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Autore: Patta97    29/07/2011    3 recensioni
Quello che successe secondo me la notte in cui Ariana Silente venne aggredita e suo padre, Percival, cercò vendetta aggredendo tre ragazzini Babbani. Tutto in una notte d'estate.
(Partecipante al concorso "One shot dell'estate")
Genere: Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Albus Silente, Altro personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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L’alba del tramonto

 
Era un caldo pomeriggio d’inizio agosto del 1892.
Il ragazzo sedeva in giardino, chino sulla carriola rovesciata per renderla più comoda. Leggeva un tomo spesso e consunto, ostentando un’espressione pacata ma con la mente avida di sapere, incurante del sole che brillava ostinato su nel cielo azzurro.
Il giovane si passò una mano sulla nuca per spazzare il sottile velo di sudore che vi si era posato e poi se la poggiò sotto il mento per reggersi la testa.
- Che cosa leggi, Albus? – chiese una voce di bambina.
Il ragazzo alzò controvoglia gli occhi azzurri dal libro per incontrare quelli altrettanto chiari della sorella.
- Cose per la scuola, Ariana – rispose, facendole un piccolo sorriso e tornando alla sua lettura.
- Ma andrai a scuola fra un mese – disse ancora la bimba.
Albus annuì, girando pagina. Ariana rimase lì ancora un po’, cercando di attirare l’attenzione del fratello, poi si allontanò in cerca di Aberforth. Ritornò poco dopo seguita da lui, sorridente.
Aberforth aprì il recinto delle capre, che iniziarono a sparpagliarsi per il giardino, brucando qualche ciuffo d’erba.
- Ariana, mi passi un secchio? – chiese, sedendosi su uno sgabello di legno a tre gambe, vicino al fratello maggiore e dandogli le spalle.
La sorellina arrivò con un secchio di rame e lo posizionò alla bell’e meglio sotto la capra che Aberforth si accingeva a mungere. Poi si sedette sulle ginocchia sull’erba verde, lisciandosi le pieghe della gonna, per guardare meglio il fratello e imparare.
Aberforth sistemò più adeguatamente il secchio e posizionò le mani giovani e piene di calli sulle mammelle della capra, pronto; poi parve ripensarci.
- Albus – disse, guardando oltre la propria spalla. – Mamma ha detto di mungere le capre, mi dai una mano? – chiese, anche se sapeva già la risposta.
Albus annuì nuovamente. – Arrivo subito – mormorò, provando a esercitarsi con un movimento del polso descritto nel libro, ma senza la bacchetta.
- Sì, certo – sbuffò Aberforth, iniziando il lavoro.
Mentre Albus leggeva, rapito dalle pagine del suo libro di magia di seconda mano, Aberforth ed Ariana scherzavano e lavoravano, il primo, una volta, le munse del latte direttamente il bocca, che le schizzò sul viso, facendola ridere come una matta; così il pomeriggio passò veloce e il cielo si fece di mille sfumature calde.
Verso le sette, c’erano più di dieci grossi secchi pieni di latte e le capre brucavano tranquille nel giardino.
Aberforth, stanco e col sudore che gli imperlava la fronte alta, si lasciò cadere sull’erba accanto alla sorellina minore. Lanciarono un’occhiata ad Albus che si stiracchiava un attimo le braccia, si portava una ciocca dei lunghi capelli rossicci dietro un orecchio, scacciava una mosca con un gesto della mano e ritornava a leggere, appoggiando nuovamente il mento alla mano.
I due fratelli minori si guardarono e decisero in un istante. Aberforth si sedette di nuovo sullo sgabello di legno, facendo finta di contare i secchi riempiti. Ariana si alzò lentamente, senza farsi notare da Albus, e si spazzò via dal vestito azzurro le foglioline d’erba e la terra. Poi si concentrò, corrugando appena la fronte e facendo apparire una minuscola ruga tra le sopraciglia chiare: il secchio più vicino a lei levitò a qualche centimetro dal suolo, quasi facendo cadere il latte che conteneva. Aberforth sorrise mentre il recipiente si alzava sempre di più nel cielo, per ritrovarsi
sopra la testa di Albus, che continuava a leggere tranquillo, senza accorgersi di nulla. Fu un attimo e… il latte finì sui capelli del maggiore dei figli Silente e il secchio cadde a terra, rotolando via. Albus, che era riuscito a mettere in salvo il libro per un pelo, si girò piano verso i fratelli minori, i capelli che grondavano di latte e la camiciola macchiata, ostentando un’espressione arrabbiata, ma tutti e tre sapevano che non era così: Albus aveva finalmente capito che i due avevano solo voglia di stare con lui e, visto che il libro era intatto e asciutto, poteva anche giocare un po’ con loro.
Si lanciò su Ariana, che rotolò a terra sotto il suo peso, sbellicandosi dalle risate, chiamando a gran voce l’aiuto di Aberforth; quello non se lo fece ripetere due volte e si gettò per terra accanto ai due, facendo il solletico. Dopo un po’ si abbandonarono sull’erba, distesi l’uno accanto all’altro, felici e con qualche eccesso di risata, a guardare il cielo arancione puntellato di nuvole sottili e lilla come le violette su cui stavano sdraiati.
Albus, improvvisamente, si tirò su a sedere e fissò la sorellina con cipiglio severo e autoritario.
- Ariana! Sai che non dovresti far magie, qui! Potrebbero vederti i vicini! – la rimproverò. Poi, vedendo l’aria contrita della sorella e i lenti scuotimenti di testa di Aberforth, che si era puntellato sulle braccia per ascoltare meglio, sospirò e cercò di rimediare. - Sai quanto s’arrabbierebbe mamma se dovessimo andare via di qua… le piace tanto la campagna – disse, con tono più cauto. Ariana teneva ancora il broncio. – Mi prometti che non lo farai più? – chiese Albus, con un sorriso gentile, guardandola con la testa leggermente inclinata e porgendole una mano. La bambina annuì e afferrò la mano del fratello per aiutarsi a sedersi, con un piccolo sorriso.
- Bambini! – li chiamò una voce, mentre Kendra Silente si affacciava alla finestra con le ante di legno della casetta bianca. Aveva i capelli raccolti in un alto chignon e l’aria stanca. – Venite ad aiutarmi con la cena – disse, allontanandosi dalla finestra per ritornare a cucinare.
Aberforth guardò esausto i secchi pesanti che dovevano portare al piano superiore della stalla e le capre che dovevano essere chiuse nel recinto. Ariana intercettò il suo sguardo.
- Dopo cena li poso io nella stalla, Ab – rassicurò la bimba, volenterosa. – Posso, no, Albus? – chiese poi, per essere sicura.
- Appena mangiato chiedi il permesso a mamma – disse Albus, avviandosi verso la porta. – Ora andiamo -.
I bambini apparecchiarono il rozzo tavolo di legno con una tovaglia bianca, tovaglioli, piatti e pane fresco e si sedettero, aspettando con ansia la loro mozzarella di capra.
La porta d’ingresso sbatté forte e Percival Silente fece ingresso poco dopo nella cucina.
- Buonasera, ragazzi – salutò, il tono fiacco. Andò a dare un bacio sulla guancia della moglie e si sedette subito a capotavola. Kendra servì mozzarella e rapa e si accomodò a sua volta. La famiglia mangiò in silenzio.
Ariana ingoiò l’ultimo boccone di pane e chiese il permesso di alzarsi da tavola.
- Posso sistemare in giardino? – domandò speranzosa alla madre, dopo aver lavato nel lavabo il suo piatto e le sue posate e averle riposte ordinatamente nella credenza.
Kendra provò ad incrociare lo sguardo del marito, ma quello era intento a slacciarsi gli scarponi, seduto su una delle due poltrone. Così annuì alla figlia.
- Ma non metterci tanto, è troppo buio – raccomandò. Poi, mentre la bimba usciva fuori, felice di rendersi utile, sentì la madre dire qualcos’altro che suonava come “E non fare magie!”.
Il giardino era silenzioso e buio, pieno di capre insonnolite e secchi ricolmi di latte. Seguendo la raccomandazione della madre, non usò trucchi per convincere quelle testarde delle capre a rientrare nel recinto. Stanca, lo richiuse mentre una delle bestie provava nuovamente a uscire. Che fatica, senza magia. Ma, in fondo, era buio, non l’avrebbe vista nessuno se…
Fece un piccolo sorriso e si lisciò le pieghe della gonna, corrugando la fronte, concentrata.
Il secchio più vicino a lei fece un piccolo saltello, seguito da quello dopo e quello dopo ancora, finché tutti saltellarono sul posto. Ariana tentò di soffocare le risate: com’erano buffi!
Tutti i secchi, ordinati, iniziarono a disporsi in fila e a procedere a balzi verso la porta della stalla, tenuta aperta dalla bambina, che osservava divertita.
Dopo che anche l’ultimo secchio varcò la porta, Ariana salì al piano superiore della stalla studiando ammirata il suo piccolo prodigio: senza la minima fatica, tutti i secchi stavano ordinati e immobili fra i mucchietti di paglia. Ariana scese le scale soddisfatta e si richiuse la porta della stalla alle sue spalle. Fece per rientrare in casa ma qualcosa attirò la sua attenzione: era il secchio vuoto che era rotolato via da Albus dopo che lei gli aveva rovesciato il latte in testa. Stava vicino alla siepe che delimitava il giardino. La bimba, stancata dall’eccessivo uso della magia, si avvicinò per prenderlo. Era vicina quando un coniglietto sbucò da una tana sotterranea, spaventato, e urtò il secchio, che rotolò oltre la siepe. Ariana non aveva il permesso di uscire da sola dal giardino, soprattutto se buio, ma non voleva che Albus o mamma pensassero che non avesse fatto un buon lavoro. Così si diresse verso il cancelletto di legno e uscì fuori dal giardino. Si guardò intorno e non c’era nessuno. Cercò si ritrovare il punto in cui era rotolato il secchio, sullo sterrato della strada. Finalmente lo individuò e lo prese fra le braccia, stringendolo. Tirando un sospiro di sollievo s’iniziò ad incamminare verso casa, ma sentì una voce che le fece sobbalzare il cuore e gelare il sangue.
 
Albus e Aberforth stavano accovacciati sul tappeto ad ascoltare la giornata lavorativa del padre, mentre Kendra, seduta sul divano, si portava avanti con il lavoro a maglia per Albus.
Poi, un urlo lontano squarciò la quiete.
Percival balzò in piedi, seguito dalla moglie e dai figli. Avevano tutti riconosciuto la voce di Ariana. Fecero per uscire, ma Percival, dopo essersi assicurato di avere la bacchetta in tasca, uscì da solo per strada, sbattendo la porta dietro di sé.
Kendra, Albus e Aberforth corsero in giardino, preoccupati, ma non si vedeva niente da lì.
Ariana comparve poco dopo, con graffi e lividi sulla faccia, gambe e braccia; il vestito azzurro sporco di terra. Le mancava una ciocca di capelli biondi in cima alla testa. Tremava e sussurrava frasi senza senso.
- Ariana! – sussurrò angosciata Kendra, agguantando la figlia prima che cadesse per terra.
- Ragazzi! Aiutatemi! – implorò la donna. Albus e Aberforth si lanciarono un’occhiata sgomenta prima di andare in soccorso della madre e trascinare di peso Ariana dentro casa: Kendra non perdeva mai il controllo. Adesso, invece, stava piegata sulla figlia, piangendo e scuotendola. Albus e Aberforth avevano adagiato piano Ariana sul divano e la bambina da allora era immobile lì, pallida, gli occhi spalancati e fissi al soffitto, sussurrando parole che solo lei sembrava capire, torcendosi le mani in grembo…
Aberforth distolse lo sguardo dalla scena e si sedette su una poltrona.
Albus invece guardava Ariana, impassibile. Ab scorse qualcosa nel suo sguardo, ma si sforzò di pensare che non fosse repulsione.
Passò un’ora, un’altra, un’altra ancora. L’orologio a pendolo ticchettò la mezzanotte. Kendra si era alzata solo una volta dal capezzale della figlia, quando si era accorta che il braccio destro era rotto e le aveva fatto bere a forza un bicchiere di Ossofast.
- Mamma – la voce di Albus ruppe il silenzio della notte, stonando nell’ipnotico ticchettio del pendolo. Kendra, seduta sul bordo del divano accanto ad Ariana, che dormiva in un sonno agitato, alzò lo sguardo dal viso della bambina su quello del figlio maggiore.
- Sono ore che papà è fuori – fece notare Albus. – Non sarebbe meglio cercarlo? – suggerì.
Kendra fece scivolare lentamente lo sguardo da lui per tornare a contemplare la figlia.
Albus sospirò piano e si sedette sulla poltrona di fronte al fratello.
I ragazzi si addormentarono alle due di notte.
Ariana si svegliò verso le cinque, quando iniziava ad albeggiare. Kendra riposava appoggiata allo schienale del divano, una mano appoggiata a quella di Ariana e il volto umido di lacrime. Notò che anche Albus ed Ab erano lì, che dormivano sulle poltrone. La bambina avvertì una pezza umida poggiata sulla fronte e sentì il braccio indolenzito; lo mosse, cauta. Una fitta lancinante le fece subito cambiare idea e rimase immobile. Improvvisamente si rese conto di essere piena di dolori.
Anche in cima alla testa. Alzò piano il braccio dolorante e si tastò dove le faceva male. C’era una chiazza ruvida, priva di capelli…
- Cosa ci fai sola, strega? – domandò una voce minacciosa quanto giovane.
Ariana restò pietrificata, il secchio ancora stretto in mano.
Delle mani la spinsero da dietro e la fecero cadere a terra, sbattendo la faccia. Qualcuno la afferrò per i capelli nello stesso momento in cui un altro le teneva la faccia contro la terra dura. Si sentì la cute strapparsi dalla testa e le lacrime iniziarono a scorrerle lungo il viso…
Ariana si alzò dal divano, attenta a non svegliare la madre.
Le ci volle un po’ per prendere il controllo delle gambe, ma alla fine, traballante, riuscì ad appoggiarsi alla finestra che dava sul giardino. Un venticello tiepido le soffiò in viso. In lontananza scorse un piccolo luccichio. Era il secchio di rame.
La fecero voltare a pancia in su e Ariana si rese conto che erano in tre. Non potevano essere più grandi di Albus, Babbani. Erano figli di vicini di casa, si limitavano a guardarla male, quando Albus e Aberforth erano con lei. Ma ora lei era sola…
- Sei una brutta strega! – sputò quello che sembrava il più grande dei tre, la prima voce che aveva sentito. – Faremo in modo che non usi più i tuoi stupidi trucchetti, giusto? – ghignò.
Nell’ombra, un altro ragazzino rise stupidamente. - Strega! – ridacchiò, sputandole.
Il terzo ragazzino, quello che non aveva parlato e con il volto completamente in ombra le sferrò un calcio al fianco. Ariana strinse il secchio a sé, come se fosse un’ancora di salvezza. Chiuse gli occhi, terrorizzata. Il capo e il ragazzo stupido, seguendo l’esempio dell’amico, iniziarono a graffiarle il volto e a darle pugni. “La magia è male, strega!” la canzonavano, cattivi, mentre le facevano male dappertutto. “Strega!” un pugno. “Strega!” un taglio. “Strega!” un calcio al braccio che la fece urlare di dolore. Lasciò andare il secchio, tutto era perduto…
Ariana scorse una figura in lontananza, che sia avvicinava camminando sullo sterrato della strada. Riconobbe la sagoma alta e possente del padre. Aveva la bacchetta ancora stretta in pugno.
Un lampo di luce. Un veloce spostamento d’aria. Le percosse e le prese su di lei svanirono di colpo. Aprì gli occhi: suo padre era lì, si stagliava imponente sui tre che, di fronte a lui, sembravano meno che bambini.
Ariana si alzò in piedi a fatica e vomitò un po’ di sangue, svenendo e ricadendo a terra. Percival lasciò perdere i Babbani, che scapparono terrorizzati.
- Reinnerva – sussurrò, puntando la bacchetta sulla fronte della figlia. Ariana sbarrò gli occhi e si portò il braccio sinistro al viso, come per proteggersi; il destro stava dritto accanto al suo fianco, inutilizzabile. Sussurrava frasi sconnesse, ma con un tema fisso: “mai più… mai più… mai più…”.
Percival aveva l’odio negli occhi, che si accresceva sempre più a ogni lettera flebile che usciva dalle labbra della figlia. – Torna a casa, Ariana – riuscì a sussurrarle, mentre la metteva in piedi di peso. – Torna da mamma -. Le asciugò un rivolo di sangue sul labbro inferiore. – Papà vuole vendetta – mormorò, allontanandosi e sguainando la bacchetta.
 
Percival vide casa sua che era l’alba. Scorse una figura alla finestra, un riverbero di capelli dorati: Ariana. Stava bene.
Si era messo sulle tracce di quei mocciosi Babbani. Dovevano pagarla, dovevano pagare il male che avevano fatto ad Ariana.
Li trovò dopo un’ora di cammino: si erano nascosti in una fattoria abbandonata. Avevano implorato pietà. Come se le loro scuse fossero valse a qualcosa. Poi avevano provato a difendersi. Poveri illusi. Percival li aveva battuti senza un graffio, mentre la piccola Ariana era piena di lividi. Un’immagine, nella mente, di sua figlia per terra che vomitava sangue, con un occhio pesto, era bastata a compiere l’irreparabile. Uccise un Babbano, che si accasciò a terra, gli occhi aperti. Li aveva azzurri, proprio come i suoi figli… Ebbe un lampo di lucidità. Che stava facendo? Erano ragazzini, era come fare del male a suo figlio. Si allontanò dalla fattoria, disgustato di se stesso, lasciandoli lì: due svenuti, uno morto. Aveva vagabondato per ore, scappando al suo destino. Poi si era deciso a tornare a casa, a salutare i suoi bambini, Kendra… Lo avrebbero imprigionato a vita. Inutile spiegare le sue ragioni, non avrebbero cancellato ciò che aveva fatto e, d’altronde, cosa avrebbero potuto fare a dei ragazzini Babbani? Uno aveva già pagato a prezzo della vita…
 
Ariana spalancò la porta che dava sul giardino, con l’impulso di correre ad abbracciare il padre, di dirgli che era felice di rivederlo, di raccontarle cosa fosse successo. Ma non ce la faceva e, nella testa, le risuonavano ancora le voci di quei Babbani. Faremo in modo che non usi più i tuoi stupidi trucchetti, giusto? Si portò una mano all’orecchio e se la premette, come a non voler sentire quello che veniva urlato nella propria testa. Strega! Sei una brutta strega! Strega! Stre…
- Ariana… - la voce di Percival riportò la bambina alla realtà. La stava abbracciando stretta.
Ariana provò a parlare, ma non ci riusciva, la voce le moriva in gola. Corrugò la fronte, provandoci intensamente… un ramo dell’albero più vicino si staccò dal tronco e cadde sull’erba. Il cuore di Ariana fece un balzo. Ma lei non aveva provato a fare una magia… voleva solo parlare…
- Papà… io non… - riuscì finalmente a sussurrare.
Percival le intimò di fare silenzio e le accarezzò i capelli. Inspirando a pieni polmoni l’aria calda e frizzante del primo mattino, si misero a guardare l’alba.
L’uomo sapendo che quella era l’ultima che avrebbe visto, la bambina consapevole che qualcosa in lei si era rotto davvero. Quell’alba, per loro, assomigliava più a un tramonto. Il crepuscolo della loro vita. 

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