua amica, che gli era rimasta accanto per tutto l’addestramento, facendogli da mamma. Gli voleva bene, Mena, al suo Cadaverino, e pregava che riuscisse a realizzare i suoi sogni. Alla fine il maestro li prese con sè entrambi, quando fu troppo vecchio. “Brava Filomena, diceva, che gl’hai insegnato ad avere palle, a questo gracilino.”
Ma lui non era più gracilino: a tredici anni sembrava quasi uomo fatto, più alto della giovane donna, che sempre si lamentava di non potergli più rattoppare i vestiti. E lui rideva, rideva come un pazzo di quel suo tono falsamente serio, e allora Mena rideva anche lei, e sembrava più bella. Mena non aveva paura di lui, gli voleva bene.
Lo stupì, un giorno, tornando a casa con delle scarpe nuove, e dei vestiti nuovi anch’essi, lei che, pur lavorando sodo all’osteria, non aveva mai più di dieci lire in tasca.
-Avanti, picciriddo prova, susu! Ca si vriùognuso, ùora?- rise Mena, quando il ragazzo si trovò davanti i vestiti nuovi. Era di seconda mano, ma ancora buoni, normali, braghe e camicia, ed un paio di scarpe robuste, di quelle che ci potevi camminare sui tizzoni ardenti (cosa che gli era pure capitata, visti i metodi di certo non ortodossi del suo maestro), e non si cremavano.
-Ma… Mena… ta custarunu tantu!
-Nun te preoccupari, picciriddo! Ca vuliri, iri àncura ccu tui vestiti vecchi, ca si cùsiri àncura 'n pocu, Arlecchino veni fùora. Susu, à vèstiri, ca iri 'n paisi, ca avanzo 'n po’ ri piccioli e stasira iri fari festa, ca 'n pocu ri rassu fari beni a te e a chiddu ri ddà…- rispose Mena, sfilandogli la camicia vecchia e porgendogli quella nova. Si cambiò,e scese con lei in paese, a braccetto, cantando una canzone.
Lo vide per la prima volta, seduto fuori dall’osteria. Quell’uomo gli diede i brividi, ma non seppe dire se fosse lo sgraziato viso che ostentava con orgoglio, dai tratti grossi che aveva tentato di smussare col completo di buona sartoria, gli occhietti piccoli ed iniettati di sangue, il viso tondo e grasso e i capelli che di stoppa parevan fatti, d’un colore anonimo e scialbo.
Parlava fitto con Don Fofò, servito e riverito da sua moglie, donna ‘Nziata, che faceva avanti e indietro dall’osteria, offrendo all’ospite il vino buono, mica l'acqua rê piattiche serviva di solito.
-Chi sarà mai?- chiese Mena. – Uno ca i piccioli nun mancari mai, a rattu ca comu sa fece 'n quattru donna Rosalia, ca se siri n'àutru, già l'avia cacciato
-Donna Rosalia sarebbe capace di leccar pure la terra dove quello cammina, se le sventolasse davanti mille lire, la malafemmina.- sussurrò il ragazzino. Manco avesse sentito i commenti dei due giovani, la suddetta malafemmina alzò lo sguardo, riservando loro un’occhiata piccata. –Mena, iddu l'avia ccu nuautri!
-Deve solo dir qualcosa, che mi licenzio. Che sai, le figlie, Mara Razia e Ajta, eh, a loro puzza, lavorare, ma voglio che il signor padre faccia loro l’armadio nuovo. “Ma signor Patri, comu pinsa ca putimu firi 'n bonu matrimoniu, si iri 'n giru cunciate comu chidda mischina rà storpia!”. Eh, storpia so storpia, ma scema ancora no! Te le immagini a sposarsi il figlio di Don Caruso? Povera anima la suocera!- ridacchiò, perfida. –E povero anche il signorino consorte, che un tronco viziato si ritroverebbe tra capo e collo!
-Perché, signorina Mara Razia punta a Ducciu Caruso?
-Che, deluso? Sperasti di maritartela?- gli fece, con un ghigno monello in volto -Eh sì, mentre la sorella, ca avia a testa pirfinu cchiù sbacantata, punta ad un proprietario terriero di Enna. Eh, uomini, cadono come pere cotte davanti alle belle signorine, e poi si trovano fregati.
-Dovrebbero sposarsi una come te.
-Come me? Oh Cadaverino, non ti spiegai nulla, della vita? Gli uomini vogliono donne sciocche, e che lavorino duro… oppure belle, da usare come soprammobili. Ca si fanno d'una chi avia, comu sempri a grazia da riurdari, a lingua chiù lùonga da chilla ro diavulu?! Chi se la prende la zoppa, figlia della donna di malaffare?
-Gente sciocca, nulla di più. Ta spusu iu, allura.
-Sì, dai, facciamo una bella fuitina e ci sposiamo.- scoppiò a ridere Mena, prendendogli il volto tra le mani e costringendolo a chinarsi -Oh Cadaverino, ma che mi pensi? Tu sì àncura nu picciriddu, nun me poi spusari!
- gli scoccò un bacio sulla fronte, sotto gli sguardi di rimprovero traboccanti, e di famelica curiosità incendiati, delle comari, che criticavano quella carusa di malaffare râ ciancata e u figghiu ru diavulu. Quello che il bambino senza nome non vide, fu lo sguardo interessato dello straniero.
 
Se solo avesse capito allora, si incolpava Death Mask, se solo avesse avuto sentore di cosa fosse quell’uomo, allora avrebbe trascinato Mena giù per l’Etna, fino a Messina e poi su una nave per Napoli.
Ma avia tridici anni, e fu stùbbutu. E si accurse ri cosa succêsse truoppu tardi
Il maestro se n’era andato, per sempre, nella terra che i suoi antenati popolavano, raccomandando a Mena di badare a lui, e a lui di badare a Mena, poi gli aveva detto che l’armatura era nel vulcano, e che si sarebbe rivelata quando sarebbe stato pronto.  Rimasti soli, decise di alleviare il peso dalle spalle dell’amica, e si mise a lavorar come bracciante per Don Caruso,  cercando di comprendere perché la maledetta armatura non volesse saperne di rivelarsi ad egli, che ne era il legittimo possidente.
Era a lavoro, quel giorno, quando venne dalla città un carabiniere. La guardia chiedeva di un mafioso, ma nessuno pareva sapere, di mafiosi non ce n’eran, lì, era tutta bona genti, tranne i due folli, Filomena la zoppa, e il suo fido compare Cadaverino, che stavano su, sul vulcano.
La guardia se n’andò, borbottando fra sé. Scomparve una ragazza la stessa notte, Caterina Arena e, per quanto la cercarono, non trovarono nulla per giorni, e, quando parve chiaro che la giovine se l’era fugata, forse una fuitina con qualche giovanotto di Messina, trovarono ciò che d’ella restava. U corpu a pezzi, e mangiato ri vermi.
Ne scomparve un’altra, e un’altra ancora, e ancora. E la gente parlava, mormorava. Si diceva che fosse stato il ragazzo di cui nessuno conosceva il nome, quel demonio che viveva nel vulcano, che fosse in combutta con Satana, e venne anche la guardia.
E poi venne il giorno, e Mena non tornò più a casa.
Uscì sotto la pioggia, cercandola. La chiamò finché ebbe voce, e camminò finché i muscoli non reclamarono pietà, ma Mena non veniva, non la trovava da nessuna parte.
Scese in paese, bussando ad ogni porta, urlando, ma nessuno gli aprì, ché pareva aver in corpo il Diavolo.
 
E la trovò.
Coi capelli sporchi, e il viso bianco di morte, gli occhi spalancati e il petto pugnalato. Le pupille si fissarono su di lui, mentre allungava la mano, con quella flebile forza che gli rimaneva nel corpo fiaccato, ché alacremente aveva lottato con la Signora Morte.
-No! Mena! Mena!- urlava il ragazzino, crollando per terra, le gambe che non gli reggevano. Si trascinò nel fango, verso di lei.
-Cadaverino…
-Nun me lassari puru tu, Mena!
-S'avia vìviri e s'avia moriri… Cadaverino… nun chiànciri ppi me...- ansimò.
-Mi chiamo Turiddu!- pianse, stringendosela al petto.
-Salvatore… che bel nome… Tu fosti a salvezza mia. Tore…t'avia sìentiri, nun avia a firari ri chiddu
Gli morì sotto gli occhi, Filomena Di Dio, con quell’ultima frase. E nel petto gli morì anche il piccolo Tore, mentre si alzava con la giovane tra le braccia, gli occhi di brace di oscuri presentimenti pieni, ed andava a cercare lo straniero.
 
-Ma purtasti via….tu, lùordu porcu, ma purtasti via! T'ammazzari vulia, e u feci, riurdi? Comu prijavi. Comu nu puorcu ammazzato… tu, l'anima mia rubbasti, e iu ti rubai la vita, e a facci. Fosti tu a fari chistu mostru, nun si cuntentu?- chiese, con un ghigno, guardando la maschera. Soddisfatto guardava la sua espressione spaventata, mentre si allontanava.
Con la quale aveva sancito un patto di sangue con la sua armatura, che lo ritenne pronto per servirlo.
Sancì un patto di sangue col male che in egli dimorava fin da bambino. Quanto aveva amato lordarsi del sangue delle lepri che ammazzava, e quale giubilo estatico aveva nel cuore, mentre affondava la mano nella grassa cassa toracica di quel uomo, strappandogli il cuore, che veloce batteva, come un uccellino spaventato.
Sancì un patto di sangue con l’orrore, strappando la faccia all’assassino della sua Mena.
Lasciò in Sicilia Salvatore Laganà, sulla tomba di Filomena Di Dio.
Per essere solo Death Mask.
 
 
Alloooora, per chi già mi conosce, direi che sono stata buona, col granchietto, per chi non ha mai letto nessuno mio scritto: sono stata fin troppo indulgente.
Ieri stavo rimuginando su bambini, innocenza, cattiveria, scelte e compagnia bella (causa qualche litro di Earl Grey e caffè extra-zuccherati), e m’è venuto in mente Death Mask: possibile che sia nato così bastardo? E ho deciso di raccontare come, secondo me, può essere diventato quello che è ed ecco qui questo scleroXD
 

  • Questa storia è ambientata in un periodo di tempo che va tra il 1971 e il 1976 (per i flashback) e il 1986, anno in cui è ambientato Saint Seiya, ed, in cui, Death Mask ha verosimilmente ventitre anni.
 
  • Filomena “Mena” Di Dio è un mio personaggio originale (che guarda caso fan sempre brutte fini, ma va be’…), ha dodici anni quando incontra Death Mask, diciassette quando muore. Il nome l’ho preso da Filumena Marturaro, una commedia di Eduardo de Filippo che, personalmente, adoro.
 
  • Il maestro è un mio personaggio originale.
 
Un po’ di noticciole linguistiche (più o meno precise) siciliano-italiano ^^ (ringrazio la mia traduttrice, Lady Aquaria, a cui dedico, assieme a Violet Acquarius (spero che mi sia fatta perdonare!) grazie!)
*Sempri a stessa facci, eh, vecchiu bastardu? Ma comu, nun fosti tu, chiddu ca amava a morti?E vardati, ccu ca scantu ùora vardi a tà amante…: sempre la stessa faccia, eh, vecchio bastardo? ma come, non eri tu, colui che amava la morte? e guardati, con quale terrore ora fissi la tua amante...
* Sabedda e Vituzzu iddi aviano messo ô munnu u figghiu rô diavulu, ca sapia sulu Iddio cosa iddi aviri a pavari.: Sabedda e Vituzzu avevano messo al mondo il figlio del demonio, che sapeva solo il signore che c'avessero da scontare
* Chi ci sta ca?: C'è qualcuno, qua?
*Cu si? Venisti ri iusu? Ro villaggiu?: Chi sei? Vieni da giù? Dal villaggio?
* Ca, ta s'i scimunito? Iusu chiddu cuteddu , ca nun sugnu ca a circari probblemi: Che, t'è dato di volta il cervello? Giù quel rasoio, che non son qua a cercar rogne
*Beddu maistru t'attruvasti, picciriddu, avia vidiri quantu duri ccu chiddu.: Bel maestro ti trovasti, picciriddu, vedi come mi duri, con quello.
* Ta riurdi Mena, vecchiu porcu? Sì ca ta riurdi… A storpia, a chiamavi…: Te la ricordi Mena, vecchio porco? Sì, che te la ricordi. La storpia, la chiamavi.
* Sempri bona fu ccu mia. Ma purtò ri maistru e restò ccu nuatri.: Sempre gentile fu, con me. Mi portò dal maestro, e poi rimase con noi.
* Picciriddu, nuddu ti disse ca tu s'ì scimunito? Chistu è foddu, cue to fa fari?: Piccolo, nessuno te lo disse mai che tu stai fuori di testa? Questo è pazzo, chi te lo fa fare?
*
i vistuti tuttu cùsiri: i vestiti tutti rattoppati
* Avia dummannari na cosa, vecchiu bastardu: picchì? 'N tuttu chistu tempu, nun aiu mai attruvato na riposta, mai. Mi riri armenu picchì!: Ti faccio una domanda, vecchio bastardo: perchè? In tutto questo tempo, non ho mai trovato una risposta, mai. Dimmi almeno il perché.
*Sugnu puru iu sìenza anima, bastardu, u sacciu. Ma pirchì Filumena?: Sono anch’io senz’anima, bastardo, lo so. Ma perchè Filomena
* Avanti, picciriddo prova, susu! Ca si vriùognuso, ùora?: Avanti bambino, provatele, su! Che, mi fai il vergognoso, adesso?
* Ma… Mena… ta custarunu tantu!: Ma, Mena, ti saranno costate tanto!
*Nun te preoccupari, picciriddo! Ca vuliri, iri àncura ccu tui vestiti vecchi, ca si cùsiri àncura 'n pocu, Arlecchino veni fùora. Susu, à vèstiri, ca iri 'n paisi, ca avanzo 'n po’ ri piccioli e stasira iri fari festa, ca 'n pocu ri rassu fari beni a te e a chiddu ri ddà…: E tu non ti preoccupare, bambino! Che volevi andar ancora con i tuoi vestiti vecchi, che se li rattoppo ancora un po’, Arlecchino bello e buono mi vieni fuori?! Su, su, vestiti, che poi andiamo in paese, che m’avanzarono ancora un po’di spicci, e stasera facciam festa grossa, che un po’ di ciccia fa bene a te e a quello di là...
* l'acqua rê piatti: la sciacquatura di piatti
*Uno ca i piccioli nun mancari mai, a rattu ca comu sa fece 'n quattru donna rosalia, ca se siri n'àutru, già l'avia cacciato: Uno a cui i soldi non mancano di certo, visto come si fa in quattro donna Rosalia, che se era un altro, già l’avrebbe cacciato.
*Mena, iddu l'avia ccu nuautri!: Mena, mi sa che ce l’ha con noi, eh.
*Ma signor Patri, comu pinsa ca putimu firi 'n bonu matrimoniu, si iri 'n giru cunciate comu chidda mischina rà storpia!: Ma signor padre, come pensa che potremmo far un buon matrimonio, se andiamo in giro conciate come quella pezzente della storpia!
* ca avia a testa pirfinu cchiù sbacantata: che ha la testa perfino più vuota
* Ca si fanno d'una chi avia, comu sempri a grazia da riurdari, a lingua chiù lùonga da chilla ro diavulu?!: Che se ne fanno di una che c’ha, come hai sempre la grazia di ricordarmi, la lingua più lunga di quella del Demonio?!
* Ta spusu iu, allura: Ti sposo io, allora.
* Tu sì àncura nu picciriddu, nun me poi spusari!: Sei ancora un bambino, mica mi puoi sposare!
* carusa di malaffare râ ciancata e u figghiu ru diavulu: fanciulla di malaffare della zoppetta e il figlio del Demonio
* Ma avia tridici anni, e fu stùbbutu. E si accurse ri cosa succêsse truoppu tardi: Ma aveva tredici anni, ed era ingenuo. E si accorse di cosa succedeva troppo tardi.
* Nun me lassari puru tu, Mena!: Non mi lasciare pure tu, Mena!
*S'avia vìviri e s'avia moriri… Cadaverino… nun chiànciri ppi me…: Si vive e si muore… Cadaverino… non piangere per me…

* Tu fosti a salvezza mia. Tore…t'avia sìentiri, nun avia a firari ri chiddu: Fosti la mia salvezza, Tore… ti dovevo ascoltare, non mi dovevo fidare di quello…
* Ma purtasti via….tu, lùordu porcu, ma purtasti via! T'Ammazzari vulia, e u feci, riurdi? Comu prijavi. Comu nu puorcu ammazzato…..tu, l'anima mia rubbasti, e iu ti rubai la vita, e a facci. Fosti tu a fari chistu mostru, nun si cuntentu?: Me la portasti via… tu, lurido porco, me la portasti via. Ammazzarti, volevo e lo feci, ricordi? Come supplicavi, come un maiale scannato. Tu l’anima mia, mi rubasti, e io ti rubai la vita, e la faccia. Fosti tu a creare questo mostro, non sei contento?
   
 
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