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Autore: AlenaC    26/07/2011    1 recensioni
credo esistano tanti tipi di amicizie.. ma ognuna credo sia ugualmente importante
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il profumo di croissant mi faceva venire l’acquolina in bocca. Davanti alla pasticceria “Dolce Roma”, 19 marzo alle 8.5 di mattina, non avevo nulla da mettere sotto i denti. Mi guardai intorno e osservai la gente che correva indaffarata per le vie di Roma, affollate di turisti. Erano tutti infagottati in caldi cappotti e maglioni di lana, il che mi fece provare un’invidia feroce. Stretta in un piumino vecchio e sbrindellato avevo patito l’inverno senza smettere nemmeno per un nano secondo di rabbrividire per l’aria insolitamente gelida di quell’anno. Non ero adatta a quella vita, era inutile nasconderlo. Non avrei dovuto provare quell’invidia, non avrei dovuto desiderare tanto ardentemente certe superficialità. D’altronde un croissant di prima mattina e un cappotto di pelliccia non erano indispensabili, soprattutto per un nomade come me, dedito all’umiltà e contro ogni forma di materialismo. Ma il vero motivo che mi aveva spinto a scegliere quella vita non era certo questo, abituata e amante com’ero di ricchezze e vanità. Il vero motivo, beh, non lo avevo ancora capito. E mi sentivo una stupida per questo. Eppure non avevo il coraggio di tornare dai miei genitori, in quelle condizione, come una tipica “barbona”. Di quelli che si vedono per le strade di Roma e che i miei genitori mi avevano sempre accuratamente fatto evitare. Eppure un lato di quella nuova vita mi piaceva, mi affascinava. Dormire ogni notte in posto diverso, conoscere persone anticonformiste e forse anche un po’ pazze, mettersi lo zaino in spalla senza una destinazione, senza doveri né pensieri. Vivere l’attimo, non perdere nemmeno un secondo di quella esistenza. Non so, sarà che ero sempre stata particolare, o “diversamente comune” come mi definivano gli amici per consolarmi quando i miei genitori non ne potevano più delle mie stravaganze e del mio costante sfuggire alle regole. Ma ero fatta così, che ci potevo fare ? Incapace di vivere nella società, rinchiusa tra mura di obblighi e doveri. Io volevo fare quello che mi pareva, sempre, che fosse giusto o sbagliato, non aveva importanza. Mi allontanai dalla pasticceria e mi sedetti nell’unica panchina libera lungo l’erba del parco. Come ogni giorno, sorrisi alle occhiate dei passanti. Vedevo che cercavano di non fissarmi, di distogliere lo sguardo, ma era più forte di loro. Sorridevo perché sapevo di essere più simile a loro di quanto pensassero. Si, volevo la libertà e cercavo di procurarmela in maniere forse improbabili, ma desideravo un tetto, una gonna alla moda, dei genitori che non fossero continuamente delusi da me, esattamente come loro. Ma il desiderio di libertà era sempre stato più forte di tutto il resto. C’erano anche le occhiate sprezzanti però, e quelle non mi facevano sorridere, mi facevano montare una rabbia incontenibile. Mi facevano desistere dall’idea di tornare a casa, perché sapevo che anche le persone che un tempo frequentavano, avrebbero avuto lo stesso sguardo e gli stessi pensieri. Dovevano ritenersi fortunati di avere un carattere facilmente domabile ed accontentabile ! Presi il mio taccuino e iniziai a disegnare uno degli alberi del parco. Ebbene si, ero un’artista, nulla di che, ma pur sempre un’artista. Il disegno era una delle poche cose che mi rimanevano della mia vecchia vita.
Sentii soffiare alla mia destra, mi voltai. Un cane piuttosto grosso stava annusando il mio zaino. Aveva il pelo bianco con delle sfumature castane sul muso. Allungai una mano per accarezzarlo, ma subito si ritrasse, così continuai con il mio schizzo. Continuò a gironzolarmi intorno per un buon quarto dora. Presi un pezzo dall’ultimo panino che mi rimaneva nello zaino e allungai la mano verso di lui. Si avvicinò titubante muovendo l’enorme tartufo verso il boccone, per poi allontanarsi di nuovo e sdraiarsi al sole poco distante da me. Finito lo schizzo chiusi gli occhi per godermi quel debole tepore che mi riscaldava le guance ancore fredde per l’inverno appena trascorso. Quando li riaprii il cane era scomparso.
Lo rividi la mattina dopo, vidi la sua coda bianca scodinzolare. Cercai nuovamente di allungare la mano ma anche questa volta si allontanò per sdraiarsi al sole. Continuò così per altri due giorni, lui arrivava, mi fissava agitando la coda e quando allungavo la mano la annusava per poi sdraiarsi al sole un po’ lontano da me. Il quinto giorno le cose cambiarono. Ero intenta ad osservare un ragazzo che addentava un enorme panino con prosciutto quando la sua coda mi scodinzolò davanti agli occhi. Dopo aver ripetuto il solito rito, mentre era sdraiato al sole, notai che mi fissava. Alzai lo sguardo dal taccuino e lui si voltò, riabbassai lo sguardo e vidi con la coda dell’occhio che mi stava nuovamente fissando. Sorrisi, mi piaceva il suo gioco. Continuammo così. Quando disegnavo lui mi fissava , piegando di tanto in tanto le orecchie o annusando l’aria, quando alzavo lo sguardo e lo posavo su di lui, si voltava o nascondeva il muso tra le zampe. Arrivò il momento in cui era ora di alzarmi per andare a procurarmi qualche cosa da mangiare. Appena mi alzai lui sollevò il muso e drizzò le orecchie. Mi tenne gli occhi puntati addosso finchè non mi allontanai.
Il giorno seguente lo trovai pronto ad aspettarmi al sole. Fui sorpresa quando vidi che mi riconobbe piegando la testa e agitando la coda. Tentai nuovamente di allungare la mano, ma lui la guardava con diffidenza e non aveva nessuna intenzione di farsi accarezzare. Così cambiai tattica, indifferenza. Non mi voltai più verso di lui, mi concentrai solo sul mio disegno. Con sorpresa, notai che anche lui iniziò a comportarsi allo stesso modo. Non alzò più il muso, tanto che pensai si fosse addormentato. Ma proprio quando lo guardai lui drizzò le orecchie e iniziò a scodinzolare vivacemente. Sorrisi, mi piaceva quell’animale. Mi ricordava vagamente me stessa, furbo, diffidente e curioso. Nei giorni che seguirono riuscii a farlo avvicinare un po’ di più ma non si lasciò mai accarezzare. Ci fu un momento in cui stava per addentare dalla mia mano un pezzo di pane ma dopo averlo attentamente annusato sbuffo e ritornò nella sua solita posizione. Le mie giornate iniziarono ad essere più divertenti, non mi sentivo più così sola. Passavo ore ad osservarlo rincorrere i piccioni, stiracchiarsi al sole, scodinzolare ai passanti, arricciare il naso ad ogni odore e rizzare le orecchie ad ogni rumore. Divenne il soggetto preferito dei miei disegni. Lo ritraevo in ogni posizione possibile: in piedi, seduto, supino, a pancia in giù… Disegnavo il suo tartufo rosa e umido, i suoi ciuffi scuri sul muso, le frange bianche che gli scendevano dal petto e la coda sempre in movimento. Seppur lo vedessi solo da lontano, era diventato il mio compagno di viaggio.
 
Fu qualche settimana dopo che riuscii finalmente ad avvicinarlo. Era una notte fredda, isolita per il mese di aprile. Pioveva  a catinelle e non avevo nulla per ripararmi se non i rami di un albero in mezzo al prato. Rimasi sbalordita quando scorsi la coda del mio nuovo amico avvicinarsi tra le gocce d’acqua. Si sedette a pochi passi da me, incurante della pioggia e del freddo. Il suo pelo candido si inzuppava sempre di più e non riusciva nemmeno a tenere gli occhi aperti sotto tutta quell’acqua. Sorridendo gridai per farmi sentire sotto il rumore scrosciante della pioggia:
“Eih ! Perché non vieni qui e mi riscaldi un po’ ?”
Lui si voltò verso di me piegando la testa per ascoltare meglio. Rimase  a fissarmi per qualche secondo, poi si alzò e trotterellò verso di me. Si sedette contro il mio fianco. Lo fissai anche io a lungo, sorpresa e allo stesso tempo felice. Quando allungai la mano vidi che stava per ritrarsi. E allora capii che la sua amicizia non andava oltre alla fedeltà e alla compagnia, non voleva un padrone, e per quanto quel gesto fosse stupido e banale lui gli attribuiva un altro significato, come quando non aveva accettato il pezzo di pane che gli avevo offerto. Era come me. Libero.
 
Il nostro rapporto continuò così. Ogni giorno si sdraiava al sole poco lontano da me, ci fissavamo a vicenda, io lo dipingevo e lui mi osservava dipingere. Si avvicinava raramente, solo quando vedeva che ero in difficoltà: quando rabbrividivo nel freddo della notte, quando mi riparavo dalla piaggia, quando sedevo ore e ore per l’elemosina o quando piangevo per la fame. L’incertezza che avevo prima, quando ero combattuta dall’idea di continuare questa vita o tornare a quella di prima era scomparsa. La sua compagnia mi faceva sentire meno “strana”, perché avevo scoperto di non essere l’unica. Così decisi di rimanere, solo così potevo essere felice.
 
Una sera, la più fredda che avessi mai vissuto, ero sdraiata sotto un porticato con il cane bianco sdraiato poco distante da me, quando vidi una signora avvolta in una pelliccia correre verso di noi. Teneva tra le mani un guinzaglio e una coperta. Era la padrona del cane. Gridava qualcosa ma le parole mi ronzavano in testa e non le capivo. Ero sconvolta. Ero delusa da come il cane si facesse imbavagliare in quel guinzaglio, in quella catena. Da come preferisse la coperta calda alla libertà. Distolsi lo sguardo. Salutarlo, dirgli addio, non era importante.
 
Lui non era come me. Nessuno lo era. Ero sola. “Diversamente comune”.
 
Pochi giorni dopo mentre camminavo per il parco qualcosa attirò la mia attenzione. Tra la folla di turisti che si ammassava per le vie e il calore delle prime vere giornate primaverili, un muso bianco e castano si fece strada correndo verso di me. Il guinzaglio gli penzolava su un fianco, mezzo sbrindellato. Oh si, avevo trovato, il mio unicovero amico.
  
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