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Autore: Erin Inkhand    26/07/2011    4 recensioni
Quando avevo scelto per incontrarci le ricche sale anonime del Criterion Bar, avevo immaginato che quel momento mi avrebbe graffiato di meno; che in quella rigida, omogenea eleganza sarebbe stato più facile ricordare chi ero adesso. Mi sbagliavo. Appena aveva superato la porta a vetri dell'entrata, la sensazione della sua presenza mi aveva inchiodata con la forza di uno schiaffo: e l'aria si era impregnata del suo profumo, del profumo delle nostre notti d'estate, di quella violenta, incantata mescolanza di erica e pioggia e prati che ci invadeva la gola come un bacio. E improvvisamente la carta da parati a rose era svanita, e io ero stata di nuovo la ragazza di diciott'anni nei campi dietro la casa degli O'Connell, sdraiata tra le corolle gialle dei fiori, avvolta con lei nel tepore della stessa giacca troppo grande, con le sue carezze che accendevano il mio corpo; per dissolvere quel ricordo, mentre si avvicinava sicura al mio tavolo, avevo dovuto conficcare le unghie nella lana londinese della mia gonna. « Ciao, Elaine. »
Belfast, 1989.
Cinque ore.
Genere: Romantico, Storico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Per la mia preziosa Galway Girl, in onore di nessuna ricorrenza particolare. Solo per ringraziarla di essere amica di uno strano gufo arruffato come me, di accendere il mondo ogni giorno con la sua passione e di ricordare alla nostra lucida impietosa realtà che gli eroi possono ancora esistere, e le parole possono ancora intrecciare le anime. Che l'amore, sia quello degli amici o quello degli amanti, sia quello di una sera di follia o quello di una vita trascorsa insieme, sia amaro e graffiato o innocente e candido, sia quello per un altro uomo o per un'idea, pulsa ancora nelle nostre vene, e ci spinge a sfidare ogni giorno questo universo troppo immenso. E quindi, ecco il mio piccolo contributo alla nostra battaglia: un pegno di tutto il mio affetto, e di tutta la mia lealtà.

(Oh sì, prima di leggere la storia ti sei beccata tutto lo sproloquio lirico.)

Ovviamente, Ceci
  

Nota di Ely

Five Hours appartiene al piccolo universo di regali d’inchiostro che spesso ci doniamo a vicenda; questo l’ho ricevuto qualche mese fa, e l’ho amato tanto profondamente da decidere di continuarlo, perché Annie ed Elaine, che sono fedeli specchi di alcuni aspetti di noi stesse, erano già entrate nel nostro mondo per non uscirne più. Il mio contributo è assai breve: solo la parte II, dal punto di vista di Elaine, è stata scritta da me. Per il resto, questa storia nasce interamente dalla mente e dalla mano di Ceci.

Erin, l’Irlanda, nostra amata patria del cuore e dell’anima, a cui dedichiamo quasi ogni fammento di ciò che scriviamo, è presente anche qui; a questo proposito ci pare importante sottolineare che il contesto di questa storia è una Belfast ferita, sfibrata dalla guerra contro l’insensata crudeltà della tirannia: la Belfast dei Troubles. E Elaine McElwee – chiamata con questo cognome in onore dell’ultimo degli hunger-strikers di Long Kesh – è una Volontaria dell’Irish Republican Army, in questo caso dell’ala dei Provisionals, che operava in quegli anni. Ci siamo permesse di creare questo personaggio senza alcuna intenzione di urtare i sentimenti di nessuno, né – naturalmente – di appoggiare la violenza; siamo Repubblicane, certo, ma non significa che sosteniamo l’IRA e le sue azioni. Comprendiamo, però, le ragioni della sua esistenza, e soprattutto difendiamo fino allo strenuo la storia priva di manipolazioni politiche – e purtroppo non c’è frammento della storia irlandese che non sia stato divulgato al mondo senza prima essere stato abilmente manipolato. È un innegabile fatto storico che, nella Belfast dei Troubles, i ragazzi repubblicani, come la nostra Elaine, vedessero nella lotta armata l’unica via per combattere un potere che usufruiva (e usufruisce tuttora) di quelle stesse armi, senza che nessuno lo definisse (o definisca) “terrorista”.

Nonostante questo non sia in alcun modo il contesto principale della nostra storia, ma piuttosto uno sfondo, se qualcuno ritenesse di poterne essere disturbato si senta libero di non leggere, perché offendere è l’ultima delle nostre intenzioni.

Ultima precisazione, che non vorremmo essere costrette a scrivere: Five Hours racconta una storia d’amore fra due donne, e noi siamo allergiche anche al minimo accenno di omofobia. Chi vuole intendere, intenda.

A tutti gli altri, grazie di cuore.

 

Five Hours

 

Belfast, 1989

 

I – Annie

 

C'era un piccolo palco, nell'angolo accanto alle scale: una pedana cosparsa di luci ambrate, le tende di velluto scuro, il legno incerato orlato dalle traboccanti ghirlande verdi lasciate dal St. Patrick's Day. L'avevo fissato tutta la sera, pur di non guardare lei, pur di non vedere i grandi occhi fieri, le dita magre intorno alla tazza, il modo in cui i riccioli rossi seguivano la curva chiara del collo: verde e oro e bianco, i colori della nostra terra, i colori del nostro passato.

Quando avevo scelto per incontrarci le ricche sale anonime del Criterion Bar, avevo immaginato che quel momento mi avrebbe graffiato di meno; che in quella rigida, omogenea eleganza sarebbe stato più facile ricordare chi ero adesso. Mi sbagliavo. Appena aveva superato la porta a vetri dell'entrata, la sensazione della sua presenza mi aveva inchiodata con la forza di uno schiaffo: e l'aria si era impregnata del suo profumo, del profumo delle nostre notti d'estate, di quella violenta, incantata mescolanza di erica e pioggia e prati che ci invadeva la gola come un bacio. E improvvisamente la carta da parati a rose era svanita, e io ero stata di nuovo la ragazza di diciott'anni nei campi dietro la casa degli O'Connell, sdraiata tra le corolle gialle dei fiori, avvolta con lei nel tepore della stessa giacca troppo grande, con le sue carezze che accendevano il mio corpo; per dissolvere quel ricordo, mentre si avvicinava sicura al mio tavolo, avevo dovuto conficcare le unghie nella lana londinese della mia gonna. « Ciao, Elaine. »

Lei era rimasta un momento in piedi, le mani sottili, forti, sbiancate dal freddo di Belfast; c'era stata un'ombra nel suo sguardo, un tremito lievissimo, e poi dopo otto anni avevo rivisto il suo sorriso. « Ciao, Annie. »

« È passato così tanto tempo » mormorai, senza riuscire ad alzarmi.

« Già. » Lei scivolò agilmente sulla seduta foderata di satin, sfilandosi lo spartano giubbotto verde. « Anzi, devo ammettere che il tuo invito di stasera mi ha colto piuttosto di sorpresa. »

Non era vero, e io ne ero perfettamente consapevole. Aveva sempre saputo che un giorno sarei tornata, e che il mio primo gesto una volta in Irlanda sarebbe stato chiamarla. Aveva sempre saputo che dopo tutti i miei viaggi e tutte le mie parole avrei finito per riattraversare il mare.

« Be’, appena sono arrivata, ho ripensato a tutto quello che avevo vissuto qui, e ho avuto voglia di ritrovare quello che ne restava. » La bocca mi si indurì in una piega amara: « E a giudicare da come sono ridotti i campi vicino alla stazione e le vie del centro, non ne rimane molto. »

Len schioccò la lingua, rabbiosamente: « La guerra è stata dura per noi negli ultimi anni: sta scarnificando le nostre case e consumando la nostra terra. » Si addossò allo schienale, e il suo sguardo divenne remoto, bruciante: « Il mondo sta perdendo interesse per le nostre battaglie: oh, certo, ci scrivono ancora articoli, e girano anche documentari e servizi. Ma solo quando finisce ammazzata almeno una dozzina di uomini. »

Mi sistemai sulla sedia, e le mie dita strinsero più forte il tartan spesso della mia gonna. Mentre continuava a parlarmi, io avevo seguito la curva del suo polso che gesticolava nell'aria, l'arco snello della vita sotto la camicia,  le ombre che piovevano sule gambe quando le aveva accavallate, sapendo che i miei occhi stavano inesorabilmente, crudelmente ricadendo lungo linee dolorosamente conosciute. Immagini di feste d'inverno e camere calde e giochi inesperti mi invasero la mente, e dovetti deglutire con forza per allontanarle.

« Dimentichi che anch'io appartengo alla diabolica setta dei giornalisti; alcuni di quegli articoli potrei averli scritti io » risposi, con un mezzo sorriso.

Gli sconvolgenti smeraldi di Elaine inchiodarono il mio sguardo. « Non l'ho dimenticato. Ho letto i pezzi che hai scritto in questi anni, Annie. Li ho letti tutti. »

Da quando avevo conquistato un angolo di scrivania nella mia redazione e un'esausta macchina da scrivere, molti dei miei articoli avevano riguardato gli eventi che stavano lacerando la mia terra; la mia ambizione e la mia situazione economica mi avevano indotto a battere resoconti di qualunque avvenimento in qualunque contesto, ma ogni volta che avevo parlato dei luoghi della mia infanzia era stato come ritrovare un frammento di me che non mi aveva seguito in Inghilterra. Come la puntura di un ago, che strappasse solo una goccia di sangue. « Be’, in fondo sono pur sempre un'Irlandese, no? »

« Giusto. A proposito, com'è vivere lì? » I suoi occhi scavarono nel mio volto, andando più a fondo, sempre più a fondo. « Partire d'improvviso e cambiare tutti i volti, e i sapori, e gli odori, tutto insieme... è una cosa che mi è sempre sembrata difficile, troppo brusca. E non solo perché si tratta dell'Inghilterra. Non deve essere  facile. »

Pensai al mio appartamento nel sottotetto di una casa del centro, alla carta da parati pulita e pallida dell'atrio, all'aria fredda e gessosa sotto le nuvole di Londra; pensai al mio letto circondato di libri, e al silenzio di certe sere infinite, nel buio. « Già, non è facile. »

« Pensa che alcune volte mi sento sola addirittura io, quando devo rimanere di guardia tutta la notte e mi precipitano addosso tutti i nostri ricordi. » Per qualche istante rimase in silenzio, attorcigliando distrattamente un ricciolo intorno al dito: « Ci ho pensato spesso, in questi anni. A quello che abbiamo fatto, alle parole che mi hai detto l'ultima volta che ti ho vista. A quello che avrebbe potuto essere. »

« Quella era la mia strada, Len. Era un'opportunità troppo grande e troppo unica per ignorarla, e tu lo sai. »

Qualcosa, come un lampo di irritazione, o di una ferita più profonda, balenò nel suo sguardo: « Così mi hai sempre detto, Annie. Così mi hai sempre detto. »

Una cameriera raggiunse il nostro tavolo, mentre le parole di Elaine continuavano a riecheggiarmi lungo la schiena. La ragazza si lisciò sbrigativamente il grembiule verde, voltando verso di me il tondo viso lentigginoso: « Potete già ordinare? »

Rialzai il mento, ed esitai solo un attimo. « Ah, sì, certo. Prendiamo un Irish Coffee e una pinta di Guinness, per favore. » Non ebbi affatto bisogno di guardare Len: avevamo condiviso troppi tavoli, e troppi pianti e troppi giri su quei tavoli, perché non sapessi perfettamente quello che avrebbe voluto.

La giovane donna annuì seccamente: « Molto bene. Arrivano subito. »

Appena fu di nuovo scomparsa nel groviglio di tavoli e voci, un sorriso sottile, indecifrabile, si distese sul viso pallido della mia amica: « Un cafè inglese come luogo d'incontro: terreno neutro, e con delle sedie comode. Molto tua, come scelta. »

Sollevai di scatto la testa, irrigidendomi appena: mi ero quasi dimenticata di come riuscisse a leggere la mia anima, ad intuire i miei sentieri. Come riuscisse a penetrare tutta la mia educata e guardinga cortesia, e a ricordarmi delle goffa ragazza con le dita chiazzate d'inchiostro che ero stata. « Già, devo ammetterlo. Ma in fondo non è un posto poi così sgradevole, no? »

« No » ammise Elaine, « ma sa di polvere, birra chiara e velluto vecchio. Non ha l'odore della Guinness, e dell'inverno qui a Belfast. Non ha l'odore di questa terra. »

C'era molto che avrei voluto raccontare a Len, in quel momento: fiumi di parole sui miei pensieri in quegli anni, ricordi brucianti che mi avevano accompagnato da quando avevo accettato quel servizio nella mia città, e singhiozzi da sussurrarle nell'orecchio su quanto mi fosse mancata. Ma un nodo, un grumo costruito dal tempo e dalle cicatrici, mi impedì di pronunciarli, e mi lasciò lì, ad annegare nel silenzio. La giovane donna lentigginosa tornò verso di noi, deponendo su due bianchi sottobicchieri di panno la Guinness e il mio spumoso Irish Coffee, e guizzando poi di nuovo verso le  porte delle cucine.

« E Sean, come sta? » chiesi, appena la cameriera si fu allontanata. L'ultima volta che avevo visto suo fratello era un ragazzo troppo alto e troppo magro che mi salutava dalla banchina del treno, la salopette sgualcita, la zazzera rossa che si aggrovigliava nel vento.

Il volto di Elaine si indurì d'improvviso. « È morto. »

Fu come se un fiotto di ghiaccio mi stringesse di scatto la gola, e mi riempisse gli occhi. Respirare diventò faticoso. « Ma come...? Che cosa, che cosa... »

La sua voce suonò dura, solida, ma negli orli delle parole si spezzava ad ogni sillaba: negli anni aveva imparato a proteggersi con un'armatura più coriacea, ma il dolore continuava a pugnalarla con la stessa forza che ricordavo. « L'hanno ammazzato, un mese dopo il giuramento, mentre ci stavamo ritirando da un'operazione minore. Lui era nel retro della camionetta, e gli hanno sparato un colpo in testa. »

Serrai le labbra, premendo le mani intorno alla tazza tanto forte da sbiancarle: Sean era morto. Sean, il bambino sdentato che avevo baciato in quarta elementare, l'adolescente dinoccolato e incosciente che mi aveva trascinato alla mia prima festa del liceo; il giovane uomo sorridente e lentigginoso che mi aveva gridato auguri e benedizioni dalla banchina del treno. Quel giorno io ero partita per l'Inghilterra, per il mio praticantato al Times e la nuova vita che avevo scelto, e lui e sua sorella si erano arruolati ufficialmente nell'IRA. Io no.

Le parole mi pizzicavano la lingua, ma strinsi i denti per impedirmi di pronunciarle: non volevo cominciare quella discussione. Non in quel momento, non un'altra volta.

Elaine prese un sorso di Guinness. « Dillo, Annie. »

Sospirai, mentre una frustrazione stanca, i fantasmi di centinaia di esasperazioni passate, mi si attorcigliava nello stomaco. « Non voglio ricominciare questo discorso, Len. Sai che cosa penso di tutto questo. » 

« Be’, io voglio ricominciarlo, questo discorso, perché non posso stare qui a fingere che vada tutto bene. Non è per questo che abbiamo deciso di rivederci. »

Schioccai la lingua, lasciando scivolare le dita lungo l'orlo della tazza, ben lontane dalle sue:

« Lo so, Len, ma è la prima volta che ti vedo da tanto tempo, e non voglio cominciare subito un litigio che... »

« Smettila, dannazione! » sibilò lei, e nei suoi occhi riconobbi il fuoco vivo che avevo visto accendersi per dolore e per me: « Non siamo ad una delle tue maledette riunioni di inglesi, Ann. Dì quello che non volevi dire, e basta. »

Sollevai di scatto le mani, posandole con un tonfo sulla tovaglia verde, e le mie spalle si irrigidirono: come sempre, era riuscita a risvegliare in me la piccola, pungente scintilla di irritazione che sapeva rendermi dura, e a tratti spietata. « D'accordo, allora: quello che non volevo dire è che se non foste entrati in quell'organizzazione, questo non sarebbe mai successo. Che se non aveste voluto giocare agli eroi, oggi Sean sarebbe a questo tavolo, e io non avrei perso le tue tracce per otto dannati anni. »

Elaine mi guardò a lungo. « Sapevi dove trovarmi, Annie. Sei tu che te ne sei andata. »

« A farmi una vita vera, Len, a costruire qualcosa! Io non volevo marcire per sempre tra le bombe e i coprifuoco, rinunciando a tutti i miei sogni per il colore sbagliato di una

bandiera. »

Il suo volto ebbe un tremito, e il rimorso mi fiorì sulla punta di lingua: non avevo voluto farle del male, non davvero. « Questo era il mio sogno, Ann. Questo è quello per cui sono disposta a sacrificare tutto. »

La mia scintilla si spense, scivolando di nuovo nell'angolo oscuro in cui attendeva, e le mie mani si sciolsero: guardai la cascata pesante dei suoi ricci, gonfi come l'erica, il profilo sottile, l'incastro di ombre che le cadeva lungo il collo, e sotto il colletto della giacca, e d'improvviso l'amai di nuovo completamente, disperatamente. Le mie labbra si schiusero in un sorriso. « Vieni con me, Len. Possiamo stare bene insieme, lo sai che possiamo. Io amo questo posto, non devo dirtelo, e non devo dirti quanto è stato difficile lasciarlo. Lasciare il gruppo, la casa dei miei, il pub. » La mia voce si abbassò d'improvviso « Lasciare te. »

Elaine si riavviò i capelli, conficcandomi il suo sguardo verde nel volto: non abbassava mai gli occhi come gli altri, quando parlavamo d'amore, e del futuro, e di noi. Non li aveva mai abbassati, la notte in cui le avevo portato un biglietto per Londra, e lei me lo aveva ridato.

« So che potremmo stare bene insieme, Annie: veramente bene. Ci conosciamo come raramente arrivano a fare le persone, e forse non troverò mai nessuno che sappia rendermi così felice, e che io sappia ricambiare in modo così perfetto. Ma capisci, non è solo questione di amare questo posto:è il fatto di voler che anche altri possano amarlo, ma senza dover odiare un altro paese, senza dover temere di venire ammazzati per questo. Cercare di liberare la mia terra, cercare di raggiungere tutte le cose che gridiamo nelle nostre canzoni, non è solo una guerra: è una missione, un bisogno. Il bisogno di portare avanti la battaglia che ci tormenta da ottocento anni, il bisogno di essere il volto e le mani di tutti coloro che non possono combattere. Se deve succedere, voglio morire in questa città perché ho lottato contro quelli che ci stanno massacrando, non perché ho attraversato un quartiere nel momento sbagliato. »

Sorrise a sua volta, con un sorriso obliquo, graffiato, che non esisteva ancora quando me ne ero andata. Eppure non c'era asprezza, in quel momento: non aveva il sapore di una resa, e nemmeno l'amarezza di un addio. Perché in qualche modo, a qualche livello, sapevamo che ciò che ci legava era una corda dalla forza antica, viva come l'erba dei prati sconfinati dietro le nostre case, implacabile come le mani delle nostre antenate, e che non avrebbe potuto sfilacciarsi. Il vento e il mare potevano frustarla e seppellirla, ma non spezzarla.

Mi protesi in avanti, cauta: « Ma seguendo questo ideale Sean è morto. »

I suoi occhi non tremarono. « Ma se non seguissi più questo ideale sarebbe morto invano. »

Mi ritrassi dal tavolo, incrociando le braccia, ma senza fretta: non eravamo più in guerra, e lo sapevamo entrambe. Le vecchie ferite erano tornate a pulsare, ma erano solo un altro modo per riavvicinarsi – per pompare il sangue in sentieri che non percorrevamo da tempo. Per un attimo, mentre Elaine mi parlava con la sua bassa voce densa, l'avevo vista di nuovo come tanti anni prima, come la ragazza pallida e orgogliosa che gridava parole di libertà quando bevevamo Guinness fino all'alba nel salottino dei miei genitori, il volto splendente, le labbra rosse e socchiuse. « Sapevo che l'avresti detto, Len. » Avevo sorriso, e avevo cominciato a raccontare.

Avevamo parlato di tutto, e a lungo. Le descrissi il mio arrivo a Londra con una valigia e una lettera di presentazione per il Times, le bizzarrie dei miei colleghi, lo scorcio frastagliato del Tamigi che vedevo dalla mia scrivania; lei aveva ricordato i nomi di molti amici e molti morti, la furia che la colmava davanti a certi orrori, le battute stupide delle sere al pub, il terrore agghiacciante che aveva provato quando si era ritrovata con la canna di un fucile premuta contro la tempia. E man mano che parlavamo, i nostri muscoli si stiravano in incastri familiari, le nostre voci ritrovavano i loro equilibri, e i nostri corpi, lentamente, inconsapevolmente, si avvicinavano, ricordando i modi dell'altro, sfiorando i loro vecchi intrecci. Sedute al piccolo tavolo di legno, con le tazze di caffè e i boccali vuoti che si accumulavano sulla tovaglia, bevemmo ognuna la vita dell'altra, gustandola come un sapore familiare e desiderato per lungo tempo, e rendendoci conto di quanto disperatamente ci fosse mancato. La luce, oltre i massicci finestroni del cafè, avvampò di un rosso gentile, e si spense silenziosamente nel buio; quando guardai di nuovo l'orologio, era l'una e mezza, e il mio treno sarebbe partito cinque ore dopo.

Mi voltai verso Elaine per dirglielo, e per cominciare a salutarla, districando faticosamente le mie radici dalle sue; ma per qualche motivo, non pronunciai nessuna di queste parole, e invece chiesi: « Dai, usciamo un attimo. Ho voglia di una sigaretta. »

Lei mi guardò d'improvviso, senza parlare: non ho mai saputo se fosse riuscita a leggere oltre i mie occhi, a vedere il groviglio di sensazioni che pulsava e si contorceva sotto la disinvoltura di quella frase. Ma alla fine si alzò, posò qualche banconota sul tavolo e annuì.

« D'accordo. »

 

Da ragazze, ero sempre stata io l'unica a fumare. Elaine se ne lamentava ogni volta che sfilavo una sigaretta dalla tasca: diceva che l'aria dell'Irlanda era troppo dolce, troppo preziosa per bruciarla con quel fumo aspro e indifferente. Ma mi aveva comunque accompagnato ogni volta all'emporio per comprare le Lucky Strike, e si era comunque lasciata baciare quando l'impronta del tabacco mi impregnava ancora le labbra. Ci conoscevamo da sempre, perché le case nella campagna di Belfast non sono molte, e le nostre famiglie erano legate da generazioni: insieme avevamo affrontato molti degli snodi fondamentali della vita di un essere umano, ma seguendo sempre il nostro sentiero, la strada più adatta alla nostra anima, senza mai intralciare i passi dell'altra. Lei però era sempre stata lì, per condividere la mia gioia, e sostenermi se fossi caduta: era con lei che avevo comprato di nascosto il mio primo numero del Times; era con lei che avevo pianto davanti alla prima sparatoria che avessimo mai visto; era con lei che mi ero distesa nell'erba fredda dietro il cortile, e avevo scoperto il piacere che due donne possono darsi.

Fuori dal Criterion l'aria pungeva, penetrandomi nella gola ad ogni respiro; era una di quelle limpide notti irlandesi in cui il cielo è di un nero fluido e vivo, brillante di pioggia, come uno sciame immenso di farfalle scure. Sfilando una sigaretta dal pacchetto, lasciai scivolare lo sguardo sul muro rossiccio nel vicolo silenzioso e bagnato sul retro del cafè; più oltre, i campi sterminati della mia giovinezza inondavano l'orizzonte, l'erica tinta dall'ombra in sfumature carminie.  Sopra, nitida come un disco d'argento, la luna irradiava bagliori sottili e pastosi sulle linee sgraziate delle pareti, delle finestre, dei bidoni ammassati contro i mattoni accanto alla porta.

Il mio accendino avvampò con uno scintillio dorato: « Sai, erano anni che non vedevo la luna. A Londra non c'è. »

Elaine incrociò le mani dietro la schiena, addossandosi al muro: « Be’, Annie, non per offendere le tue competenze geografiche, ma suppongo che fisicamente ci sia. »

« Sì, ma non è come questa: a Londra  non puoi camminare solo grazie ai suoi raggi, e non cancella mai tutto il resto dal cielo. Lì è solo una delle tante luci. »

« Sei sempre stata un animo poetico. » ridacchiò Len, dispettosa.

« Ha parlato quella che nel ventesimo secolo ha deciso di combattere per la libertà e la patria. »

Incassò amichevolmente il colpo, unendosi a me in una breve risata sghignazzante. Per un poco rimanemmo così, in silenzio, io che soffiavo lentamente pallidi viticci di fumo e lei che osservava la vasta ombra viva di fronte a noi.

« Lo sai, Ann » riprese improvvisamente, e la sua voce era roca, e terribilmente sincera: « Mi manchi. Mi manchi da quando sei partita, e ho capito che non saresti tornata. Mi manchi da quando mi hai detto che saresti andata a lavorare in Inghilterra, e tutto è cambiato. »

Sotto le ragnatele di luce della luna, con i boccoli rossi imperlati dall'umido vento notturno e i sottili, forti lineamenti d'uccello, sembrava davvero una fata, una delle incantate regine dei boschi dei racconti che ascoltavamo da bambine nel letto. Elaine era sempre stata così intrinsecamente figlia di quella terra, come se in lei vivessero tutti i colori, tutta la passione della nostra patria; io invece ho una massa di ciocche castane che si mescola perfettamente alla folla delle metropolitane inglesi, e occhi che sono resi interessanti solo dall'intelligenza che so lasciarvi scorgere. E ora la fata mi stava guardando, e invocava il mio nome. Non c'era altra via che la verità. « Te l'avevo detto, Len: io volevo che tu venissi con me, che fossi parte del mio sogno. Dio, quanto avrei voluto averti accanto quando mi addormentavo piangendo ogni sera nella mia stanza della pensione, o la prima volta che hanno pubblicato un mio articolo. Quanto avrei voluto poterti avere vicino a me, mentre diventavo quello che sono sempre voluta essere. »

Ero stata attenta, ma nel mio tono doveva essersi insinuato un guizzo di irritazione, uno spasmo delle ferite che mi ero ricucita da sola anni prima, perché Elaine spalancò appena le palpebre, e serrò la bocca in una linea bianca. Ero brava a nascondere le mie cicatrici, oh, ero così brava, ma non quando i colpi che le avevano lasciate mi erano arrivati fino alle ossa. « E sei felice, ora? »

« Felice? Non lo so. Sapevo che questo viaggio mi avrebbe sconvolto, Len. L' ho saputo fin dall'inizio, da quando il mio direttore ha offerto il posto per un reportage sulla guerra e io mi sono ritrovata a propormi senza neppure ricordarlo. Lo sapevo perché qui c'era il passato, c'erano i miei ricordi, i miei rimorsi, e c'eri tu. C'eri tu, e tutto ciò che c'è stato e avrebbe potuto esserci con te. Quindi, sì, ero felice, ero felice quando stavo a Londra e pensavo a quanto la mia carriera stesse andando bene e a quanto fossi fiera del mio ultimo pezzo. Ma ora sono qui, e non riesco a smettere di pensare a quanto mi manchino i nostri anni assieme, e il sapore di quelle notti nei campi. » Un nastro di fumo mi traboccò dalle labbra: « E ora ho solo cinque ore, prima di tornare in quella terra generosa che non mi appartiene. Cosa dovrei farci secondo te, Len? »

All'inizio, non ricevetti nessuna risposta: la notte continuò a scivolare sopra di noi, frusciando di tutte le vite e di tutti i venti che abbracciava. Poi Elaine sollevò lo sguardo, spingendolo lontano, oltre il muro, e parlò di nuovo. « Ann, lascia che ti faccia una domanda. Se adesso ti proponessi di ignorare tutti i nostri doveri, di smettere di discutere di queste cose, di dimenticare tutte le parole e tutti gli anni che sono trascorsi e di trascorrere la notte come in quelle estati, qui e adesso, tu lo faresti? »

Presi un'ultima boccata, ed espirai lentamente. « Sì. »

« Ah. » Ancora silenzio. « Buono a sapersi. »

Per qualche momento nessuna di noi parlò, lasciando che il brusio del Criterion lambisse l'ombra del vicolo. Gettai la sigaretta, spegnendola sotto il tacco; poi mi voltai, e spinsi insieme le nostre bocche.

Il suo bacio aveva lo stesso sapore di allora, quell'ombra di pioggia e aria e menta piperita, e l'impronta del tabacco lo inaspriva appena, scivolandomi sulla lingua; le nostre mani si cercarono, ritrovando le proprie impronte sulla pelle dell'altra, esplorando di nuovo i corpi che una volta erano stati loro. Le mie dita le strinsero la vita, spingendola verso di me, e risalirono fino ai piccoli seni tondi, sodi come le pesche della mia infanzia; quando arrivai a sfiorarli, lei mi aveva già slacciato la giacca. « Che cosa faremo domani? » sussurrai, mentre il mio respiro si affrettava.

« Domani è lontano secoli e secoli, Ann: ora ci siamo solo noi, e la luna, e questo istante. »

Lei mi affondò le mani nei capelli, premendosi maggiormente contro di me; le mie labbra si schiusero sulla curva della sua spalla, lasciando una scia di baci lungo la gola, accarezzando coi denti l'incavo alla base del collo. Elaine rabbrividì contro il mio tocco, e le sue braccia scesero intorno alla mia schiena; le nostre bocche si trovarono di nuovo, mescolandosi, sprofondando l'una nell'altra, acuendo ogni altra percezione.

D'un tratto si sciolse delicatamente dal mio abbraccio, allontanandosi verso il muro; quando mi tese sorridendo la mano, con l'ombra florida dei campi che splendeva dietro il suo viso,  capii cosa mi stava chiedendo. « Vieni con me, Ann. Vieni con me. »

Per un attimo rimasi immobile, incerta. Se fosse stato qualsiasi altro momento, avrei risposto di no, perché dovevo tornare in albergo a preparare i bagagli, perché eravamo sul retro di un locale conosciuto, perché qualcuno avrebbe potuto vederci; ma la sera somigliava troppo a quelle della mia adolescenza, e quella era la mia Len, e non sapevo se l'avrei mai più rivista, e l'aria aveva il sapore dolce di casa. E mancavano cinque ore.

Così strinsi le dita intorno alle sue, sussurrando: « Sì. »

Lei rise, slanciandosi in avanti, e iniziando a guidarmi: mi guidò oltre il cancello sbiadito del muro, lungo il sentiero di polvere chiara, oltre i grovigli spinosi dei cardi, mentre i nostri passi si trasformavano in corsa, e i nostri sussurri diventavano una risata scagliata verso il cielo. Caddi con lei, sulla terra umida e fredda, e i nostri corpi tornarono a conoscersi, le nostre gambe a intrecciarsi. Inarcai la schiena, immersa nel profumo ruvido dell'erba, tra le corolle gialle dei fiori di campo, mentre le mani sottili di Elaine mi sfilavano la camicia.

E anche per un solo momento, sentii di essere tornata a casa.

 

II – Elaine

 

Poggiare la testa sul suo petto e ascoltare il suo respiro, e lasciare che i miei polmoni lo seguissero.

Accarezzarle piano il viso, le labbra, e vedere la sua pelle incresparsi di brividi sotto le mie dita.

Annie mi era mancata, sì, mancata come l’aria. Da quando era salita su quel treno, era stata per me solo un fremito incastrato sotto la pelle, un sospiro, una lacrima di una notte troppo fredda. E l’unico sapore dolce che le mie labbra conoscessero.

Era stata il mio unico spiraglio di dolcezza – un’ancora gettata fra i ricordi, alla quale i miei occhi potevano aggrapparsi anche mentre erano fissi sul mirino di un fucile, e le dita erano fredde come il metallo del grilletto.

Mi stava scrutando, ora, e probabilmente aveva già indovinato i miei pensieri. Ricambiai lo sguardo e mi allungai a baciarla piano, lentamente – labbra su labbra, solo il suo sapore e i miei occhi aperti, fissi nei suoi. Non potevo lasciar scivolare nel buio nemmeno un istante, nemmeno un frammento di quelle perle che splendevano per me.

« Ti amo, Annie » le sussurrai sulle labbra, « ti amo, ti amo, te lo ripeterei fin quando mi rimanesse un lembo d’aria da respirare. »

Lei chiuse gli occhi, e io sapevo perché. Non voleva che vi scorgessi una lacrima tremare. Ma ormai mancavano meno di cinque ore. Dovevo parlarle.

« E quanto vorrei averti al mio fianco, sempre… non sono nemmeno in grado di esprimerlo. Ma ti amo, Annie. E per questo soffrirei fino a morirne all’idea di costringerti a rinunciare al tuo sogno per me, o a saperti in pericolo a causa mia. » Vidi che voleva interrompermi, voleva che lasciassi vincere il silenzio ancora una volta – non voleva sentirmelo dire. Dovetti conficcarmi i denti nella lingua per costringermi a continuare, mentre le sfioravo le labbra con un dito.

« Tu saresti in pericolo con me, Ann. Lo sai. In pericolo e lontana dal tuo sogno. Non me lo perdonerei mai. »

« Nemmeno io lo sopporterei, né ti costringerei a venire a Londra. Non l’ho fatto allora e non proverò a farlo adesso. Ma io non voglio più perderti, Len, mai più… » Le sue labbra si schiusero sulle mie e poi scivolarono sul collo, e ancora giù, e la sentii tremare mentre si stringeva a me più forte. « Elaine… » mi posò un bacio sul petto, « mo ghrá milis… » [1]

La mia Ann. Da otto anni le pieghe del mio volto non conoscevano un sorriso vero.

« Ehi » tentai di conferire alla mia voce un tono seccato, ma le sue labbra vagavano sul mio seno, e non avevo che pochi secondi prima di cedere. « Lo sai che parlare irlandese con quel dannato accento londinese è un’eresia? »

Percepii i suoi muscoli tendersi contro di me e i baci cessarono, e fu come se scaglie di ghiaccio mi piovessero sulla pelle, pungendola. Quando sollevò verso di me il volto, appena contratto da una smorfia di angosciata irritazione, scoppiai a ridere.

« Scherzavo, Annie! » Mi rituffai sulle sue labbra e rideva anche lei, adesso, e non avrei voluto che smettesse mai.  Anche l’aria aveva un profumo diverso, se lei rideva.

E ridemmo a lungo, ridemmo entrambe come le bambine che eravamo state su quello stesso campo, mentre sopra di noi qualche stella crepitava.

Mancavano meno di cinque ore. Molto meno di cinque ore.

 

III – Annie

 

L'alba era come quelle che avevo scorto dalle finestre della casa della mia infanzia: fredda e grigia e dolce, come l'ultimo lembo di un sogno. Come l'ultimo tocco prima di un addio.

Immobile, seduta tra i fiori e gli steli confusi che avevano accolto il mio corpo e il mio piacere, spinsi lo sguardo lontano, oltre il muro rossiccio che ci separava dal retro buio del cafè, fino ai profili sbreccati e familiari del centro di Belfast. Esili viticci di fumo cominciavano a sollevarsi dai comignoli di pietra e dai grovigli di traffico, perdendosi nell'ampio chiarore cieco che ancora ammantava l'orizzonte. Mi ricordarono altre scie di fumo, quelle che erano scivolate via dalle mie labbra nelle tenebre della sera passata, prima che una bocca diversa le scacciasse, prima che un sapore più amato le strappasse. La mia pelle nuda rabbrividì.

Lentamente, silenziosamente, abbassai il volto, e mi mossi per recuperare i miei abiti. Raccolsi la camicia, la gonna di lana, umida di brina e di fango, le calze lunghe, le scarpe di vernice che avevo scalciato tra i cardi, incrostate di fango; dovetti arrivare alla cintura, per permettermi di guardare Elaine.

Il suo profilo era pallido e solido contro i nodi d'erica del suolo, e i riccioli ramati, sparsi  confusamente sulle lunghe ciglia serrate, avevano, nell'incertezza argentea del crepuscolo, la sfumatura cupa del sangue; sotto la stinta giacca verde, la giacca sotto cui mi ero raggomitolata quella notte stringendomi a lei, intuivo i volumi piccoli e flessuosi delle sue forme. Lasciai scivolare gli occhi sulla linea pulita del collo, sulla curva nervosa dei fianchi, sull'ombra nascosta dalla piega delle sue gambe. Amavo il suo corpo: amavo la forza tenace che sapeva animare quelle braccia sottili, amavo la dolcezza generosa con cui si concedeva alle carezze e ai baci. Anche quando le sue parole e i suoi gesti erano quelli di un soldato, anche quando indossava la divisa severa e pesante che aveva imparato a portare dal nostro diciottesimo compleanno e con cui mi aveva salutato l'ultima volta, il suo rimaneva il corpo di una donna: in lei ritrovavo sempre la grazia con cui danzava nelle feste al pub, le mani affusolate e ruvide delle nostre madri, l'incavo arcuato delle anche che rivedevo nelle mie. Quella vicinanza, quella corrispondenza tra me e lei che trascendeva la mente e si mescolava alla carne, era ciò che mi inebriava più profondamente, e ciò che mi riempiva ogni volta che ci vedevamo. Era ciò di cui mi ero accorta quel pomeriggio lontano, quando il suo profilo era apparso sotto il cotone impregnato di pioggia del vestito, e per la prima volta mi ero chiesta come sarebbe stato sfiorarlo con le mie mani.

Stringendo le labbra, mi chinai sui lacci delle scarpe, muovendomi più in fretta. Non c'era più un vero buio, ma non era neppure arrivata la luce del giorno: era ancora l'ombra adatta ad attendere senza gesti l'inizio della mattina, a chiudere gli occhi tra le lenzuola del letto, a scivolare via senza rumore. In quell'ombra, si potevano ancora nascondere gli sguardi, ed ignorare le lacrime.

« Sai che non puoi andartene così, Ann. »

La sua voce era bassa, arrochita dal sonno, ma colpiva con una franchezza brutale, inconfondibile. Chiusi gli occhi, e mi concessi un respiro profondo. « Sì, Len, lo so. Ma dovevo tentare. »

Percepii un fruscio alla mie spalle, un agitarsi di erba e stoffa, e le sue dita che mi sfioravano la spalla, senza stringerla: sapeva che ora avevo bisogno del conforto asciutto delle parole, e che le carezze sarebbero stati solo brividi sulla mia pelle.

« Ne ero certa. L'hai sempre fatto. Da quando ti conosco, hai sempre detestato gli addii lacrimevoli. »

Mi permisi un pallido sorriso. Era vero: non amavo i pianti appassionati e le grida, gli abbracci e le promesse strappati prima di una partenza, e la viscerale impressione di abbandonare un nodo incompiuto, una promessa imperfetta, che mi si attorcigliava ogni volta nel sangue. Per questo preferivo svanire nell'ombra, sfuggendo tra gli interstizi dell'amore di chi mi circondava, e avviarmi da sola verso la prossima meta, nel mio silenzio senza fantasmi. Ma con Elaine, lo sapevo, era diverso. Con lei non potevo fluttuare oltre le trame dei nostri incontri, intatta e estranea come acqua, o come nebbia: non potevo uscirne illesa, e concedermi di dimenticarli. La sua mente, la sua carne, la sua stessa presenza incidevano ogni volta sulla mia pelle solchi profondi, cicatrici benevole dei dolori e dei piaceri che avevamo saputo scambiarci; ogni suo gesto e ogni sua parola avevano la capacità di scalfirmi, plasmarmi, rimodellarmi, e lo stesso potere legava lei a me. E quelle strade impresse nell'anima, quelle tracce vive e intricate come corteccia d'albero, erano diventate negli anni la mappa del nostro legame, la testimonianza di ciò che ci eravamo date e ciò che ci eravamo tolte. E anche allora, anche nella luce grigia e compassionevole dell'alba, sapevo  che ci saremmo lasciate un nuovo solco.

« Questo... questo non è un addio, Len. »

Le parole sorsero d'improvviso, asciutte, mormorate, fragili. Potenti.

Al margine del mio sguardo, scorsi un lampo del distendersi di spalle nude, di bianche gambe accavallate, di una scintilla oscura in limpidi occhi verdi. « Non è da te pronunciare certe frasi altisonanti, Ann. Che cosa vuol dire? »

Raccolsi le gambe contro il petto, ignara dei lacci e delle ore, tentando di trasmutare in parole un sussurro che aveva parlato nella carne e nelle ossa. « Ti ricordi quelle due vecchie querce, Len? Quelle che crescevano dietro casa mia, sull'altra riva del torrente? Da piccola le adoravo: erano così  forti, così alte, e avevano visto tanti anni più di me, tante vite e amori e morti: come se fossero state degli antichi, valorosi guerrieri, come delle specie di eroi, sopravvissuti a tutte le tempeste e i fulmini del tempo. E al tempo stesso, mi hanno sempre fatta sentire così triste: perché per quanto fossero vicine, per quanto avessero visto il mondo cambiare e gridare una al fianco dell'altra, non si erano mai davvero toccate; i loro tronchi non si erano mai davvero abbracciati, per ripararsi dagli schiaffi del vento, o per proteggersi dal freddo della neve. Ma adesso stavo pensando che sì, ecco, è vero che le loro cortecce non si sono mai fuse, e che sono cresciute da sole, lottando per la luce con soltanto la forza della loro linfa, spingendo in alto i loro rami senza nessun aiuto e nessun sostegno: ma le loro radici dovevano essersi aggrovigliate da molto tempo, e lo stesso era accaduto con i loro germogli più nuovi; all'inizio e alla fine, ai margini delle loro vite, si erano invece intrecciate, inestricabilmente allacciate. Noi siamo quelle querce, Len. Siamo maturate e germogliate lontane, separate dal mare e dalla guerra, ma abbiamo cominciato il nostro viaggio insieme. Ed è necessario, ed è inevitabile, che alla fine in qualche modo ci ritroveremo, e il mondo ci permetterà di intrecciarci ancora. »

« ...è una promessa, giornalista? » La voce di Elaine era un mormorio affabile e disincantato, temprato dai graffi e dalle delusioni di molti anni; ma sotto la scorza era dolce, bianco, e qualcosa nelle sue corde profonde tremava.

Sollevai lo sguardo, lasciando che le ultime stelle mi colmassero gli occhi: « Promessa? Noi non siamo fatti per le promesse, Len. I grandi giuramenti sono forgiati per attese millenarie, per gesta e sentimenti in grado di trascendere il tempo e propagarsi in spazi immensi, immutabili, eterni, mai corrosi dalla memoria o dalla vita. Ma noi, noi siamo creature di carne e sangue, esseri della materia, come gli alberi. Noi dobbiamo nascere ed esistere e morire: non possiamo aspettare i tempi delle promesse. » Repressi un brivido, leggero, come la scia rosea che stava tingendo l'oriente. « Noi abbiamo le speranze, però. Loro sono fatte di terra e ossa e pelle, e sono come noi: nascono, si trasformano, si fortificano, e a volte muoiono. Le promesse sono immortali, e spettano agli dei; le speranze sono le loro sorelle imperfette, ma sanno riscaldare il cuore degli uomini. »

Un fruscio si sollevò alle mie spalle, e calde ciocche rosse, frammischiate al suo sapore di pioggia e di menta, mi accarezzarono la guancia; i suoi piccoli seni rotondi, ancora nudi, premevano contro il ruvido tweed della mia giacca: « Ti adoro quando fai la filosofa. » Le sue braccia, avvolte gentilmente intorno alla mia vita, strinsero d'improvviso più forte, più urgenti, e il suo tono si oscurò; oltre il cotone della mia camicia, le sue mani tremavano del bisogno feroce di un naufrago, o di un uomo smarrito nel buio: « Allora mi puoi dare questo? Mi puoi assicurare che questa è la nostra speranza? »

Respirai profondamente, adagiando piano le dita sulle sue, fin quando combaciarono perfettamente. Sapevo che quel momento e le parole che stavo per pronunciare avrebbero scavato la mia schiena, e si sarebbe trasformate ancora in un altro solco: ma questa volta mi augurai che la cicatrice sarebbe stata profonda, e che nessun'altra avrebbe potuto confonderla. « Sì, Len. Questa è la nostra speranza. »

Un sospiro, lo stesso che avevo ascoltato tante volte nel tepore delle lenzuola e dei corpi intrecciati, sussurrato come un bacio, o nell'ombra densa e fredda dei campi durante le nostre interminabili, tortuose discussioni, mi sfiorò il collo, e il confortevole abbraccio intorno a me scomparve lentamente. « Allora posso anche lasciarti andare. »

Annuii, senza guardarla, senza chiedermi perché il mio sguardo d'un tratto si offuscasse e tremasse come neve disciolta; tentai di alzarmi, avanzando di un passo lontano da Len, ricacciando indietro il brivido che mi graffiava i polmoni ad ogni respiro. Ma, senza che me ne accorgessi, senza che le leggi della mente si risvegliassero in alcun modo, le nostre mani rimasero allacciate: intessute da forze sensibili, più antiche dei giuramenti e delle guerre, totalmente ignare dei doveri del mondo degli uomini, inconsapevoli ed innocenti come lo scorrere delle stagioni e il crescere dei semi, e altrettanto segretamente invincibili.

Mi voltai di scatto, osservando l'incastro armonioso delle nostre dita, il nodo aggraziato delle unghie e delle nocche. Oltre il profilo del bosco, bagliori rosei e dorati bruciavano i grigi gentili dell'alba. E nei primi scintilli dell'oro, le nostre mani sembrarono per un momento dei germogli di quercia.

« Non mi dimenticherò la nostra speranza, Len. E te lo assicuro: quando potremo incrociare i nostri rami, tornerò. »

Elaine sorrise, sfilando piano le dita dalle mie.

« Lo so, Ann. So che tornerai. Quando potremo incrociare i nostri rami. »

Lasciai Elaine così: avviandomi in silenzio attraverso il campo, tra l'erica e i boccioli gialli, con una promessa spezzata e una speranza. Ma le promesse spezzate, e le speranze, vivono più di qualunque giuramento.



[1]  « Mio dolce amore… »

  
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