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Autore: Mikaeru    01/08/2011    4 recensioni
John è ossessionato dall'idea di fare l'amore con Sherlock, ma Sherlock è completamente asessuato.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: John Watson , Sarah Sawyer, Sherlock Holmes
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Sbuffò forte, poi sbuffò nuovamente piano, come se il secondo potesse cancellare il primo. Buttò la carta igienica sporca nel water e si lavò le mani, schiaffandosele poi in faccia. Per la quarta notte di fila lo aveva sognato. Il collo bianco e i piccoli, minuscoli nei che solo un occhio attento era in grado di notare – lo sguardo sottile che sarebbe stato capace di leggere una calligrafia orrenda, il cuore che sapeva comprendere il cervello chiuso in una cassaforte con la combinazione perduta in una tempesta. Quei nei che contava e baciava placidamente, appena appena, riempiendolo di brividi. Quello minuscolo sul sopracciglio. Le braccia lunghe e la carnagione bianca, rossa di baci e di morsi, gli zigomi alti e duri e quello sguardo che si scioglieva piano piano, la voce roca e appena spezzata, le gocce di sudore che scendevano dalla fronte e si raccoglievano nell’orecchio, le gambe lunghissime e aperte solo per lui
“Lui non vuole, stai buono, per il diavolo, prima smetti di pensarci meglio è per tutti.”, disse al proprio riflesso, dandosi uno schiaffo.

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“Puoi andare a letto con chi vuoi.”
Parlò d’improvviso mentre sorseggiava il the, quello con cui per poco John non si strozzò. Parlò d’improvviso rendendo pubblica solo la coda del suo ragionamento, solo gli ultimi schizzi di olio dei suoi ingranaggi che si muovevano ad una velocità pazzesca.
Alzò lo sguardo dal giornale e lo guardò, lui che beveva il the sdraiato sul divano e lasciava la tazza sul tavolino; vide già i cerchi che avrebbe dovuto pulire dopo.
(le sue lunghe dita a reggere la tazzina – tutto ciò che si desidera e non si ottiene è così doloroso?)
“Cosa stai –”
“Ne hai bisogno, ti sento benissimo tutte le sere che ti masturbi”, le orecchie di John presero fuoco, non che ci fosse nulla di male nella masturbazione, ma l’idea che Sherlock lo sentisse lo imbarazzava terribilmente, “e anche se non ti sentissi non posso vietarti di avere una felice ed appagante vita sessuale. Il fatto che a  me non interessi non significa che tu debba privartene.”
Gli sembrò di aver a che fare con un alieno. Un alieno alto e magro che aveva preso il posto di Sherlock Holmes, quello che lo aveva inseguito più o meno a tutti gli appuntamenti avuti con Sarah – d’accordo, la prima volta aveva più o meno una scusa ufficiale, ma i successivi undici non c’era nessuna minaccia cinese tale da giustificare il suo comportamento –, quello che metteva il broncio se cercava di mettere al primo posto lei, quello che aveva trovato difetti più o meno palesi in ogni ragazza che aveva avuto – non aveva mai avuto l’ardire di presentargliene una, ma in un qualche modo riusciva sempre a scovarlo. Aveva cominciato a sospettare che seguisse il suo odore attraverso Londra.
Ora sapeva che lo avrebbe seguito attraverso il mondo.
“Sherlock, io –”
Sherlock che sembrava aver tatuato il proprio nome su ogni traccia del suo essere.
“Tu niente, John. Io non ho bisogno di fare sesso, non mi va, mi annoia l’idea, te l’ho già detto. Tu no, tu ne hai bisogno, e in più non nutrendo particolari preferenze per il genere biologico hai molte più possibilità. Ti sto dando il permesso, vuoi che te lo metta per iscritto?”
“Ma –”
Stiamo insieme.
Ne abbiamo parlato così tante volte.
Va bene così.
Ho accettato che tu non voglia fare sesso.
Sto bene così, davvero.
Voglio fare sesso, ma sto con te.
Va bene così.
Non voglio tradirti.
Non voglio ferirti, perché so che ti ferirei.
Va bene così.
Ti amo.
Tacque.
Ma cosa? John, io non sono interessato al tuo corpo,” qua Watson non poté fare a meno di offendersi un po’, “non ho nessun diritto su quello. Quello che mi interessa è la proprietà intellettuale. Se il tuo corpo se ne scopa un altro, o si fa scopare da un altro, non mi interessa. Perché ci scoperai, non lo amerai.”
“Se io ti trovassi a scopare con qualcuno ti lascerei.”
“Tu sei tu, io sono io. Il corpo è un fatto e il cervello e il resto un altro. Non sono geloso del tuo corpo. Vai con chi ti pare quando ti pare. Anche qua nel nostro appartamento, se non ci sono io.”
“Non credo lo farò.”
L’idea lo disgustava.
“Lo so. Nel caso, hai la mia più completa benedizione. Fai sempre sesso protetto e non andare mai con le prostitute, non voglio che si allarghi il giro malavitoso.”
“Non c’è problema, non mi piacciono.”
“Buon per te. Mi porti i biscotti?”
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Se ne rese conto improvvisamente, quando Sherlock lo chiamò e lui rimase fermo ad ascoltare il proprio nome con un suono nuovo. Si rese conto che tutto era iniziato ed era maturato senza che lui se ne fosse mai accorto; un seme dentro di lui era cresciuto fino a diventare foresta e lui non aveva teso l’orecchio neppure per la crescita di un fiore.
Come poteva essere accaduto? Proprio di lui, di un uomo, e non semplicemente un uomo qualunque – sentiva che, se si fosse trattato, ad esempio, di Lestrade, forse sarebbe stato vagamente più semplice – ma di Sherlock, il gomitolo più intricato, la lampadina mai spenta, i discorsi eterni e lunghissimi, il riverbero della sua voce su chiunque toccasse, scuro e profondo come un lago. Come aveva lasciato che accadesse? Che lui si insinuasse come un serpente sotto gli abiti, che gli offrisse la mela e poi lo azzannasse?
Non sapeva cosa ci fosse a ripugnarlo di più, a farlo rabbrividire, che fosse un uomo o che fosse Sherlock, o che la mistura bollente di entrambi i fattori lo stesse avvelenando. Come avrebbe reagito, se lo avesse saputo? Oh, di certo lo avrebbe capito, non c’era nulla che il geniale Sherlock Holmes non sarebbe stato in grado di capire, e quanto sarebbe stato facile per lui capire cosa turbava John, per lui era sempre stato un gioco, più facile delle parole crociate, più semplice di un gioco di carte. Ne alzava una sola, il sopracciglio alzato di John, ed era in grado di intuire tutte le altre disposte sul tavolo per ricostruirlo come un mosaico. Forse lo sapeva già – di sicuro lo sapeva già, in fondo quello non era un uomo normale, e non aveva detto niente e –
“John? Cosa fai lì imbambolato?”
Lo guardò come se non lo avesse mai visto fino a quel momento.
“Oh”, pronunciò come perduto. Sherlock lo fissava con un cipiglio vagamente offeso. “Oh, no, niente. Stavi dicendo?”

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“E cosa gli hai risposto?”, gli domandò facendo roteare la cannuccia nella lattina di Coca Cola.
Passavano spesso la pausa pranzo insieme, lui e Sarah. Ogni tanto era rilassante non aver paura di trovarsi un dito nel piatto, confuso con un coltello. Dopo la rottura (come poteva lei accettare un cuore a metà, gli avanzi lasciati dal cane?) avevano evitato di guardarsi, ma dopo un anno la ferita si era cicatrizzata ed oramai si era confusa con la pelle.
“No, semplicemente no,cos’altro potevo rispondergli?”    
Non le aveva raccontato tutta la conversazione – non sentiva il bisogno di spogliarsi così tanto –, solo la sua assurda offerta. Nessuno dei due si era meravigliato della stranezza.
“Guarda che l’idea non mi sembra così male.”, aggiunse lei dopo una sorsata, poi offrendogli la lattina ancora piena per metà, “Mi sembra molto più generosa di quanto mi sarei aspettata da lui.”
John rifiutò la lattina, continuando a giocare con i bocconi della bistecca che aveva tagliato. Sarah tornò ad infilarsi la cannuccia in bocca, mordicchiandola appena, mentre la Coca si sgasava. Quand’era piccola agitava la bottiglietta per due minuti e l’apriva pianissimo perché si sgasasse completamente, un’oggettiva schifosa abitudine che non sembrava aver abbandonato.
“Ma io sto con lui, non con qualcuno pescato a caso in un locale.”
“Ma a lui non interessa e tu finalmente potresti scopare come si deve.”
“Ma non è questo il punto, Sarah. Se sto con lui c’è un motivo, se dovessi andare con un uomo o una donna a caso non –”
“Stai parlando come se aveste una normale e tranquilla relazione, quando è palese agli occhi di tutti che non è così. Non credo di dover stare qui ad elencarti i motivi che sono mediocremente palesi anche loro.”
Arrossì di fronte ad un’evidenza forse un po’ scomoda.
“Di qualunque tipo sia, non voglio avere nient’altro con nessun altro.”, concluse accigliato. Gli sembrava che ne stessero parlando fin da troppo tempo, non aveva mai sostenuto una conversazione che lo irritasse così tanto.
“Beh, suppongo ti faccia onore.”, concluse a sua volta lei, rubandogli il foglio del conto. “Oggi pago io.”
“Non era il mio turno?”
“No, l’ultima volta hai pagato tu.”
“Oh.”
Ordinò il caffè per entrambi, compiaciuta per la piccola gioia donata.

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Martha Graves era irlandese e aveva i capelli di un fuoco brillantissimo, lunghi e lisci giù per la schiena; ma aveva solo undici anni e un accenno di seno che le valeva le prese in giro dei compagni di classe. John era uno dei pochi a cui non interessava farlo. Giocavano assieme ed andavano d’accordo. La perse di vista alle medie e la ritrovò alle superiori, il seno impossibile da nascondere e lei non sembrava particolarmente intenzionata a farlo. Gli ci volle un minuto per collegare quella ragazza alla bambina timida che strillava fino a far girare tutto il cortile quando le venivano tirate le trecce. Quando Martha lo abbracciò, dopo essergli corsa incontro con entusiasmo palpabile da un chilometro di distanza, venne investito dall’odore dolcissimo dei suoi capelli. Se ne inebriò fino all’ubriachezza. Stettero insieme per nove mesi, e per otto e mezzo non fecero altro che l’amore ovunque capitasse. Persero la verginità a quindici anni e si lasciarono in modo burrascoso e violento quando capirono di essere incompatibili e nessuno dei due voleva prendersene la colpa. Martha si fece bocciare per capriccio e John tirò un sospiro di sollievo. Ogni tanto ne ricordava con nostalgia i fianchi rotondi e la bocca esperta, e alcune piccole lentiggini – quelle di Sherlock gli piacevano di più.
Julia Taylor era dolce e remissiva, quello che fece innamorare John ed irritare Harry, che non sopportava che i sogni di una ragazza fossero quelli di una casalinga frustrata. Lui ignorava ogni considerazione maligna perché Julie gli piaceva da morire, sentiva che in quel momento nessun’altra sarebbe stata così perfetta, nessuna forma avrebbe combaciato così bene con lui; avevano diciotto anni e la convinzione dell’eterno. Facevano l’amore piano, dolcemente, lei lo accoglieva sobbalzando appena appena, stringendosi al suo collo e mormorando il suo nome come una benedizione. Ma i pregi si tramutarono in difetti, seccandosi come foglie senz’acqua: spronandola agli sforzi lei si lamentava piagnucolando, sentendosi sgridata da un padre tiranno, e quando John sognava in grande lei prendeva una corda e lo riportava a terra, i sogni di lui erano spine per entrambi, così gonfi e così lontani da non poter essere acchiappati mai, avrebbe dovuto coltivare piccole speranze come una margherita di notte, semplici e modeste, così facili e così reali; divenne isterica e dura, insopportabile. Aveva le labbra a cuore, ma i contorni di quelle di Sherlock erano più definiti.
Meredith Falcone era sempre la scopata migliore del secolo. Alcune voci sostenevano che i suoi voti fossero così alti perché andava a letto coi professori, ma solo John conosceva quanto sangue sputava sui libri e con quanta forza si destreggiava tra la facoltà e il lavoro. Era perdutamente innamorato della sua grandezza, della sua caparbietà, e anche di quanto enormemente maleducata riuscisse ad essere e dei suoi palesi problemi con l’autorità – gli stessi che aveva Sherlock. Con lei il sesso era spettacolare, adorava come fosse sciolta nel parlarne, così diversamente da molte ragazze che si vergognava di provare desiderio. Amava sperimentare, giocare con lui e con se stessa, amava coglierlo di sorpresa con nuovi trucchi. Un giorno si innamorò di un altro e lo lasciò con rispetto, senza mai tradirlo. Si sentivano ancora, ogni tanto, e John adorava i suoi tre figli che avevano imparato a chiamarlo zio.
Mary Morstan era il petalo rosso cremisi attaccato al suo cuore, era il canto che i suoi battiti ricreavano se stava in silenzio ad ascoltare. La compagna ideale che lo lasciò vedovo ancor prima di pensare al matrimonio. Sette lunghi anni e morì senza sapere che andava in guerra. Si conobbero fra i libri che odoravano di conoscenza e di pagine fatte seccare troppo al sole, lei che preparava un esame e lui che ne era appena uscito; trovandola in difficoltà le si avvicinò, finalmente con una vera e propria scusa per sfiorarle distrattamente il braccio, e Mary prese il massimo dei voti. Facevano poco l’amore perché erano entrambi sommersi negli impegni e nella vita, s’incontravano saltuariamente ma per molte ore, tutto era intenso e fantastico. Aveva i riccioli biondi e apprezzava il valore delle piccole cose senza scordarsi mai di sognare le stelle e tutti i pianeti, era forte e lo amava senza mai perdere di vista il proprio futuro e la propria carriera, quello studio medico che riusciva a figurarsi così bene, come se lo avesse già e ci avesse abitato per secoli, ridendo con John diceva che era anche in grado di sentirne l’odore; era la sua indipendenza il suo rimanere ferma e salda nei suoi principi che lo avevano incantato e incatenato. Tutto morto, tutto seccato, tutto straziato da un ubriaco alla guida.
Quieto, silenzioso, feroce, elettrizzante, intenso, veloce, lunghissimo, piacevole, immensamente e pienamente perfetto; in qualsiasi modo, in qualsiasi relazione, non era mai mancato il sesso. Era sempre stata la conseguenza naturale, qualcosa che veniva con la logica. C’era sempre stato. Nonostante Sherlock, non riusciva a credere che ci fossero davvero persone capaci di vivere senza.
Questo pensava vagamente con la testa ciondolante sulla mano, cercando di non addormentarsi, sonnolento per la mancanza di sonno e il piacevole tepore dello studio che si infiltrava nelle ossa, col sole caldo che illuminava tutto. Avrebbe voluto sdraiarsi sulla scrivania come una lucertola. Avrebbe voluto essere una lucertola: strisciare dentro le fenditure più nascoste, e l’assenza di preoccupazione per la perdita di parti del corpo sarebbe stata molto utile per la vita che faceva, e almeno una lucertola non aveva costanti e continue fantasie sul proprio coinquilino, quello che aveva scoperto a dormire beato sul divano, con le dita lunghe che ciondolavano e sfioravano il pavimento, la pancia piatta scoperta e il collo sudato. Lo aveva baciato sulle labbra ed era uscito di fretta.
Sarah lo svegliò completamente bussando alla sua porta aperta.
“È ora di pranzo!” gli annunciò allegramente, tirandolo su per il braccio. I pensieri svanirono per un attimo, scivolando via come una goccia di sudore.

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Quando tornò a casa dormiva ancora; gli venne in mente di cercare su Internet se quello non fosse uno dei segni dell’imminente Apocalisse. Appoggiò la borsa della spesa per terra – i biscotti, le olive, il tonno, la pasta – e gli si avvicinò appena. Lo guardò e di nuovo gli baciò le labbra, ottenendo un mugolio vagamente contrariato. Grugnì appena e si voltò contro il muro, piegando le gambe.
“Vedi di non essere insopportabile anche quando dormi.”, lo ammonì sbuffando. “E poi i baci non mi sono mai stati proibiti.”
Era certo che si sarebbe svegliato di lì a poco, quando l’aria sarebbe stata più fresca; mise l’acqua a bollire per un piatto di pasta. Sicuramente non aveva mangiato granché, considerando che non c’era nulla in casa che potesse mangiare senza cucinarlo, e cucinare non rientrava di certo fra le funzioni primarie che il suo hard disk riconosceva come essenziali – considerando anche il fatto che persino respirare era stato catalogato come noioso.
Si svegliò nel momento in cui John faceva saltare la pasta in padella.
“Hai fame?”
“No.”
“Non mangi da...”
“Lunedì.”
Sospirò profondamente. Avrebbe dovuto pagargli una balia.
“Appunto. Oggi è giovedì. Mettiti a tavola ora e mangia.”
Grugnì di nuovo, consapevolmente, ancora troppo molle di sonno per protestare come si conveniva a Sherlock Holmes.

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Ebbe l’istinto di vomitare quando immaginò il suo orgasmo.

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Sussurrò piano il suo nome all’orecchio, leccandolo appena.
“Un regalo.”
La voce bassa, i brividi elettrici, la nebbia davanti agli occhi che diventava lui – null’altro davanti a sé.
Cominciò a togliersi la camicia dopo averlo fatto sedere sul divano, con la promessa di non fare nulla se non sotto esplicito ordine. John annuì più volte. Le mani sfioravano appena i bottoni e gli occhi vagavano sul suo corpo, guardava John seduto e in attesa con profondo e tumultuoso desiderio; Sherlock sembrava indeciso su quale parte mangiare per prima. Quando buttò la camicia per terra e John stava per supplicarlo di avvicinarsi, Sherlock si trasformò in Sarah che, ora completamente nuda, camminava verso di lui con passi lenti, morbidi, una felina dalle ossa sottili. Gli sospirò sulle labbra, un mormorio senza nome, poi gli salì sulle gambe, stringendo forte le cosce. Gli leccò le labbra, chiedendogli se non avesse sempre desiderato questo. Si ritrovò le mani di Sherlock dietro il collo e la sua bocca intenta a succhiare e mordere, mentre Sarah si impalava. Gridava, gridava, gridava fino all’orgasmo, e Sherlock gli chiedeva di salirgli sopra e di fotterlo.
Si svegliò prima di sfiorargli le labbra, scoprendo di essere venuto.
Per una settimana intera non sognò altro. Non toccava mai Sherlock, ma era sempre lui a toccarlo. Sempre inavvicinabile se non quando lo permetteva lui, come una tigre appena catturata.
Al mattino, a colazione – quando aveva la fortuna che la facessero assieme – Sherlock lo guardava senza proferir parola. John ingoiava i cereali senza alzare gli occhi.

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Se avesse avuto una tazza in mano sarebbe caduta a terra, sfracellandosi, entro i primi quindici secondi. Tremava e non se ne accorgeva. Si tenne un polso, costringendosi al controllo. Fu facile, era stato addestrato. Inspirò profondamente. Non aveva idea di come iniziare la conversazione – perché esistevano percorsi della vita che includessero certe scelte imbarazzanti? Ma ormai l’aveva presa, non poteva continuare ad ignorarsi e ad ignorarlo. Se non avesse parlato sarebbe impazzito.
E poi, in fondo, Sherlock doveva aver capito e non aveva detto niente.
Inspirò di nuovo, raggiungendolo in salotto. Stava leggendo e non dava segni di essersi accorto della sua presenza. Si sedette in poltrona e aspettò che la sua voce decidesse di parlare. La sentiva intrappolata tra le corde vocali, un sasso in una tela di ragno. Ingoiò saliva più volte, pronunciava la prima sillaba del suo nome velocissimo e con voce quasi invisibile, un sospiro di vento in una tempesta.
“Sherlock –”
“Non chiedermi di festeggiare gli anniversari, non pretendere regali né parole dolci né dichiarazioni di eternità. Non avrai niente di tutto questo. Forse avrai me, e non credere che sia poco. E non voglio fare sesso, non mi interessa.”
Abitava con Sherlock da ormai tre anni. Avrebbe dovuto intuirlo, non si sarebbe dovuto agitare. La parte del sesso non destò alcuna preoccupazione, forse aveva solo paura di farlo con un uomo; ce l’aveva anche lui, in fondo. Sorrise appena, leccandosi il labbro.
“Ti faccio il the.”
Due zollette, quattro biscotti, il cucchiaino sul piatto, mai assolutamente dentro.
 “Mi hai letto nel pensiero, stavo appunto per chiedertelo. Cominciamo benissimo, non trovi?”

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Odiava come Sherlock reagisse ai litigi, mettendo il broncio e girandosi dall’altra parte come un bambino delle elementari. Non voleva sentire ragioni e si raggomitolava, escludendo il mondo. John non poteva soffrirlo. Ciò che non sopportava più di ogni altra cosa era la sensazione di litigare con se stesso, perché Sherlock non si degnava mai di rispondere.
Sarah gli portò il the, sospirando. Si chiese quando avrebbero trovato un accordo sugli argomenti da non toccare per evitare discussioni. Non che ne sapesse molto: John, per spiegarle, si limitava a grugnire con estremo fastidio, come se il solo ricordare lo infastidisse come uno spillo sotto pelle.
“Continuo a sognarlo, sta diventando un incubo!”, cominciò all’improvviso, dopo aver bevuto il the in perfetto silenzio, “Più cerco di non pensarci più lo sogno, e ogni volta è fantastico, e non riesco neppure più a guardarlo in faccia…”
Non le avrebbe detto neppure sotto tortura che c’era anche lei, in quei sogni pazzeschi.
“John, non ci vuole Freud per capire che vuoi andare a letto con lui e che più generalmente hai bisogno di sesso.”
Si rabbuiò, smettendo di mescolare col cucchiaino il fondo della tazzina, un malridotto miscuglio di gocce di the e bricioli di biscotti.
“Non posso averlo, però. Né lui, né il sesso. Vorrei che i sogni sparissero.”
“E io vorrei permettermi un completo di Valentino.”
“Ti odio quando fai così.”
“Non è vero. Senti, prima smetti di pensarci meglio è. Più ti fissi con questa storia, peggio sarà per te.”
John aveva l’impressione che il suo equilibrio mentale fosse come un vaso su un comodino enorme durante un terremoto, un’impressione fortificata da quel chiodo fisso e costante: sempre lì lì per cadere, ma ancora salda per miracolo al legno. Lui stesso era una casa in mezzo ad un tifone.
“La fai così facile, tu.”, borbottò John sprofondando in poltrona. Sarah non immaginava nemmeno cosa volesse dire vivere con Sherlock, in qualsiasi senso.
Lei sospirò, poi sbuffò, poi sospirò ancora come per rimediare. “Lo so, ma non c’è altro modo. Suppongo tu possa convincerlo a fare sesso, ma non sarebbe di certo una soluzione, anzi.”
Sarah ridacchiò vedendolo sprofondare ancora di più, con le gambe strette al petto.
“Dovrei andare a vivere in un altro Stato se

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Lo guardò col sopracciglio alzato, in un’espressione appena confusa. “Mi sembra di averti già detto che non voglio fare sesso.”
John, la cui espressione non era appena confusa ma decisamente sconvolta, le mani che ancora vagavano sulla cintura, rifiutandosi di cambiare posto, lo fissava quasi scandalizzato.
“Te l’ho già detto.”
“Io – io credevo che –”
Sherlock sospirò. “No, non ho paura di fare sesso con un uomo, non ho paura di farmi vedere nudo o qualcosa del genere – seriamente, guardami, ti pare che possa averne paura? No, niente di tutto questo, molto semplicemente non voglio fare sesso. Non sei tu il problema, prima che tu me lo chieda” doveva averlo intuito dalla sua espressione dolorante; stava rispondendo a tutte le sue domande, come se la sua fronte fosse una lavagna luminosa, “non lo farei con nessuno, non voglio farlo con nessuno.”
John si spostò, si sedette sul divano, lo guardò con dolore. I capelli, il collo lungo e bianco, la pelle perfetta e pallida, la camicia stretta attorno al petto, la vita sottile. Le sue gambe sulle spalle, le ossa del bacino tra le mani, la sua schiena su cui passare le dita, le sue natiche esposte, le sue spalle strette.
“John, non è un tuo problema, non è un problema. Non mi interessa il corpo, avresti dovuto capirlo.”, gli disse vagamente scocciato, guardandolo. “Dovresti aver capito come funziono, ormai; non come tutti gli altri. E neppure tutte le relazioni vanno allo stesso modo.”
Continuava a guardarlo, e sentiva di avere un’espressione veramente idiota. Non credeva di aver capito benissimo, ma era sicuro che non sapeva ancora come funzionasse Sherlock. Tutto ciò che era evidente era che avrebbe dovuto solo chinare il capo ed accettare. Lo spiazzava completamente ritrovarsi in una situazione del genere, con un uomo che in qualche modo strano e contorto sapeva sarebbe rimasto il suo compagno che non sembrava interessato a quelle che aveva sempre creduto le più semplici pulsioni umane. Non capiva, né comprendeva. Sapeva che non poteva farci nulla e che quella sarebbe rimasta la loro condizione.
Sherlock lo guardò, chiedendogli, dopo un silenzio che solo a John pesò, se andava in cucina, perché gli era venuta voglia di un budino.

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Quando tornò prestissimo, la mattina dopo, sentì il violino di Sherlock, la sua scia limpida e cristallina, la pace che si infiltrava piacevole. Non poteva non sapere che sarebbe tornato a quell’ora; con un sorriso enorme che cercò di cancellare – no, non voleva dargliela vinta così presto, non di nuovo, anche se sapeva benissimo che avrebbe ceduto prima di un sospiro – presto salì le scale. Lo trovò in piedi alla finestra; non diede segni di averlo sentito entrare, perché continuò a suonare senza battere ciglio. Sul tavolino, le loro tazze identiche, comprate in offerta, piene di the, coi loro nomi scritti sopra con lo scotch di carta. Prese la sua e si sedette in poltrona, stanchissimo.
“Credevo avresti scopato con Sarah.”, disse d’improvviso, mentre John beveva.
Perché Sherlock non si rendeva conto di quanto tutto quel discorso fosse assurdo, di quanto lo irritasse che lo tirasse fuori dal nulla, quando lui nemmeno ci stava pensando? Poi si ricordava che tutto quanto l’essere di Sherlock era irritante, e lui non sembrava curarsene, e che quindi non aveva nessuna speranza.
“Ti ho già detto come la penso.”, rispose con distacco. Si alzò per prendere le due zollette di zucchero per Sherlock, che si scordava sempre di mettere quando era lui a fare il the; una delle scuse per obbligare lui ad occuparsene.
“Sei idiota.”, sbuffò Sherlock, smettendo di suonare, appoggiando il violino sul divano e sedendosi di fronte a lui.
“Lo so.” Sospirò John, mettendogli lo zucchero nella tazza.

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Quel lunedì mattina, quasi tre settimane dopo quel discorso che piano piano cominciava a sfumare dalla testa di John, Sherlock sembrava un bambino capriccioso. Si era svegliato di malumore e non aveva toccato cibo, nonostante tutto fosse a base di zucchero. Aveva borbottato per tutto il tempo in cui aveva preparato le valigie. John sapeva che mancava poco al vederlo puntare i piedi per non muoversi, costringendo un assistente di Mycroft a tirarlo, o a prenderlo su come un sacco.
“Non mi va di andare dalla mamma.”
Sherlock aveva un rapporto strano con sua madre – e il fatto che gliene avesse parlato lo rendeva ancora più strano; era una signora iperprotettiva a cui Sherlock aveva fatto del gran male, nonostante l’amore spropositato che provava per lei, a partire dalla faida fra lui e suo fratello, che la signora Holmes non riusciva a soffrire, e Sherlock sapeva benissimo da che parte pendesse l’ago della colpa. Non era mai stato un figlio diligente, uno di cui vantarsi, e l’aveva sempre fatta vergognare, nonostante lei avesse sempre sostenuto il contrario. “Per favore, chi sarebbe contenta di avere un figlio tossicodipendente che se ne frega della scuola, dei propri doveri e dell’autorità generale? Non hai idea di come ho vissuto da giovane, e anche lei sa circa metà, e tanto le basta.” Aveva sempre, in qualche modo, cercato di fuggire il suo affetto, e nello stesso tempo lo pretendeva continuamente.
Erano anni che non andava a trovarla, che accettava sporadicamente e di malavoglia di sentirla per telefono, senza mai dare segni di vita per primo, ma per il settantesimo compleanno non c’era scampo; fortunatamente non c’era nessun caso interessante al momento, e cinque giorni lontano da Londra non avrebbero significato nessuna crisi isterica. In ogni caso John sapeva che Mycroft aveva preparato una decina buona di piani da attuare appena il suo fratellino avesse pronunciato le fatidiche parole magiche – giro turistico di Oxford, tanto per cominciare, e aveva sentito di un paio di casi molto vecchi che non erano mai stati risolti, e molti altri che riuscivano a comprendere anche la loro madre, a cui sarebbe piaciuto rivedere il figlio più piccolo in azione.
“Devi, ormai hai dato la tua parola.”, sospirò John, aiutandolo a portare le valigie nella macchina di Mycroft, sotto il suo sguardo divertito. “Starai bene.”
“Oxford è noiosa.”
“Per te è tutto noioso. Dalle una possibilità.”
“Già data.”
“Quando?”
“Ora. Lo so già che sarà noiosa, come tutto il resto.”
Roteò gli occhi. “Così non vale. Cerca di divertirti. Non essere così prevenuto, ti divertirai e mi farai rodere il fegato. Mandami un messaggio quando arrivi, d’accordo? Ora sali in macchina, siete già in ritardo…”
Guardò la macchina sparire dietro l’angolo con una tristezza vaga all’altezza dell’ombelico.
Gli arrivò un messaggio dieci minuti dopo.
Sarò perduto senza il mio blogger. – SH

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Aveva chiamato Sarah perché non aveva voglia di cenare da solo e non aveva voglia di altra compagnia se non lei. Era piacevole portare avanti una conversazione in cui entrambi i partecipanti sono sullo stesso livello e, per quanto lui amasse la vita che conduceva, non nominare neppure una volta casi irrisolti di vecchi magnati trucidati aveva un certo suo fascino. Sherlock venne nominato quando arrivò e non un’altra volta. (“Sono arrivato e Oxford è noiosa da morire.”, seguito da un “Non avrà visto che una strada, come fa a dirlo?”) Mangiarono un piatto di pasta e Sarah aveva portato del buon vino con cui innaffiarla, il giusto per conciliare e non abbastanza per annebbiare. Decisero che sarebbero andati a vedere Frankenstein a teatro, la sera dopo, e sul London Eye quella dopo ancora, perché John non ci andava da almeno quindici anni. Giovedì sarebbero andati a mangiare nel quartiere italiano e venerdì si sarebbero sbronzati. L’aveva proposto John, ma Sarah non sembrava convinta, e in realtà nemmeno lui; “Era per fare qualcosa di diverso.”, borbottò. Decisero che venerdì avrebbero ordinato cibo cinese – anzi, no, sarebbero andati di persona al ristorante. Era passato molto tempo, ma guardarsi le spalle non è mai una mossa sbagliata.
Mentre infilava gli ultimi maccheroni in bocca, la guardò e la trovò bella come la prima volta, con uno strano garbuglio nello stomaco fatto di nostalgia e qualcos’altro che somigliava ad un pizzico.
Le mani che aveva baciato e le labbra che aveva leccato, i vestiti che aveva tolto e che aveva lasciato, la carne tenera delle cosce nascosta dai pantaloni.
“Piove!”
Lo squillo di Sarah lo destò; guardò fuori dalla finestra. Gocce grosse come teste di gatto cadevano a velocità impressionante. Era venuta a piedi e non aveva l’ombrello. Guardava il cielo con preoccupazione e una punta di paura. Lo guardò supplichevole – come se ce ne fosse stato alcun bisogno.
“Ovviamente dormi qua. Ti darò un pigiama di Sherlock. Vuoi dormire in camera mia? Io dormirò in quella di Sherlock. Non ti ci faccio andare perché non ho precisamente idea di cosa potresti trovarci, io sono abituato. Non sarebbe bello che ti ritrovassi dita accanto mentre ti metti a dormire.”
Sarah sospirò. “Ovviamente. Grazie mille.”
“Ma di cosa.”, le rispose sorridendo.
Il movimento del polso sottile per riavviare i capelli dietro l’orecchio, il braccialetto finissimo d’oro che scivolava appena.

xxx

Mamma mi ha controllato le braccia.
Perché è preoccupata, non lamentarti.
Sono così annoiato che vorrei spararmi.
Non ci sono muri in casa di tua madre?
Se lo faccio spara lei a me.
Allora trovati qualcosa da fare, Mycroft mi aveva esposto un programma niente male.
Non ho assolutamente intenzione di i programmi di Mycroft.
Sherlock, non credo di poter fare granché per te da dove sono ora. Trovati qualcosa da fare e goditi la vacanza.
Le vacanze sono noiose.
“È Sherlock?”
“Già. L’hai intuito dalla faccia?”
Immaginò di avere un’espressione molto stanca.
“No, dalla rapidità con cui rispondi.”
Era decisamente troppo tempo che non andava a teatro; aveva amato ogni singolo attimo dello spettacolo e, soprattutto, il ritorno di quella familiare sensazione di ammirazione e meraviglia, la magia e lo stupore. Fortunatamente lo avrebbero tenuto su ancora il tempo necessario perché Sherlock lo vedesse. Lo avrebbe amato di certo. Rinunciando a qualche pasto take-away sarebbe riuscito a mettere da parte i soldi per qualche biglietto; lo avrebbe proposto a Sherlock, di certo il teatro non lo avrebbe annoiato e avrebbero fatto qualcosa di diverso assieme. Si mise quel tepore in tasca per non perderlo, ripiegandolo come un biglietto.
Quando torni, andiamo a vedere Frankenstein.
“La prossima settimana porto Sherlock a teatro.”, le disse raggiante, infilando la chiave nella toppa del 221b. Sarah teneva in mano due birre e in viso un’espressione scettica.
“Credi che gli possa piacere?”, gli domandò. In fondo sembrava un’attività così comune, come avrebbe potuto attrarlo?
“Non ne sono sicuro, ma mi sembra il tipo di cosa che potrebbe piacergli. È cresciuto in una famiglia ricca, con interessi da ricchi, è andato spesso all’opera e, sai, conosce l’italiano e altre lingue. Sì, sono sicuro che gli piacerà.”, finì sembrando più convinto che all’inizio.
Quando finirono di bere, mentre discutevano dello spettacolo e dei suoi punti più intensi, con un gorgoglio imbarazzante i loro stomaci ricordarono loro che non avevano mangiato niente; a causa dell’eccessivo numero di ammalati in ambulatorio, avevano fatto appena in tempo a cambiarsi per andare a teatro, senza mettere nulla sotto i denti, e se ne erano completamente dimenticati sulla via del ritorno.
“Pizza?”, suggerì John, prendendo di nuovo la giacca, quando ci furono i secondi rumori di protesta. “Poi ti accompagno a casa.”
Si addormentarono sul divano bianchissimo di Sarah, lei addosso a lui. Il mattino dopo John aveva addosso il suo odore. Quel profumo glielo aveva regalato lui quando stavano insieme da due mesi; doveva esserle veramente piaciuto, se continuava a comprarlo. Esitò un secondo di troppo sui suoi capelli.
Prese il cellulare dalla tasca per controllare l’orario, sospirando di sollievo, e lesse la risposta di Sherlock.
Finalmente una proposta non noiosa.

xxx

Londra dall’alto era meravigliosa come la ricordava; il Parlamento che sembrava così piccolo da tenersi sul palmo della mano, le luci che si riflettevano nell’acqua scura del Tamigi e quelle che creavano una mappa della città, il cielo frastagliato di nuvole blu, le macchine grandi come un’unghia, tutte quelle formichine inglesi e turiste che camminavano.
“A Sherlock non sarebbe mai interessato.”
Sarah sbuffò appena. “È incredibile come tu sia ossessionato da lui.”
“Chi, io?”
“Non fai che parlarne, in qualsiasi momento.”
Lo prese come un rimprovero, e si sentì decisamente imbarazzato. Sarah se ne accorse e rise. “Se a te va bene così, non credo di poterti dire nulla, non fare quella faccia. Almeno non abbiamo parlato del solito discorso.”
“Oh, perché non ci ho pensato. Dev’essere perché mi sono tenuto occupato e lui non c’è.”
“Sicuramente. Beh, meglio no?”
“Già.”
Rimasero in silenzio a guardare Londra salire.
“… sono così ossessionato?”
“Già.”, annuì Sarah con un’espressione che gli ricordò tantissimo Sherlock.
Si arrese all’evidenza.
“Ma suppongo che con un uomo del genere sia normale.”, aggiunse lei guardandolo e sorridendo. Lui ricambiò, trovando estremamente piacevole una scusante del genere, sentendosi meno anormale.
Lo sapeva benissimo, non era possibile vivere con Sherlock e non averne la testa piena.
Dormirono ognuno a casa sua e John ringraziò il cielo. L’aveva sognata – facevano l’amore sul tavolo della cucina e Sherlock li osservava, compiaciuto, ma sparì improvvisamente dopo qualche momento – e sarebbe stato imbarazzante averla accanto a colazione. Controllò il cellulare; era da mercoledì mattina che non trovava un messaggio di Sherlock. Sbuffò e gliene mandò uno lui, domandandogli se fosse ancora vivo o la noia lo avesse accoltellato mentre dormiva. Dopo un minuto gli rispose.
Ho un caso fra le mani, ti spiegherò. Mi sto godendo il viaggio come mi avevi detto di fare tu.
Si chiese se fossero i vecchi casi irrisolti che aveva trovato Mycroft o se l’aura di Sherlock spingesse le persone ad uccidersi fra loro per offrirgli un diversivo. Sarebbe stato bello sentirlo parlare e vantarsi di quanto fosse geniale, un po’ gli mancava; nell’ultimo periodo Londra si era drammaticamente tenuta attorno a delitti banali e classici, e Sherlock aveva la sensazione di soffocare.
La sera, con troppi piatti italiani nello stomaco e troppo alcool in circolo, tornarono a Baker Street ridacchiando. Precipitarono sul divano ridendo più forte, lei sopra di lui. John la annusò dietro l’orecchio; ancora quel profumo. Le baciò la testa.
Chissà se Sherlock mi vedesse, pensò vagamente mentre la sua testa era circondata e piena di nebbia.
Lei alzò il viso e lo baciò, non trovando alcuna resistenza. Caddero addormentati quando le labbra si staccarono, e il mattino dopo non ricordavano niente, ma le dita di John odoravano dello shampoo di Sarah, così come quelle di lei portavano una traccia di lui; si riconobbero all’istante. Fecero finta di niente.
“Faccio un salto a casa a cambiarmi.”, disse lei rapida, mettendosi il cappotto e uscendo senza voltarsi a guardarlo.
Le gambe che uscivano dalla gonna stropicciata, le pieghe attorno alle natiche, l’attaccatura dei capelli dietro il collo. I suoi gemiti e il suo odore e – “Ho davvero davvero bisogno di scopare.”
Chissà se Sherlock…

 

xxx

Tornò ad ossessionarlo, quel pensiero martellante di avere Sherlock sotto di sé, improvviso come un fulmine. Voleva aprirgli le gambe, voleva infilarsi tra le sue cosce, voleva leccare e succhiare e sentirlo urlare, voleva il suo viso contratto e le sue mani a stringerlo, le sue unghie infilate nella carne della schiena, la sua voce scura e traboccante, voleva scoparlo voleva scoparlo voleva scopare. Si sentì di nuovo male, in colpa.
Poi, trovando il muro debole e pieno di minuscole crepe, il discorso di Sherlock si infiltrò come un ruscello; si scoprì terribilmente irritato. Era come se gli avesse detto che non gli interessava particolarmente, come se John o un altro fossero la stessa cosa. Aveva la sensazione di essere poco importante, se si comportava a quel modo. Se Sherlock fosse andato con qualcun altro, se avesse baciato un altro, lui sarebbe scoppiato, non lo avrebbe sopportato. Avrebbe preferito che gli vietasse categoricamente di anche solo pensare di andare con qualcun altro, avrebbe voluto che Sherlock fosse disgustato dall’idea di John che lo tradiva carnalmente; si sarebbe sentito meglio. Si odiò per pensare di averne bisogno.

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Saltò la cena cinese perché, arrivati a venerdì, non avevano la forza di muovere un solo altro passo fuori casa. La signora Hudson, per fortuna, fece loro il favore di cucinare qualcosa.
“Sherlock torna domani?”, gli domandò Sarah, prendendosi le patate.
“Dovrebbe, in teoria.”, le rispose tagliandosi la bistecca, “Non lo sento da ieri mattina, suppongo sia troppo occupato con il caso…”
Sarah lo guardò sconvolta. “Spiegami, va in vacanza e trova un omicidio? E va a risolverlo?”
“Sì, è incredibile vero? Quasi impressionante – no, è inquietante e spaventoso. Però non so nient’altro, non mi ha fatto il favore di scrivere altro. Suppongo me ne parlerà domani, non credo perderà l’occasione di vantarsi.”
“Sicuramente.”
Lì, sul divano dove si spostarono dopo aver mangiato, poteva sentire il battito calmo del cuore di Sarah. Lo conosceva a memoria, come un codice. Tum, tum, tum. Il sangue che correva lungo le vene.
Le labbra appena schiuse, le ossa sottili, le mani curate. Si leccò le labbra, aveva preso il vizio da lui. John abbassò il viso. La baciò improvvisamente, stringendole la mano come per rassicurarla. Tu-tu-tu-tum-tu-tu-tu-tum.
Sherlock entrò e lo vide; John spalancò gli occhi terrorizzato. Sarah lo allontanò, voltandosi verso l’uomo appena sbucato dal nulla.
“Sono tornato prima perché non riuscivo più a reggere. Ovviamente ho risolto il caso.”
Non disse nulla su ciò che gli si parava davanti. Diede l’impressione di non averlo visto davvero. Non sbatté neppure le palpebre. Si tolse la sciarpa, il cappotto, gli lanciò il suo regalo, un anello legato ad una catenina.
Sarah si alzò di scatto e lo guardò per un attimo, prima di uscire di tutta fretta. John capì dal suo sguardo che non ne avrebbero mai più parlato. Le fece un cenno del capo per salutarla e ringraziarla dal profondo. Si alzò anche lui, precipitandosi in camera di Sherlock. I suoi bagagli attendevano fuori dalla porta.
Voleva chiedergli perdono, voleva dirgli che era stato una debolezza, voleva giustificarsi, voleva assicurargli contro ogni evidenza che non c’era nessun altro che amava, nessuno che desiderava. Anche se sapeva che sarebbero state parole inutili – perché a Sherlock non importava assolutamente, non gli sarebbe mai importato – aveva bisogno di lavarsi, di togliere quella piccola macchia che lo avrebbe portato all’inferno.
“Sherlock –”
“Se sei venuto a scusarti o qualcosa del genere, beh, risparmiatelo, mi sembra di averti già detto che non mi interessava che andassi con qualcuno.”
Eppure non lo guardava in faccia. Si slacciava la camicia lentamente, come se attendesse di essere completamente solo per mostrarsi unicamente allo specchio.
“Guardami.”, gli ordinò secco, fissando un punto imprecisato del suo collo.
“Non vedo perché dovrei, so già come sei fatto.”
“Guardami e dimmi che non ti è davvero importato.”
Ubbidì. “Non mi è davvero importato.”
Mentiva. Non sapeva come faceva a dirlo con tanta sicurezza, eppure ne era tremendamente certo – non che ci fosse qualche segno sul suo viso che lo tradisse, era e sempre sarebbe stato un fantastico attore, era impossibile sapere quando recitava e quando era se stesso, quella risoluzione così tanto utile e così spesso odiata – oggettivamente non lo sapeva, eppure John era sicuro che stesse mentendo.
“Quindi potrei baciarla? Potrei andarci a letto, e tu non diresti nulla, non proveresti nulla? E non solo lei, chiunque mi capiti sottomano, chiunque io abbia voglia?”
Sherlock sbuffò spazientito, prendendo una delle valigie e svuotandola per terra. “Sei veramente duro d’orecchi, oppure sei idiota. Presumibilmente entrambe le cose. No, non mi interesserebbe, no, non proverei nulla.”
Eppure mentiva.
“Bene.”; disse John, cercando di darsi un tono. Gli veniva voglia di prenderlo a sberle. “Bene.”, ripeté con distacco. Ma quando appoggiò la mano sulla porta, Sherlock tossicchiò.
“Spero tu non ti sia ammalato a Oxford.”, sospirò John che non aveva nessuna voglia né di ammalarsi né di fargli da balia quando lo fosse diventato lui.
“Non mi sono ammalato, richiamavo la tua attenzione.”
Stancamente, John si voltò, scrutando il suo volto serio.
“Pretendo che non ci sia nessun altro. Non dovrai guardare nessun altro.”
Sembrava ferito; non lo guardava in viso, parlava tradotto in borbottii. John odiò esserne il fautore, ma al contempo ne era felice, perché sembrava aver portato a qualcosa di realmente buono.
“Sono arrivati alla conclusione – non so perché non l’ho fatto prima – che devo assolutamente vietarti di avere qualsiasi tipo di relazione con qualcuno che non sia io. È tutto, puoi andare.”
“Prima posso chiederti perché? Eri tu quello che non era geloso del corpo ma della mente, e non mi sembra di aver usato il cervello per baciare Sarah ma le labbra.”
Nascose perfettamente il sorriso, tossendo quando sentiva le labbra curvarsi pericolosamente.
“Quando baci tutta la tua concentrazione è fissata sull’individuo che stai baciando. L’ho visto prima, quando baciavi Sarah. Hai avuto la mente annebbiata solamente per qualche secondo, è vero, ma quei secondi sarebbero potuti essere cruciali durante un’indagine o qualcosa di simile – e nessuno ti assicura che tu non possa essere attaccato mentre sei a letto con qualcuno. La tua mente non deve mai lasciare spazio a nessun’altra persona oltre me, ti concedo solo gli assassini e le vittime. Sono sicuro che con queste due categorie non avrai a che fare, a meno che tu non sia un necrofilo o un pazzo. Non deve entrare nessun’altro nella tua testa. Influirebbe negativamente su un tale numero di eventi che non posso assolutamente permettertelo. Se invece ci sono solo io, questo non sarebbe di ostacolo e pericolo per nulla, visto che non ho intenzione di venire a letto con te e tutti gli altri contatti fisici sono ridotti al minimo, se non all’invisibile.”
Non riusciva proprio a trattenersi, a quel punto. Sentiva la paura scivolare via. Sorrise enormemente. “È tutto?”
“Per oggi è tutto. Vai a farmi il the. Doppi biscotti, ne ho bisogno, oggi.”
Mentre l’acqua bolliva gli arrivò un messaggio di Sarah.
Com’è andata?
Le rispose con una certa soddisfazione.
È perduto senza il suo blogger.

xxx

Sull’appartamento era calato un silenzio tale che avrebbe potuto tendere l’orecchio per sentire il respiro di Sherlock; ci provò per un istante, sentendosi idiota. Si addormentò tranquillamente come non gli capitava da tempo. Sognò di baciarlo per tutta la notte, solo baciarlo – a colazione, prima di andare al lavoro, tornato dalla spesa, dopo cena, prima di andare a dormire – mentre Sherlock non opponeva nessuna resistenza.

  
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