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Autore: xEsterx    28/07/2011    5 recensioni
Los Angeles.
La los Angeles delle corse clandestine, delle notti illuminate a giorno.
La los Angeles dove anche al destino piace giocare, unendo fuoco e ghiaccio senza che il fuoco si estingua o il ghiaccio si sciolga.
Ma addirittura si diverte nel vedere come i due riescano a compensarsi, uno alleviando l’eccesso dell’altro. Perché alla fine il fuoco capisce che bruciare e distruggere non è l’unica cosa di cui è capace, e il ghiaccio scopre che sotto di sé, come protetta, la vita riposa silente e indisturbata, per rinascere rigogliosa, ogni anno e per sempre.
Genere: Azione, Erotico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Aquarius Degel, Scorpion Kardia
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Los Angeles.
Non poteva crederci. Non poteva essere.
Ciò che lo spingeva a crucciarsi e a chiedersi il perchè di questa strana scelta presa dal professore  non era tanto il posto designato, quanto le battute che Degel aveva scambiato in seguito con lui: -Ho parlato di te con il capo dell'equipe di ricerca di oncologia, e mio carissimo amico, il professor Hector Tatch...- aveva detto La Fleur -...ma nonostante io abbia avuto solo parole di elogio nei tuoi confronti, quelli vogliono prima, come dire... un tuo rodaggio.-.

-D'accordo, cosa sarà mai, dovrò starmene zitto e buono per qualche giorno a guardarli lavorare...-.

-Veramente mi hanno detto che incomincerai subito a darti da fare, ma non con loro.-.

Degel non aveva risposto, sentiva che quello che avrebbe sentito di lì a poco non gli sarebbe piaciuto nemmeno un po'.

-...ti hanno affidato al dottor Sean Ackroyd. Lavorerai per un primo periodo con lui, all'obitorio dell'università.-.

Obitorio
...
Dopo aver ascoltato, Degel si era ritrovato a rimanere a bocca aperta, senza parole da dire per parecchi secondi, tanto da far preoccupare La Fleur: -Degel, tutto bene?-.

-C-certo, professore.- Aveva balbettato lui, incredulo del fatto che gli fosse toccata davvero una simile sorte. Si era però detto che non avrebbe dovuto nemmeno rimanere troppo stupito dalla cosa, d'altronde cos'altro poteva aspettarsi da uno stage in una delle città con più alto tasso di omicidi del mondo e dove di conseguenza l'unico ramo della Medicina che godeva di buona fama era quello legale?
Ma perchè quei pazzi dell'equipe non si erano fidati di La Fleur? Di certo non era intenzione di Degel rinchiudersi in un obitorio a sentire puzza di morto per dover dimostrare qualcosa a qualcuno, ma rifiutare sarebbe stato ancora più deleterio, dato che avrebbe rovinato il suo (comodissimo) buon rapporto con una personalità importante come La Fleur, e poi se quei fanatici americani avessero deciso di prenderlo con loro dopo il periodo di prova sarebbe stato davvero un gran bel colpo per il suo curriculum universitario. Suo malgrado si ritrovò perciò ad accettare l'offerta e di conseguenza aveva passato i giorni seguenti a domandarsi cosa fosse andato storto e fosse sfuggito al suo controllo, ma nonostante si stesse interrogando al riguardo ormai da un tempo indicibile, non ricordava nulla che potesse dare risposta ai suoi interrogativi, nulla che avesse fatto per meritarsi un simile, vergognoso schiaffo.
A Los Angeles ad aprire e ricucire morti. Pensava che non sarebbe più dovuto cimentarsi in una cosa del genere alla fine del tirocinio del primo anno di Università, e ora stava per intraprendere uno stage d'elitè per ritrovarsi a fare proprio quello, per giunta in un posto senza nè storia nè cultura, dove la delinquenza faceva da padrona e la corruzione imperversava anche nelle scuole.

-Signore…? Sto parlando con lei, signore!-.

Ci volle la voce insistente della hostess del check-in per riportarlo alla realtà ed impedirgli di tormentarsi ulteriormente con quei pensieri, cosa che lo avrebbe indotto in un tempo abbastanza prossimo a mollare lì i biglietti e a fare dietro front per ritornare a casa.
Sospirò e scosse la testa sconsolato, sollevando la pesante valigia per poi poggiarla sul rullo, come indicato dalla signora.

-Attenda un minuto, torno subito.-

-Prego, faccia pure con comodo, tanto la fila qui dietro è diventata così lunga che per sapere com’è Los Angeles devo solo chiedere un passaparola.- Degel chiuse gli occhi e sospirò, massaggiandosi la radice del naso: era la quinta volta che quella tizia sovrappeso e dai capelli legati, incollati alla testa da chissà quale prodigiosa e lucidissima colla, guardava i suoi documenti con insofferenza e, non sapendo cosa fare, si allontanava per chiedere informazioni al collega dello sportello accanto, lasciando il ragazzo lì in snervante attesa.
Gli bastò un’occhiata, appena arrivato davanti allo sportello, per inquadrare la persona; una scollatura vertiginosa su di un seno raggrinzito, la pelle colorata della tipica abbronzatura arancione da solarium, tutta agghindata di patacche d’oro e di pietre preziose, truccata al limite possibile per una donna, incompetenza totale nel lavoro e… un cerchio di pelle più chiara attorno all’anulare sinistro; tutto ciò non poteva che portare ad una conclusione: una vita passata a fare la signora e a concedersi ogni tipo di vizio e di comodità grazie alle ricchezze del marito, ora cambiata drasticamente a causa di una separazione molto recente, che l’aveva lasciata senza un soldo e a ringraziare Dio di essere riuscita a tenere per sé almeno gli amatissimi gioielli; spinta dalla disperazione, si era vista costretta a fare qualcosa che mai si sarebbe immaginata: lavorare; cosa per lei evidentemente così estranea e insostenibile, da mettere tutto l’impegno non nel mestiere in sé, ma nel servirsene per cacciare una nuova preda a cui parassitarsi e poter così vivere di soldi altrui come prima. Solamente che, pensava Degel osservandola di sottecchi, con quel trucco e quella linea, l’unico uomo che poteva sperare di far abboccare all’amo era Boy George.
Per fortuna questa volta la tizia tornò alla propria postazione prima del solito e, dopo aver scritto un paio di cose a testa bassa, borbottando qualcosa tra sé e sé, gli rese finalmente le sue carte augurandogli buon viaggio con un sorriso tiratissimo tra le rotonde guance rosse di fard.
-Era ora. Grazie!- sbuffò così il ragazzo, esasperato, sottraendo i documenti da quelle salsicce inanellate con quella che poteva non proprio definirsi grazia.
Girò i tacchi di corsa, allontanandosi dal check-in con nelle orecchie le proteste dei viaggiatori inferociti in coda ormai da secoli, e si diresse finalmente verso il gate.



***



Teneva il piede piantato sull’acceleratore ormai da parecchio tempo, e addirittura cominciavano a stancarglisi le braccia a sterzare con forza su curve difficili da tenere a quelle velocità folli.
Però i brani dei Motley Crue vomitati dal suo impianto stereo, così potente da fargli vibrare il petto ad ogni nota bassa, gli rendevano tutto più facile, stimolandogli l’adrenalina; si poteva dire che stesse guidando seguendo quella musica assordante che scuoteva l’intera vettura.
Gettò una celere occhiata allo specchietto retrovisore e vide che, nonostante avesse seminato già un paio di volanti, ne aveva ancora quattro alle calcagna; saltare al di là del ponte che stava per alzarsi e imboccare le sue più segrete scorciatoie evidentemente non era stato abbastanza: doveva inventarsi qualcos’altro.
Purtroppo per lui si trovava in una zona di periferia che non gli faceva venire in mente nessun giochetto per depistare i veicoli rimanenti, ma la cosa non bastò a scoraggiarlo, non ora che sentiva la sua principessa più viva che mai, con l’odore acre dei pneumatici che si consumavano contro l’asfalto e gli pizzicavano le narici, le luci notturne che gli saettavano davanti agli occhi infervorandogli i sensi, e la schiena madida di sudore appiccicata allo schienale del sedile, contro il quale la stava premendo spasmodicamente, come se volesse venire inglobato dall’auto per diventare una cosa sola con essa. L’afa umida e appiccicosa della notte non era mai stata più piacevole, si ritrovò persino a pensare.
Fece abbassare la lancetta del conta giri, alleggerendo volontariamente il peso sull’acceleratore, e attese che le auto nemiche gli furono abbastanza attaccate al culo per scalare marcia e sterzare di colpo, così da imboccare una stradina residenziale secondaria a tutta velocità, imprecando però con un: -Cazzo, l’avevo riverniciata due giorni fa!- biascicato a denti stretti, per aver strusciato la fiancata destra della sua Viper al muro del palazzo che faceva angolo; in compenso agli inseguitori era andata peggio: la prima della pattuglia, presa alla sprovvista dalla manovra, non aveva reagito in tempo ed era andata a sbattere contro lo stesso edificio, bloccando l’accesso anche agli altri veicoli, che ebbero come unica alternativa quella di continuare dritti per cercare di raggiungerlo da altre vie. Lui ghignò, e lo fece con quel suo cipiglio mefistotelico di sempre, esasperato dallo sguardo mordace tenuto fisso sulla strada: era un predatore, ad altro non poteva essere paragonato, se non a una creatura affamata e bramosa delle sue prede, perché, anche se ad un occhio esterno poteva non sembrare, quello che svolgeva la parte del cacciatore era proprio lui, e la stava interpretando come era nel suo stile, in maniera subdola e anche un tantino svitata, dando agli altri l’impressione che fossero loro a rivestire la parte attiva, mentre invece il coltello dalla parte del manico ce l’aveva lui. E quando ci si accorgeva di come stavano davvero le cose, era solo nell’attimo in cui sferrava il suo colpo letale. Come uno scorpione che in principio impegna il malcapitato avversario soltanto con le proprie chele, così da lasciargli credere di disporre soltanto di quell’unica arma, per poi prenderlo alla sprovvista con il suo pungiglione vibrante di veleno, tenuto a bada lì dietro –non senza fatica- fino al momento opportuno.
Sì, diciamo che il paragonarlo ad uno scorpione era cosa più che lecita.

Si immise infine in una strada più larga, che giudicò essere una parallela del viale che collegava l’esterno al centro della città, ma la relativa calma durò poco, che improvvisamente sbucarono da una traversa le tre volanti rimaste con le loro sirene squillanti, rimettendoglisi alle calcagna; pensò in fretta a cosa fare, e si ricordò che poco lontano da lì, forse due centinaia di metri, avrebbe dovuto esserci un cantiere, e all’affiorare nella propria testa di come avrebbe utilizzato questa cosa a suo favore, tirò ancora di più le labbra, mostrando qualche dente; così spinse al massimo sull’acceleratore e ci impiegò meno di uno sputo per arrivare a quello che sarebbe stato il suo parco giochi, con polizia al seguito.

Si trattava di un grosso centro commerciale in costruzione ormai da anni, che aveva ultimato a malapena lo scheletro dell’edificio: una di quelle porcate dovute a favori e patteggiamenti con la mafia che si presentava come un immenso e confusionario labirinto a più piani di impalcature, transenne, travi e sostegni di vario tipo piantati sulla terra smossa, e che si poteva trovare in attività –se andava bene- dieci, massimo quindici volte al mese e, indovinate, quella sera era proprio una di quelle volte.
-Non potevo sperare di meglio.-.
Se prima la sua faccia era coinvolta in un ghigno, ora si concesse una vera e propria risata di eccitazione al vedere operai e macchine al lavoro, e si leccò pure le labbra, famelico, come a pregustare il divertimento che sarebbe arrivato di lì a poco.
-Forza, stronzi, fatemi vedere se a scuola vi hanno insegnato a guidare per davvero.-.
Si passò l’avambraccio sul viso per tergersi il sudore e poi abbandonò la strada per tuffarsi a testa bassa verso il cantiere, fregandosene dei pannelli di legno che delimitavano la zona e sui quali vi era verniciato “Divieto d’accesso. Solo personale e veicoli autorizzati”, dato che li investì in pieno, così da immergersi in quel dedalo di ferro e legno; il terreno accidentato sembrava non spaventare i suoi ammortizzatori e i pneumatici enduro, ma la stessa cosa non poteva dirsi per quelli degli sbirri che si ritrovarono costretti a rallentare per non ritrovarsi con le ruote all’aria. Senza contare che si rischiava di investire di tutto, oggetti e persone, anche a basse velocità, figuriamoci durante un inseguimento; lui ovviamente, in mezzo a quel ginepraio stava dando il meglio di sé: giocando di sterzo e freno a mano, guidava evitando ostacoli e uomini con una fluidità incredibile, nemmeno lo stesse facendo in una strada sgombra di metropoli, e non passò molto prima che disorientò i suoi inseguitori, i quali si ritrovarono presto a girovagare per il cantiere ad inseguire un’auto che poteva dirsi ormai sparita.
Ma quella sera un semplice depistaggio non era la sua idea di divertimento, no. Per cui decise di mostrarsi nuovamente a loro, sbucando davanti ai loro nasi all’improvviso, da cacciatore che si finge esca, e fare così in modo di venire inseguito nuovamente, mentre si dilettava nel canticchiare la strofa che stavano partorendo le casse a tutto volume.

Ciò che fece in seguito, indusse i poliziotti a gioire, poichè interpretarono quello che videro come un suo sintomo di stanchezza o di adrenalina ormai esaurita, dato che sembrava non riuscire più a correre in maniera precisa come prima; di fatti, a quasi ogni svolta, colpiva in pieno qualche palo che teneva su le impalcature, e ad ogni trave in più che schizzava via, loro guadagnavano terreno e assaporavano sempre di più la vittoria che credevano ormai prossima.

-L’ho sempre detto che voi sbirri comprate il distintivo al supermercato!- rise lui di gusto, appurando con un’occhiata allo specchietto che là dietro stavano facendo esattamente il suo gioco; magari erano pure convinti che fosse entrato lì dentro e avesse fatto tutta quella strada in mezzo a quel casino da suicidio per semplice carenza di risorse, e se li immaginava anche a festeggiare, ora che lo stavano vedendo rovinare la carrozzeria della sua adorata principessa per quella che quasi sicuramente credevano semplice stanchezza!
Ridacchiò al pensiero e gettò un’occhiata in alto per accertarsi di stare facendo tutto bene, ma soprattutto di farcela ad uscire di lì vivo e vegeto, dato che la situazione sopra la sua testa stava diventato pericolosamente instabile; infine contò che di pali da far saltare ne era ormai rimasto solo uno, quello centrale che reggeva il grosso del peso, così si diresse a tutta velocità verso l’obiettivo, mangiandosi la strada che lo separava da esso al massimo dei giri e col cuore che batteva all’impazzata, ma quando sterzò e se lo trovò davanti agli occhi, non poté fare a meno di masticare una bestemmia contro uno degli operai che, fuggendo per non venire investito dal gruppo di veicoli, aveva avuto l’incredibile “fortuna” di bloccarsi terrorizzato proprio con le spalle contro il sostegno che lui stava mirando. Digrignò i denti, indeciso sul da farsi, e proprio quando lo separavano solo un paio di metri dall’uomo che lo fissava implorante, sterzò di colpo e proseguì dritto; dietro di sè, invece, non appena l’operaio si presentò alla vista della volante che stava in testa, questa inchiodò e le ruote posteriori slittarono di lato, alzando una tempesta di terra, e dando così il tempo all’uomo di scappare via; ma la cosa ebbe anche il fortuito effetto di far scivolare in velocità l’auto ormai ingovernabile addosso all’ultimo palo.
Quello che vide dallo specchietto retrovisore nel giro dei seguenti cinque secondi gli strappò un grido di eccitata vittoria: ora che tutti i suoi sostegni erano stati buttati giù, una delle impalcature-magazzino, isolate rispetto al vero e proprio scheletro del palazzo, e precisamente quella che sorreggeva un’ingente catasta di mattoni di terracotta, precipitò addosso alle tre macchine rimanenti che nel frattempo si erano tamponate tra loro, immobilizzandole sotto una cascata di materiale edilizio.

-Tanto prima o poi ti prendiamo, figlio di puttana!- Gli urlò dietro uno dei poliziotti, riuscendo ad uscire dalla macchina distrutta, ma ormai lui era tornato in strada, e per tutta risposta tirò fuori dal finestrino il braccio, mostrandogli il dito medio.


Proprio quando aveva appena imboccato la XIVa, il cellulare squillò.

-Pronto?-.

-Sono Charlene-.

Ghignò.
-Charlene, bambolina! Stavo proprio pensando a te!-.

Lei ridacchiò dall’altro capo del telefono: -Certo, come fai ogni volta che stai con un’altra. Ascolta: se rispondi vuol dire che non ti hanno ancora preso, ma anche se li hai depistati non potrai stare tranquillo per un po'.-.

-Oh, io invece credo di sì, non so perché ma qualcosa mi dice che impegneranno per qualche tempo un sacco di piedipiatti al centro commerciale in costruzione.-.

-Piantala con le tue battute, stronzo, e vieni qui al garage di Vinny che io e gli altri ti aspettiamo per festeggiare la vittoria. Non ci siamo mica dimenticati, eh.- concluse baciando l’altoparlante e poi riattaccò.

Lui scosse la testa, divertito, e tirò su col naso, prima di ingranare la quinta e dirigersi al luogo designato, che non era nemmeno troppo distante da dove si trovava in quel momento.

Quando raggiunse il retro del garage e arrestò la macchina non potè trattenere una smorfia al sentire dei rumorini non proprio rassicuranti provenire dalla Viper, il cui motore stava sicuramente facendo fumo sotto il cofano, ma ci avrebbe pensato l’indomani: ora l’unica cosa di cui aveva voglia era divertirsi insieme agli altri, così smontò dalla vettura e dopo averla salutata con una carezza distratta, si ravviò i capelli incollati al viso dal sudore e prese una profonda boccata d’aria, portando la mano destra ad accarezzarsi il pettorale sinistro.
E nemmeno oggi hai deciso di mollarmi.
Difficile dire però se il pensiero affioratogli fosse di rammarico o di sollievo.
Evitò di pensarci e si apprestò a girare l’angolo, ben accorto nel mostrarsi bello e sicuro di sé, come consono al vincitore che era stato quella sera su tutti i fronti.

-Buonasera, stronzo.-.
Charlene stava seduta sul divano di pelle nera al centro della grande stanza, sola, senza l’ombra di nessun’altro della crew nei paraggi, e gli stava rivolgendo un sorrisino tutt’altro che benevolo. Nemmeno quando voleva scopare gli donava sorrisini benevoli, certo, ma questo era di un genere che non le aveva mai visto in faccia.
Lui si accigliò, guardandola sospettoso, ma, complice la stanchezza, quando si accorse di movimenti sospetti dietro di sè era ormai troppo tardi: due, forse tre sbirri lo agguantarono alle spalle, e uno di loro gli rifilò un pugno in pieno volto, confondendogli i sensi, mentre un altro gli torceva il braccio dietro la schiena, spingendolo con la faccia a terra; provò a dimenarsi, ma quando uno di loro gli piantò il ginocchio contro la schiena, schiacciandogli la gabbia toracica contro il pavimento e impedendogli così di respirare, non riuscì a fare altro che strizzare gli occhi e ringhiare di dolore al sentire le costole scricchiolare sotto quel peso che sembrava essere quello di un dinosauro; nel frattempo un altro sbirro era riuscito ad ammanettargli i polsi senza difficoltà.
Essendo stato sempre un movimento involontario, mai si era accorto in tutta la sua vita di quanto fosse piacevole respirare fino al momento in cui lo sbirro gli tolse quello scomodo ginocchio di dosso, cosa che gli diede un sollievo tale da fargli addirittura accantonare per un’istante la situazione di merda in cui si trovava.

-Hai finito di spadroneggiare in città, bastardo!- Due di loro lo alzarono in piedi con forza, trattenendolo per le spalle sudate, e lui ebbe solo il tempo di lanciare verso Charlene uno sguardo furente, infiammato, gli occhi ombrati da ciocche di capelli finitegli davanti al viso e di vedere questa agitare un corposo mazzo di bigliettoni mentre gli soffiava un bacio, prima di sputarle addosso un –Puttana!- pieno di collera, e venire portato via, col sapore di sangue e di sconfitta tra i denti.



***



Era la sua giornata no, senza dubbio.
Sarà stato per la tizia al check-in, sarà stato perché la hostess di volo gli aveva rovesciato addosso la bottiglia di succo di frutta al mirtillo dopo appena mezzora di viaggio a causa di una turbolenza, o perché avevano passato due ore e mezzo a girare in tondo per i cieli di Los Angeles per aspettare che il temporale diminuisse di intensità e ricevere così il permesso di atterrare.
E, come se non bastasse, la sua valigia tardava ad apparire sul rullo.
Guardò l’orologio da polso: le due del mattino.
Sbuffò d’insofferenza all’appurare che stava aspettando lì ormai da una buona mezzora a tamburellare a terra col piede, e più i secondi passavano, più nella sua testa si faceva largo la convinzione che il suo bagaglio non sarebbe più arrivato.
E se il buongiorno si vedeva dal mattino, quella non aveva di certo i presupposti per essere una piacevole e proficua permanenza.
Purtroppo per lui, però, il peggio doveva ancora arrivare.

-Ci scusi, signore.-.

Degel sentì una mano poggiarglisi sulla spalla e si girò di scatto, ritrovandosi davanti agli occhi due agenti in divisa che gli mostravano il distintivo. E ringraziò l’accortezza avuta poco fa nell’indossare la giacca per coprire la grossa macchia violacea sulla camicia chiara, nonostante facesse un caldo bestiale. Squadrò i due tipi, e si divertì nel constatare quanto potesse piacere agli americani descrivere sui loro schermi un paese che si poteva dire tutto tranne che quello che realmente era: di fatti i suoi occhi si erano posati su due ordinarissimi tizi che tutto parevano, tranne che i robusti e spigliati cops che si vedevano action movie: uno doveva pesare la metà di lui ed era alto più o meno il doppio, si grattava i capelli rossissimi e un lembo della camicia era sfuggito alla costrizione della cintura, mentre l’altro, come qualcuno diceva, si faceva prima a saltarlo che a girargli attorno; non per niente, era intento a divorare un cestello maxi di patatine fritte.
Evitando di trastullarsi troppo sui suoi pensieri, si schiarì la voce, tentando di assumere un atteggiamento rispettabile, nonostante l’aspetto demolito dal lungo viaggio e dagli sfortunati eventi suggerisse tutt’altro. –Prego. Ditemi pure.-. Capiva e parlava l’inglese in maniera impeccabile, sia formale che dialettale, ma proprio non voleva saperne di annullare quella sua francesissima erre roulant, e rendeva volontariamente tronche parecchie parole, il tutto con impressa l’intenzione di rendere sempre e comunque evidenti le origini e nazionalità di cui andava fiero.

-Potrebbe farci vedere i documenti, per cortesia?- chiese quello magro, allungando la mano verso di lui.

Degel annuì e tirò fuori il portafogli dalla tasca posteriore dei pantaloni, per poi dare all’agente ciò che gli aveva chiesto, con un cortese: –Ecco a lei.-.

-Ci scusi, ma abbiamo ricevuto l’ordine di controllarne il più possibile, questa sera. Siamo in allerta, ma niente di grave.- Il poliziotto abbassò così il capo per leggere ciò che aveva ora tra le mani e subito aggrottò la fronte, storcendo pure la bocca in una smorfia che persino a Degel risultò enigmatica.

-Qualcosa non va, agente?- chiese quindi con cortesia, corrugando la fronte a sua volta.

Quello, per tutta risposta, sollevò il viso impallidito e alternò lo sguardo tra il francese e le carte che aveva in mano. Dopo la terza volta che ripeté la cosa, mollò i documenti al collega ed estrasse di corsa la pistola, puntandola contro il ragazzo.
-Non ti muovere! Alza le mani sopra la testa e metti le ginocchia a terra!-.

Era una sua impressione o il tizio stava tremando?
Degel sollevò un sopracciglio, scettico, e per nulla scosso. Alzò le braccia, ma neanche troppo; di mettersi in ginocchio poi nemmeno se ne parlava.
–Ma non dovreste dirmi anche tutte quelle cose sull’avvocato, i diritti e cose simili?- Ebbene sì, oltre che irriverente, stava persino sorridendo; perché assistere agli sforzi di quello sbarbatello nel risultare un duro lo divertiva alquanto.

-Un bastardo come te non ne ha bisogno!- guaì il rosso agitandogli la pistola davanti, che impugnava spasmodicamente con entrambe le mani.
Anche il secondo agente realizzò la situazione, che ancora era però del tutto estranea a Degel, e dopo aver lasciato cadere a terra le patatine e infilato in tasca i documenti altrui, si sbrigò a sganciare le manette dalla cintura per poi gettarsi addosso al ragazzo che, con loro grande sorpresa, non oppose la minima resistenza, anzi, rese più facile il lavoro porgendogli addirittura i polsi.

-Se poi i signori vorranno cortesemente spiegarmi il perché di questa pagliacciata..- disse a voce alta e infastidita; quelli stavano giocando troppo con la sua pazienza, soprattutto ora che il poliziotto che lo aveva ammanettato gli stava infilando le mani unte in ogni dove per perquisirlo.

Ebbene sì, notò anche la macchia viola sulla camicia.

–Si finge anche un ubriacone trasandato per non destare sospetti. Ah! A voi piace sempre prenderci in giro, ma stavolta vi abbiamo fregato!- fece il poliziotto con malcelata superbia, ora che lo teneva forte per le braccia magre, impedendogli di muoversi, nonostante il francese non stesse dando la minima impressione di voler fuggire o divincolarsi; se ne stava lì in piedi, stanco e insofferente, fissando i poliziotti con occhi di ghiaccio, mentre attendeva le spiegazioni che era convinto gli spettassero di diritto.
-Degel Arnaud, sei in arresto per contatti e complicità con i terroristi. Hai finito di fare la spia per loro, ti portiamo dentro e non uscirai prima delle mosche che avranno banchettato sul tuo cadavere!-.

-Cosa?!- sbottò lui mentre lo portavano via. –Ci deve essere un errore, io sono stato mandato qui dalla Sorbonne di Parigi per uno stage...-.

-Sì, come no, vi inventate storie sempre più assurde. Ora stai zitto, non potrai parlare se non davanti al giudice.-.

-Ma vi dico che vi sbagliate, io…- non fece in tempo a concludere che l’agente che teneva la pistola gliela puntò alla nuca, e Degel pensò bene di fare come diceva lui.
Non era né preoccupato, né intimorito, sapeva di essere innocente ed era certo che nel giro di due, tre ore la polizia si sarebbe resa conto dello sbaglio e lo avrebbe lasciato in pace. Però, diamine, quando era troppo era troppo. Al momento desiderava soltanto avere la possibilità di poter sbattere ripetutamente la testa contro un muro, mai gli era capitato di vivere una giornata del genere e di chiuderla in bellezza in quella maniera: persino arrestato! Non poteva crederci.
Sospirò, cercando di sedare quell’ira che gli stava salendo lungo la schiena e già gli riscaldava il collo, mentre una volta scortato fuori dall’aeroporto una folata di aria calda che sembrava appena uscita da un phon gli investì la faccia, togliendogli il respiro. Odiava quel posto, lo odiava con tutto se stesso. E non avrebbe trovato niente di buono, là in mezzo, niente che facesse per lui.
Non appena la situazione si fosse risolta, pensò, si sarebbe sbrigato ad acquistare i biglietti per il ritorno e ne avrebbe dette quattro a La Fleur, oh se gliene avrebbe dette.
Fu spinto con forza all’interno della macchina, con l’agente che gli abbassava la testa come si fa ai veri criminali e fu portato di corsa alla centrale di polizia, con tanto di sirena accesa. Durante il breve viaggio si impose di tenere gli occhi fissi davanti a sé, occhi che non guardavano per davvero, accecati dal rifiuto verso tutto quello che avevano intorno.

Una volta arrivati, fu fatto scendere dalla vettura e, ad attenderlo davanti al distretto, c’erano una decina di poliziotti armati fino ai denti che lo fissavano torvi. Degel reggeva il confronto di sguardi con una tenacia ammirevole, persino quando questi tirarono fuori le proprie armi e gliele puntarono contro. Lo scortarono tutti fino all’ufficio del comandante, rimanendo poi fuori a sorvegliare la stanza, così da lasciare che lo accompagnassero dentro solo i due che lo avevano arrestato.
Al centro dell’ufficio, vi era un uomo sulla cinquantina, alto e ben piazzato, con capelli scuri e cortissimi tagliati a spazzola, e occhi piccoli, ma che sembravano in grado persino di tagliare l’aria. Quello sì che gli sembrò un vero poliziotto.
Era seduto dietro una scrivania piena di fogli e cartelle, ma quando vide i tre entrare nella stanza, si alzò è fece cenno ai due agenti di arretrare un poco, così da lasciare libero il ragazzo, intorno al quale prese a camminare lentamente, le mani congiunte dietro la schiena. Era circospetto e curioso come un avvoltoio.
-Sono Millard. Comandante Russ Millard.- si presentò a Degel educatamente, poi si rivolse ai colleghi: -Quindi questo sarebbe il francese che giorni fa gli infiltrati dell’FBI hanno intercettato al telefono con i terroristi...-.
Sapeva già la situazione, ovviamente era stato messo subito al corrente della cosa e del loro imminente arrivo.
Degel al sentire le parole dell’uomo sgranò gli occhi interdetto, ma per il resto non fece una piega, permanendo con quel suo atteggiamento altero, il mento alzato e lo sguardo fiero. Il fiato, però, stava cominciando a mancargli.

-Signorsì, signore!- cominciò con voce tonante uno degli agenti, mettendosi sull’attenti. –Eravamo stati informati che sarebbe arrivato in aeroporto nella fascia di orario da mezzanotte in poi. Francese, corporatura longilinea e corrisponde anche uno dei falsi nomi da lui utilizzati.-
Il comandante annuì grave al sottoposto, per poi fermarsi di fronte a Degel, con il volto ad un respiro da quello di lui: aspettava una sua parola.

Come ad accontentarlo, Degel inspirò piano, come a volersi prendere qualche secondo per modulare al meglio le parole da utilizzare. -Comandante, mi rincresce dirglielo, ma qui avete preso tutti un grosso abbaglio.- E dire che le aveva pure pensate bene, il che lasciava facilmente intendere quanto la sua pazienza fosse arrivata ai minimi storici: spazientito, sporcato (non sporco, sia chiaro), stanco morto e pure arrestato… andiamo, a tutto c’era un limite.

Il poliziotto alzò un sopracciglio, infastidito. –Abbaglio? Lei, oltre che ad essere insolente, mette in dubbio sia le nostre capacità che i nostri metodi: ancora non mi pare di averlo mica arrestato.-.

-Però mi pare di avere le manette.-.

-Non c’è etica quando si tratta della sicurezza nazionale. Comunque, se davvero è stato uno sbaglio, ce ne renderemo conto tra poco, quando avremo saputo ogni cosa di lei, della sua vita, del perché è qui, e avremo confrontato il tutto con i dettagli che abbiamo a disposizione sulla spia. Lasci fare ai miei agenti, a volte possono risultare casi di omonimia, non lo escludiamo.- concluse, perentorio, senza lasciare possibilità di replica. La sua era una risolutezza velata dalla cortesia, decisamente ammirevole, pensò Degel: quel poliziotto ci sapeva fare e non era affatto uno sprovveduto. Per cui era certo che chiedergli di fare una telefonata sarebbe stato inutile, poiché si aspettava una risposta sveglia del tipo: -Sicuro, così potrai far esplodere l’intera città, nel caso stessi davvero dalla parte dei terroristi-; così si limitò ad annuire debolmente e si fece condurre senza fare storie nella cella di attesa, quella nella sala principale del distretto, dove venivano rinchiusi i criminali appena arrestati prima di essere trasferiti nel carcere vero e proprio. Fortunatamente era tirata a lucido e aveva una panca su cui sedersi.

-Ora aspetti qui per un po’, finchè non ci accertiamo di un paio di cose.- lo ammonì l’agente che era stato incaricato di sorvegliarlo.

-Ah, non c’è problema.- fece lui con noncuranza, andando a sedersi.
Almeno ora avrò un po’ di tranquillità si ritrovò a pensare, stupendo persino se stesso, mentre tirava un sospiro di sollievo e poggiava schiena e capo contro il muro.
Suo malgrado, fu presto smentito da un trambusto proveniente dal corridoio che collegava l’entrata all’interno del dipartimento e che passava perpendicolarmente alla sua cella.
Che diavolo succede adesso? Si limitò a pensarlo, senza muovere un muscolo, troppo stanco e arrabbiato per interessarsi a problemi altrui.
Perché non poteva sapere che presto quei problemi altrui sarebbero diventati anche e soprattutto i suoi.
Però cominciò ad intuirlo quando quel trambusto si tramutò in voci più o meno distinte di agenti e di quello che doveva essere un criminale. E un criminale di basso borgo, dato il tono oltremodo elevato e il linguaggio scurrile che utilizzava per insultare ripetutamente poliziotti e altre persone che Degel non aveva idea di chi fossero. Più i passi riecheggiavano nel corridoio, e più ebbe la consapevolezza che no, non avrebbero svoltato per altri corridoi, e che sì, si sarebbero fermati davanti alla sua cella.
Così fu, in effetti, ma si sa: mai una volta che le sue predizioni non si fossero avverate.
Solo che sperava in un “coinquilino” meno… tremendo di quello. Davanti ai suoi occhi, al di là delle sbarre, se ne stava ansante e con la schiena tenuta curva da due poliziotti che lo trattenevano con forza un ragazzo che giudicò più o meno della sua età, ma che più diverso da lui non poteva essere. Indossava una canottiera strettissima sui muscoli pronunciati e abbronzati, e la pelle lasciata libera dai tatuaggi, se trapiantata, avrebbe rivestito sì e no un piede. Per di più, portava capelli lunghissimi e mossi, talmente ribelli che sembravano muoversi di vita propria. Come fiamme, pensò; inutile dire che la cosa non gli piaceva affatto. Lo fissava per studiarlo senza farsi scrupoli, curioso e indiscreto, e non gli staccò gli occhi di dosso nemmeno quando quello alzò i suoi, ombrati dai capelli scarmigliati sul viso, e lo guardò in una maniera che lo fece rabbrividire.
Quello sguardo… quello sguardo lo spaventava. Conteneva qualcosa di bestiale, qualcosa che lui aveva cercato di allontanare da sé per tutta una vita, ritendendolo superfluo e di ostacolo. Vi era qualcosa a lui ignoto, in quegli occhi blu, che non gli dava alternativa dal rimanere a fissarli, come se il solo incontrarli di sfuggita avesse dato loro modo di legargli al collo un cappio che lo stava tenendo irrimediabilmente allacciato ad essi. Rilucevano di una luce malsana, vibrante di un dolce veleno che annebbiava i sensi e confondeva le menti.
In quegli occhi c’era.. no, quegli occhi erano il fuoco. Erano la passione viscerale, l’istinto primordiale, e pareva che fossero in grado di avvolgere nelle fiamme del loro ardore qualsiasi cosa toccassero.
Alla fine, fu l’altro ad interrompere per primo quel contatto, strappando Degel da quella schiavitù volontaria e assuefacente, giacchè i poliziotti aprirono la cella e lo spinsero dentro, per poi richiudere a chiave e sputargli addosso parole di disprezzo.
Il tizio ridacchiò sommessamente, scuotendo la testa rivolta verso il basso e borbottando qualcosa che Degel non capì, per poi trascinarsi verso la panca e abbandonarsi contro il legno con un pesante tonfo delle natiche.
Il francese, seduto all’altro capo dello scranno, tenne lo sguardo fisso davanti a sé, ben intenzionato a non dare la minima confidenza a quel tizio che di sicuro ce l’aveva un motivo per stare lì, al contrario suo. E poi, anche se non voleva ammetterlo, lo intimidiva e non poco.
Indifferenza che però non fu reciproca, dato che quello non si fece problemi nel riprendere a fissarlo con insistenza; una cosa però era certa: dentro quella cella due persone così agli antipodi non c’erano mai state rinchiuse. Entrambi ammanettati, sì, ma uno era vestito di tutto punto (seppur macchiato) e manteneva, anche in una situazione come quella, aria distinta e sofisticata, quasi principesca, standosene dritto e con il volto tirato su d’orgoglio; dell’altro, tutto sudato e scomposto, con la schiena muscolosa piegata in avanti e gli avambracci poggiati sulle cosce, non si poteva certo dire la stessa cosa.
Solo dopo due buoni minuti che sentiva lo sguardo dello sconosciuto incollato su di sé, decise di voltarsi e guardarlo con fare adirato; ci mise tutte le buone intenzioni per mandarlo a quel paese senza remore, ma le parole gli morirono in gola prima di fuoriuscire dalle labbra schiuse: di nuovo, quegli occhi lo stavano spiazzando, mozzandogli il respiro.

-Qualcosa non va, amico?- l’altro tirò su col naso, e fece una smorfia divertita con la bocca –Sembri aver visto un fantasma, guarda che sulla sedia elettrica non mi ci hanno ancora messo.-.

-No.. è che..-.

-Che hai fatto per finire qui? Non sembri un cattivo bambino.-.

Lo aveva interrotto. Lo aveva interrotto e lo aveva fatto anche con una sfacciataggine invidiabile. Se fosse stato al massimo delle sue energie, non l’avrebbe mica permessa una cosa del genere, oh no di certo!
-Nulla.- si schiarì la voce, ripristinando il proprio autocontrollo e la solita sicurezza di sé. –Infatti tra poco verranno a tirarmi fuori di qui, vedrai.-.
Parlava senza pensare, affinchè non potesse rendersi conto che lo stava facendo con un criminale, e della peggior specie, per giunta!

-Me lo auguro per te.- sogghignò il tizio, con un sentore di amarezza nella voce. –Io mi sa che di qui non uscirò tanto presto.-.
Degel non rispose, limitandosi ad osservarlo, per la prima volta non come una cavia da laboratorio da studiare, ma come si osserva una semplice persona con la quale si sta condividendo il medesimo destino, seppure per poco tempo.
-Come ti chiami, francesino?- gli chiese quindi l’americano a voce bassa, scherzando sul sin troppo palese accento dell’altro, e accompagnando le parole con un cenno del mento. Era conciso ed essenziale, e non si faceva problemi a risultare importuno.

-Di certo non vengo a dire il mio nome a un delinquente come te.- replicò Degel con fare indisponente, facendo di tutto per non nascondergli il fatto che già non poteva soffrirlo. –E poi non dovresti presentarti tu, prima di chiedere?-.

Il criminale si concesse un risolino divertito, a labbra chiuse, e alzò i polsi ammanettati, per porgere all’altro la mano destra. -Cardia.-.

Degel fissò per un attimo quell’avambraccio tutto tatuato (era una pin-up senza vestiti, quella?), fino a far scorrere gli occhi sulla mano robusta e callosa.
Oh, au diable.
Scrollò le spalle e rispose alla stretta. -Degel. Degel Arnaud.-.









Beeeeeene. Di solito, come avrete notato, non scrivo mai niente di personale a fine fic, ma questa volta mi vedo costretta a farlo per il semplice fatto che ci tengo a scusarmi per la prolungata assenza da efp, ma con questi esami all’università si può dire che nell’ultimo mese ho acceso il computer giusto per studiare -.-. Per cui chiedo scusa per aver fatto arrivare questo capitolo dopo SECOLI (spero che non abbiate dimenticato la prima parte, nel frattempo xD), e anche per aver smesso di colpo di recensire tutte le storie che stavo seguendo… giuro che recupero tutto!!
Poi, insomma, vorrei condividere con voi un’emozione immensa che è arrivata proprio qualche giorno fa: abbiamo visto finalmente i nostri amati Cardia e Degel muoversi e parlare <3<3<3 Non so voi, ma io guardo di continuo quelle due scene in cui appaiono nelle ultime due puntate della seconda serie <3<3<3, sembro una deficiente felice! (Forse perché lo sei ._. ndcoscienza). Secondo me sono stati resi in maniera impeccabile, soprattutto per quanto riguarda le voci *sviene* (Quella di Cardia è troppo la sua, diamine). Quindi magari, per chi segue l’anime di Lost Canvas, risulterà ancora più facile leggere e figurarsi questa fic. :)
Grazie di aver letto, e accetto ogni tipo di commento :) Se ne lasciate uno, apprezzo tanto. Alla prossima! <3<3
  
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