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Autore: Seraphiel_    26/07/2011    4 recensioni
" A nominarlo provò un brivido straniero per la sua pelle. Una malattia? Di certo si trattava di una febbre. Una febbre cocente, sconosciuta. Si augurò, forse senza accorgersene, che quel morbo la infettasse permanentemente. "
GarnetxGidan;
Genere: Malinconico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Garnet Til Alexandros XVII, Gidan Tribal
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Dedico questa Fic a Katana ( in parte sei stata tu a donarmi l’ispirazione ).
Spero che un Gidan arrivi per ognuna di voi, principesse.
 

 

Damn , damn, damn,
what I’d do to have you near, near, near.

 

Si accarezzava i capelli; era l’unica certezza di quella notte quieta. Assomigliavano ad una cascata avvolta dall’oscurità: lunghi e lisci, cadevano sulle spalle senza fermarsi. Era estate, ma un freddo pungente abbracciava le sue ossa. Controllò le porte: chiuse alla perfezione. Anche le finestre non lasciavano trapelare un filo d’aria. Iniziò a convincersi che anche i pensieri avessero una temperatura: quelli che le annebbiavano il cervello erano sicuramente algidi come una tundra invernale. Forse era colpa sua; spendere tutto quel tempo a domandarsi su cosa sia giusto o sbagliato non è sinonimo di tempo ben speso. Eppure le capitava spesso di porsi quei quesiti.
Giusto e sbagliato, bene e male, felicità e tristezza.
Un tempo i contorni di queste parole sarebbero apparsi nitidi. In fondo, una principessa conoscere l’etimologia ed il corretto uso della grammatica. Cosa c’era di più banale del significato di quei pochi vocaboli? Un nome serpeggiava tra quelle verità, mettendole in subbuglio. Non era una sensazione spiacevole. Il senso di caos la cullava, si sentiva una bimba in fasce tra le possenti braccia del disordine.
- Oh Gidan… - sussurrò a quel manto nero senza stelle.
A nominarlo provò un brivido straniero per la sua pelle. Una malattia? Di certo si trattava di una febbre. Una febbre cocente, sconosciuta. Si augurò, forse senza accorgersene, che quel morbo la infettasse permanentemente.  Tra sé e sé sillabò il suo nome, un’innumerevole quantità di volte, per sentirlo bruciare in gola.  Si impose che non si sarebbe trasformato in qualcosa di eccessivo. Il suo era un capriccio. Quel tepore provato a pronunciare il suo nome, il tremolio nelle mani al solo pensiero di abbracciarlo: capricci e nulla più. Il destino di una principessa è scritto con l’inchiostro dorato sulle pagine infinite della vita. Possibile che non esistessero forbici che le assomigliassero almeno un po’? Fragili all’apparenza, ma decise nelle scelte? Avrebbe voluto mutare in una lama, per rendere cartastraccia il destino che gli altri avevano scritto per lei. Una storia non sarà mai nostra, se saranno gli altri a raccontarla per noi.
Le torno alla mente una favola che il suo papà era solito raccontarle prima che Morfeo l’accogliesse nelle sue valli. Sorrise, come se tra le mani possedesse un’istantanea di quel dolce ricordo.
Lui le narrava sempre di una principessa bellissima, dai lunghi lunghi capelli. Una donna malvagia l’aveva rinchiusa nella cima della torre più alta del castello, invidiosa della sua bellezza. Aveva assunto persino un cacciatore per tenerla d’occhio! Lei era molto triste, piccola e sola tra quelle mura soffocanti.  Trovò un rifugio nel canto. Cantava, per lei, per la sua libertà, per i suoi sogni. Sperava che qualcuno un giorno venisse a salvarla da tutto quel male che la circondava. Gli anni passavano, e la principessa dai lunghi capelli non smetteva di macinare quella speranza. Una dolce fine arrivò anche per lei: un ladro in sella ad un cavallo azzurro si era recato verso il castello, incantato dalla voce gentile della giovane donna.  Non era di certo il partito ideale: d’aspetto spavaldo, un po’ sbruffone, ma dai modi gentili. Lui e la principessa si sposarono in un bosco, in segreto da tutto.
Lei non si sarebbe mai scordata il rossore nelle guance nei momenti in cui il suo papà s’improvvisava cantastorie per lei. Sapeva che il più delle volte lui lavorava di fantasia, mescolando i personaggi di svariate novelle, ma non glielo avrebbe mai fatto notare. Amava il profumo di speranza che i suoi racconti emanavano. A Garnet mancava proprio questo: in un cantuccio nascosto del suo cuore, lei non aspettava altro di quella speranza che da tempo s’era dissolta.
Aprì la finestra, e il vento le baciò il viso.
- Forse se canto, Gidan tornerà da me. – decise di eliminare quel forse, per pomparsi di un nuovo coraggio.
Con lo sguardo rivoltò ad una luna paffuta e lattea, e respirò profondamente. Gettarsi nel mare della fede necessità dei polmoni coscienziosi e spavaldi. Lei era pronta ad annegare, per ritrovare lui.
 

I don't mean to be a bother, 
But have you seen this girl? 
She's been running through my dreams 
And it's driving me crazy, it seems 
I'm going to ask her to marry me.


- Merda.  – Si girò per l’ennesima volta tra le lenzuola sgualcite.
Quella doveva essere la notte più calda di sempre. Portò una mano al viso, pregno di sudore, e lo colpì con qualche schiaffetto.
- Devi trovare una soluzione. – Si ripeteva, come se farsi la ramanzina da solo potesse servire a qualcosa.
Che ora era? Il tempo aveva giù varcato i confini oltre la mezzanotte. Forse l’alba non era poi così distante; non distante quanto lei almeno. Si rigirò ancora una volta. Sul  filo del rasoio, lottava fra nervosismi e tristezza in cerca di una risposta. Si chiese quanta malinconia potesse contenere il petto di uomo, prima di arrivare al punto d’implosione. U o m o. Poteva attribuirsi tale appellativo? In  un’altra situazione avrebbe blaterato parole confortanti e sature di filosofia, ma in quel momento desiderava solo bestemmiare la sua immaturità. Per sbaglio si incantò a fissare la luna: era affascinante e miserabile allo stesso tempo. Galleggiava solitaria in quel cielo di pece, abbandonata da tutte le stelle. Ma in un attimo una certezza balenò nel suo cervello: le stelle sono banali puntini, quando non si ha qualcuno con cui osservarle. Era un bene che non ci fossero; se non poteva ammirarle in sua compagnia, preferiva non vederle neanche.
Ansimava, alla ricerca di un po’ d’aria respirabile. Quell’afa era nemica giurata del suo sonno; o forse era solo l’unica che potesse colpevolizzare. Le radici dei suoi problemi lui le conosceva bene; Gidan non mancava di perspicacia, tutto era fuorché uno stolto. Eppure, con dispiacere, aveva deciso di sotterrare la ragione, per impedire che questa lo ferisse. Reprimere è un verbo facile da pronunciare, ma difficile da applicare.  Tracannò un bicchiere colmo d’acqua, per spegnere la sua inquietudine.
- Oh, ma chi voglio prendere in giro! – urlò.
La sua voce riecheggiò nel vuoto della stanza, e si sentì improvvisamente solo.  Senza accorgersene aveva accidentalmente urtato il mobiletto con sopra il bicchiere di vetro. Mille cocci  a fare da tappeto alla sua malinconia. Ne raccolse uno, senza curarsi degli eventuali tagli. Lo mise in controluce, e il suo riflesso si mostro dinnanzi a lui.
- Oh Gidan, sei proprio diventato stupido!
Sorrise a quella sua confessione.  Si sdraiò nel cornicione della finestra, beandosi della leggera brezza.
- Forse è così che si sente la metà di una mela. Senza la sua parte mancante, può combaciare solo col vuoto – si perse guardando la luna – A volte il mio cervello si fa debole, e mi sembra di sentirti cantare. Ti immagino fra le fronde degli alberi, pacifica come la natura, persa nei tuoi canti. Mi manca tanto spiarti e poi sorriderti. Quando eri vicino a me non l’avevo capito, ma ogni tuo gesto creava in me qualcosa di essenziale e sconosciuto.
Scosse la testa, e arrossì.
- Ma che cavolo vado blaterando?
Diede per l’ennesima volta la colpa al caldo e alla mancanza di sonno. Adagiò la testa sulla trave di legno, con una gamba penzolante verso il vuoto.
- Garnet, un tempo pensavo che le donne fossero le tessere di un puzzle. Più ne avevo, più mi sentivo completo. Ora mi accorgo che l’unica metà che desidero sei tu.
Per una volta ringraziò di essere solo.  Il romanticismo va dimostrato, mai raccontato. In quel momento un senso di piacevole vergogna pervase il suo corpo. Gli sembrò di udire la risata cristallina di Garnet, quella voce che tanto amava nei momenti in cui lo canzonava. La vide chiara e nitida, seduta nel letto, che con occhi di miele lo derideva. Sperò che quell’illusione fosse almeno un po’ reale, poiché il cuore non può vivere di sola immaginazione. Allungò la mano, per afferrare quel miraggio, ma fu tutto vano. Strinse il nulla, e la malinconia lo rapì di nuovo.
- Garnet, perdonami. So che mi ero ripromessa di lasciarti vivere la vita che più ti meritavi,  ma proprio non riesco ad accettare il corso degli eventi. Non riesco ad accettare il fatto che tu non sia più con me. Forse sono un egoista, ma farei di tutto pur di strapparti da quel mondo e ricucirti nel mio.
Una  goccia gli bagnò la gota. Aveva incominciato a piovere senza che se ne accorgesse? Si asciugò, e realizzò che quella che era una lacrime.
- Per diamine, gli uomini non piangono, gli uomini combattono!
Bestemmiò la sua stupidità, mentre la notte andava lentamente consumarsi.  L’assenza è un sadico controsenso: un qualcosa manca, eppure sembra essere così costantemente presente. Questa è  la maledizione di chi s’azzarda ad entrare nelle terre d’amore. Il sentimento scava, scava, scava, crea uno strapiombo all’interno di noi. E, quella persona, non importa se bassa, esile, alta, affascinante, brutta, è l’unica in grado di colmarlo.
- Senza te mi sento come una stanza che hanno dimenticato di arredare.
L’alba spalancò le porte, e saluto Gidan con dei timidi raggi. Il suo viso si tinse di un timido color pesca, e improvvisamente dal cielo arrivò la risposta.
- Grazie. – disse al sole nascente.
Si diresse verso l’uscio, pregno di un nuovo spirito.
- Un giorno ho fatto una promessa a me stesso, senza nemmeno accorgermene. Ho giurato al mio cuore che mai l’avrei privato della tua presenza. La discendenza, i doveri, il trono: sono tutte cose importanti. Ma un fiore per sopravvivere ha bisogno principalmente dell’acqua. Tu, Garnet, assomigli ai fiori: tu vivi in un mondo che ti riempie di attenzioni, di sfarzi, di cariche illustri. Ma non è questo che cerchi vero? Forse ci somigliamo, o forse scioccamente penso che l’uno è indispensabile per l’altra. Pazienza. Io non ti abbandonerò nell’arido deserto. Io voglio vederti fiorire al mio fianco.
Uscì dalla stanza, per non tornare più, e corse via.
La distanza perderà sempre, dinnanzi alla perseveranza dell’amore. Gidan se l’era appena ricordato. E Garnet , in fondo, non l’aveva mai dimenticato.
 

What I thought was a dream 
An mirage 
Was as real as it seemed 
A privilege. 


NOTE DI FINE PAGINA:
Ho ripreso  a giocare a FFIX dopo anni e anni, quindi chiedo venia se molte cose sono imprecise. Ci ho messo il cuore per scriverla, perché questa copia mi ispira moltissima tenerezza.

 
 
Canzoni che mi hanno ispirata:
Remembering Sunday – All Time Low;
I wish you where here – Avril Lavigne;
Gomenasai – Tatu.
 

   
 
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