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Autore: Guardian1    25/07/2011    3 recensioni
“C’era una volta una ragazza di nome Yuffie, ma questa storia fa schifo, perché lo sanno tutti che le principesse delle fiabe sono bellissime, hanno gli occhi dolci e splendidi nomi fiabeschi come Aeris.”
Non funziona. Io non sono una principessa.
Sono solo una viaggiatrice.
… Sì, così può andare.
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Vincent Valentine, Yuffie Kisaragi
Note: Traduzione | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: FFVII
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Premessa (che tutto sommato potete saltare) della traduttrice, cambiata in corso d’opera: I miei sentimenti per questa storia sono decisamente altalenanti. Sto lavorando agli ultimi capitoli, e non mi trovo più tanto d’accordo con la premessa che avevo scritto all’inizio, in cui dicevo che oggi non l’avrei tradotta.
Per evitare di contraddirmi ulteriormente, lascio a voi tutte le conclusioni, facendo presente che il primo capitolo di questa storia risale almeno al 2000. E che l’autrice l’ha scritta più o meno quando aveva dai sedici ai diciotto anni, nel bene (uno stile già così definito, voci dei personaggi forti e riconoscibili, delicatezza e profondità richieste dalle tematiche) e nel male (qualche sporadica ingenuità e caduta, stilistica e non).
Che piaccia o meno, che io mi decida o meno su quello che penso di questa storia, Sunshine in Winter è pur sempre Sunshine in Winter. Rimane una delle fanfiction storiche e più famose del fandom anglofono di FFVII, EVER, e tra le storie di quel periodo è una delle poche che oggi non sfigurerebbe (e non sfigura) affatto, con buona pace di tutti quelli che dicono che si stava meglio quando si stava peggio e su internet ci navigavano tre anime in croce. E se ha incontrato tanto successo e continua a farmi cambiare idea un motivo ci sarà.
Che dire. Buona lettura. <3
PS: ho deciso di tradurla facendo abbondante uso del passato prossimo per una ragione ben precisa, ma non sono molto sicura del risultato. Ditemi un po’ cosa ne pensate.




Sunshine in Winter


prologo






Io, Yuffie Kisaragi, sono sempre stata una viaggiatrice.

Forse è allora che si è messo in moto tutto questo terribile casino: in quella foresta, come se non stessi aspettando che loro, quando mi fecero un culo così e li bollai tutti come imbecilli, soprattutto lui-

Un attimo. Sarebbe stupido iniziare da lì. È troppo prima dell’inizio, e tutti cominciano sempre dall’inizio, no?

È sensato cominciare dall’inizio.

Come potrei iniziare? C’era una volta e trallallero?

“C’era una volta una ragazza di nome Yuffie, ma questa storia fa schifo, perché lo sanno tutti che le principesse delle fiabe sono bellissime, hanno gli occhi dolci e splendidi nomi fiabeschi come Aeris.”

Non funziona. Io non sono una principessa.

Sono solo una viaggiatrice.

… Sì, così può andare.




Sono sempre stata una viaggiatrice, fin dalla tenerissima età di quattro anni. La storia narra del mio amore per i nascondigli in posti stupidi mentre mia madre diventava pazza per cercare la sua preziosa figlia, o delle volte che andavo in esplorazione delle enorme soffitte in cui trovavo trovavo sempre qualcosa di luccicante con cui giocare. Le cose che luccicano hanno sempre avuto un ruolo molto importante nel mio universo, specialmente quelle cose luccicanti con cui mio padre mi lasciava giocare, tonde e luminose…

La storia narra che io abbia messo i denti su una All materia. Io lo nego con veemenza…

Sono sicura che fosse una semplice Restore.

Comunque sia, meglio uscire dal Viale delle Digressioni. Ho sempre preferito gironzolare, infilarmi in ogni spigolo e angolo dell’universo, piuttosto che starmene con le mani in mano a sorseggiare tè. Non mi piace aspettare che il mondo venga da me; sono io che vado dal mondo! Benvenuta, Yuffie Kisaragi!

Le cose non andarono così per molto, molto tempo.

In ogni caso, persino dopo aver salvato il mondo (con un aiutino da parte di Cloud eccetera), non so perché, ma c’era gente che si aspettava che tornassi alla vita di prima. Col cavolo! C’era ancora un mondo là fuori che aspettava le mie tasche, migliaia di materia da trovare, migliaia di montagne da scalare. Non avevo ancora un posto nella vita, perciò dovevo crearmene uno – avrei esplorato il mondo, l’avrei conquistato!

È andata avanti così per due anni, fino a quando ne ho compiuti diciotto. Viaggiare da soli non è certo uno scherzo; ho visto raramente i miei amici, e gran parte del mio tempo è ruotato attorno al mio unico mezzo di sussistenza – la materia. Compravo, portavo al master, vendevo. Nell’arco di un anno avevo racimolato una fortuna niente male. Poi ero pure taccagna, e ne spendevo solamente lo stretto indispensabile.

La vita da soli è triste e pericolosa, e mi cacciavo in innumerevoli guai di cui in seguito ridevo. Cicatrici, un’infinità; sia sulla pelle che sulla psiche…

Oddio, adesso parlo come un maledetto psichiatra. O come Red, o Vincent, o che so io. In breve, ero sola. S-O-L-A. Non andavo più a trovare i miei amici, non sembrava ne avessi mai il tempo o la voglia; Red era a Cosmo, e Cloud e Tifa erano a Junon ad aiutare Reeve che trafficava con le rovine della Shinra, e Barret e la sua bamboccia erano tornati a Corel. Cid era morto, Shera gli aveva avvelenato il tè (almeno, questo è quello che avrei voluto io; abitava ancora a Rocket Town, orribile come sempre, a fumare e inalare acido tannico come se fosse passato di moda. E lei l’aveva pure sposato! E aspettava un figlio da lui! Ugh! Salvatemi da queste orrende immagini mentali!).

Aeris dormiva letteralmente con i pesci, e per quanto riguarda Vincent… Ah, molto probabilmente anche lui dormiva con i pesci, solo non altrettanto letteralmente. A quei tempi avrei scommesso una generosa fetta delle mie materia che si fosse rinchiuso in quello spregevole, vecchio maniero per lasciarsi marcire nella bara. Non che sarebbe cambiato molto.

Io e Vincent: « Ciao, Vincent. »

« … »

Io e Vincent che marcisce nella bara: « Ciao, Vincent. »

« … »

Io e il vuoto pneumatico: « Ciao, Vincent. »

« … »

Visto? Qualcuno nota differenze? Io di certo no.

Mi stava bene vivere da sola. Non mi dava fastidio più di tanto. Almeno ero lontana da Wutai, e dai grandiosi sproloqui di mio padre su un mio sospirato ritorno definitivo per fornirgli un “Leader per Wutai, o quantomeno un erede Kisaragi.” Alla fine divenni così stufa di sentirlo blaterare a proposito di quel dannato leader-per-Wutai o peggio, dell’erede, che esplosi.

« Se ci tieni tanto ad un erede, sfornatelo tu! Perché puoi stare sicuro che non sarò io a trovartene uno! »

E fu così che cominciò un’altra Guerra di Wutai, e ci urlammo contro per circa due ore. Godo si fece parecchio rosso in volto, e vomitò parole come “Dovere!”, e “Onore!”, e “Maturità!”, e io mi limitai a rispondere con le litanie che avevo appreso dal mio caro Cid (fui molto grata a Cid, in quelle ore). Alla fine, gli gridai di andarsi gentilmente a sedere su una puntina e aspettare che io gli facessi un porcellino, e me ne uscii sbattendo la porta. Non fu molto maturo, ma oh, la soddisfazione…

Era successo due anni prima. Non vedevo la lacca rossa di Wutai da allora. E ne ero felice, felice!

Ma avrei potuto uccidere per una bella tazza di tè al gelsomino.

Tuttavia, la storia non comincia nemmeno qui. Sarebbe un inizio noioso, perché per i due anni successivi non ho fatto altro che vagabondare e uccidere mostri, come già sapete. Ma dopo due anni, la fortuna sembra avermi abbandonato…

Ero nel cuore della giungla, da qualche parte vicino Gongaga, credo. Ero costretta a tenermi alla larga dal mondo civilizzato perché nei dintorni delle città ci sono solo mostriciattoli da quattro soldi, tipo quelle deficienti rane cloni verdi della morte. Io volevo qualcosa di grosso! Avevo una buona Restore materia prossima al completamento, e con un altro po’ di fatica avrei potuto sbancare la grana. Grossissimissimo!

E qualcosa di grosso mi è capitato.

Doveva essere scappato da una caverna e simili, perché l’ultima cosa che piace fare ai draghi è scorrazzare nelle giungle. Amano le pianure; avevo pensato di essere al sicuro quando avevo superato il limitare della giungla che emanava quell’odore così inebriante. Ero felice e sicura di me, Conformer alla mano.

Non era molto che cacciavo quando ho sentito un pesante flap, flap, flap sopra di me. Mi sono elettrizzata all’istante; quei rumori appartenevano sicuramente a delle ali enormi e coriacee, e credevo di essere incappata uno di quegli enormi uccelli feroci. Armeggiando per inserire la materia nell’arma, mi sono precipitata allo scoperto per affrontarlo, gridando per attirare la sua attenzione.

Oh, se solo avessi tenuto la bocca chiusa! Avevo attirato sì l’attenzione del mostro, ma un ruggito lacerante mi fece tremare le ginocchia e alzare lo sguardo. Era un drago, un drago verde, non uno sputafuoco carino carino o uno scemissimo rettile volante, bensì un gigantesco drago alato…! Ero scovolta, ma non abbastanza da dimenticarmi di usare immediatamente le materia.

L’ho colpito con un incantesimo di tuono di terzo livello, ma più che male gli ho dato fastidio. Con il suo ruggito gassoso successivo ha dato fuoco a una buona porzione di giungla, il crepitio del fuoco mi assordava le orecchie. Poi la creatura è piombata addosso alla sua preda – io.

Dopodiché non ricordo molto, eccetto che mi sono voltata per tuffarmi nella parziale sicurezza offertami dagli alberi, sentendo la sua presenza opprimente contro di me e d’un tratto un dolore, un dolore acuto, intorpidente e lancinante artigliarmi la gamba sinistra.

Doveva aver provato ad afferrarmi senza successo; è però riuscito a ferirmi.

È stata proprio la giungla a salvarmi, alla fine. Sono caduta nel sottobosco, e il drago doveva aver avvistato una preda più grossa e più paffuta di me che era stata scoperta dal suo fuoco. Sono rimasta stesa lì a piagnucolare come un gattino in punto di morte, il corpo stordito dal dolore cocente e scoppiettante; sentivo qualcosa muoversi nella mia gamba in copiosi e pesanti torrenti.

Intontita, ho provato ad alzarmi, e il dolore mi ha fatto subito soffocare in un mare di vomito.

Ho finito di vomitare sul terriccio lì vicino, e alla fine, la consapevolezza che sarei morta da sola in una disgustosa giungletta, cibo per qualche stupida rana mutante della morte, mi ha fatto scoppiare in lacrime. Ho urlato il più forte possibile, e poi, quando il dolore si è intensificato troppo, ho perso misericordiosamente i sensi.




Ho sognato, nel mio sonno delirante e febbrile.

Ho sognato che Aeris mi teneva la mano, tutta vestita di verde, e mi diceva di stringere i denti perché il Lifestream non aveva ancora bisogno di me. Neanch’io avevo bisogno del Lifestream, ma la sua presenza era confortante. Fanculo la morte, le ho detto. La sua risata avrebbe potuto spezzarmi il cuore. Penso l’avesse già fatto.

Ho sognato che, sparita lei, al suo posto è comparsa mia madre. La confusione e il dolore stavano crescendo, e lei non parlava; mi ha accarezzato soltanto la fronte. Stavo cominciando a piangere per il dolore e la stanchezza e l’amaro desiderio che finisse tutto.

Ho sognato che arrivava Vincent; si è accovacciato vicino a me, artiglio alla mano. Mi ha afferrato la gamba prima che io potessi implorarlo di fermarsi, vi ha fatto un incisione, e io ho gridato e gridato e gridato.

Poi i sogni sono cessati.




« Penso stia rinvenendo. »

Oh, ma dai, ho pensato tra le vertigini, e poi mi sono accorta del dolore. La gamba sinistra mi bruciava da morire, e faceva male come non mai; era come se qualcosa me la stesse corrodendo. La mia lingua sembrava un calzino, ma questo non mi ha impedito di frignare rabbiosamente.

« Puoi somministrarle qualcosa, Akila? Io devo preparare il trattamento. »

Qualcuno mi ha stretto il braccio e poi ho sentito una siringa infilarsi nella mia vena. Il logorante dolore che ha seguito era come saltellare tra le margherite in confronto ai Tonberry che stavano presenziando al festival nella mia gamba.

« Come ti senti? »

A parlare era stata una voce gentile, di donna, quel genere di voce che ti chiedeva se gradivi il latte con i biscotti. Non ero però dell’umore per le voci gentili, o per il latte coi biscotti.

« Uda berda, » ho gracchiato, a voce roca e ansante.

Lei ha afferrato il succo.

« Beh, era prevedibile, cara. Sei finita in un bel guaio. »

C’era qualcosa sui miei occhi, fresca e umida, e così su tutta la fronte. Ho deglutito.

« Perché non ci vedo? » ho chiesto.

« Ecco, cara, hai avuto una febbre veramente brutta, e ora i tuoi occhi sono molto sensibili alla luce » ha risposto lei, evasiva. « Credo che sarebbe meglio se non ti togliessi quel panno per qualche ora. »

Ho sospirato e mi sono rilassata sul letto. Il sedativo con cui sono stata inforcata ha iniziato a far effetto, e il dolore stava sfumando; ero anche un po’ confusa, ma almeno il dolore stava svanendo. Ero così sollevata che ho pensato che avrei potuto saltare in piedi e ballare una giga gridando: “EVVIVAAA!”

Tuttavia, il suo tono vago mi ha reso morbosamente curiosa.

« Che cos’ha la mia gamba? È rotta? Mi fa un male cane, ma nel senso che davvero davvero davvero- »

« Posso immaginarlo. Hai perso molto sangue, e qualche muscolo si è strappato. E la tua ferita ha fatto infezione, e c’è mancato poco che morissi. Non sei nemmeno ancora del tutto fuori pericolo. »

« Grazie » ho bofonchiato.

« Suvvia, è un miracolo che tu sia sopravvissuta a tanto, con l’infezione e tutto; si è propagata per tutto il sistema sanguigno. » Beh, questo spiegava perché mi sentivo come uno stronzo al vapore. « E poi hai perso tanto di quel sangue… Oh, se quel Vincent così carino non ti avesse portato qui in tempo- »

Ho provato ad alzarmi, ma mi è venuto un capogiro e sono ricaduta giù. « Vincent? » ho squittito. Oh, per tutti i denti del diavolo, no. Dovevano esserci miliardi di Vincent là fuori. « Questo Vincent ha per caso i capelli lunghi scuri e gli occhi rossi e fa un po’ paura? » ho continuato, interdetta.

« Oh, non direi proprio paura, però sì, begli occhi davvero! » ha cinguettato l’infermiera. « Ahh, un ragazzo tanto beneducato, mi porta sempre i fiori la domenica- »

E qui è partita un’interminabile lista delle grazie di Vincent, e avrei scartato l’ipotesi che fosse Valentine se non fosse stata per la sua malinconica conclusione: « Anche se preferirei che fosse un po’ meno taciturno. »

Beh, chi poteva essere se non quel coglioncello. A Vincent è stato magnanimamente concesso di possedere uno o due minuti dei miei pensieri, che per la maggior parte si riassumevano nella frase “Perché è qui?” e altri cliché sullo stesso stampo. Nemmeno Mister Congiuntivite avrebbe potuto catturare la mia attenzione a lungo, e presto la mia mente è tornata alle mie condizioni: alla gamba che ricordava un pezzo di legno gonfio – un legno gonfio e dolorante.

Non riuscivo a sentirla per bene, ed era questo che mi spaventava; un dolore penetrante mi avrebbe assicurato che almeno ero tutta intera.

« Vado un attimo dal dottor Bannon, cara » ha trillato la donna. Grazie agli Dei.

Il rumore secco dei tacchi ha segnalato la sua annunciata e benaccetta dipartita, e ho tastato quello che avevo in testa. La benda bagnata è stata legata, ma per una ragazza che ha scassinato la sua prima serratura alla dolce età di cinque anni, cos’è un nodo?

L’ho tolto in men che non si dica e la luce del sole mi ha punto gli occhi. « Ah! » ho sospirato irritata. Cavoli, certo che il sole splendeva forte, anche se la stanza era tipicamente gongaganiana: mura di terracotta, fiori secchi alle pareti, aromi nell’aria, mobilio di legno. Ero sorpresa quanto delusa che non mi avessero ancora fatto roba figa, tipo riempirmi di impasto di occhio di rana salmodiando strane litanie attorno al mio corpo.

Ah, la vista mi era tornata. Era ora di ispezionare la mia gamba.

Ho sbattuto le palpebre.

Poi ho gridato e gridato e gridato e gridato e ho iniziato a muovermi come impazzita, e sono ruzzolata giù dal letto e c’era un dolore atroce che collegava la mia gamba al mio corpo che sembrava un’entità a parte e poi non c’è stato altro che il mio grido, acuto e dilaniante nella gola, prima che entrassero nella stanza per darmi un altro tranquillante e diventasse tutto grigio.




Oh, madre, che gli Dei mi assistano.
   
 
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