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Autore: A li    02/08/2011    3 recensioni
[Sesta classificata al contest 'Una storia per una canzone', di Parsifal]
Erano le sette di mattina, il sole cominciava a rischiarare Los Angeles e la sua stessa stanza, ma Charlie piangeva e, sveglio come la sera prima, senza aver dormito un solo minuto, continuava a farsi domande inutili.
Ancora una volta si chiese dove avesse sbagliato, questa volta forte, ad alta voce, tanto da temere che Don l’avesse sentito. Ma si disse che in ogni caso suo fratello non avrebbe risposto, non avrebbe fatto nulla, l’avrebbe semplicemente ignorato come ogni volta, come ogni maledetto giorno della sua vita.

Tre stralci di presente, tre ricordi dal passato; per ricongiungere il legame spezzato di due fratelli che si sono persi da bambini.
Genere: Malinconico, Sentimentale, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Charlie Eppes, Don Eppes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: Hey, little brother
Autore: A li
 
Fandom: Numb3rs
Canzone: Hey Little Brother {Erik Scott Smith
Avvertimenti: One shot
Genere: Malinconico, Sentimentale, SongFic
Rating: Verde
 
Note: Ambientazione precedente alla Prima Serie. Questa storia si è classificata sesta al contest, indetto da Parsifal, 'Una storia per una canzone'; il banner è merito del lavoro di Hiko. Ringrazio in anticipo tutti quelli che leggeranno: se vorrete lasciare un commento, mi farà molto molto piacere.
 
 
 
 
 
Hey, little brother
 
 
 
« Hey little brother…
[Ehi, fratellino…]
 
Don Eppes reggeva la cornetta nella mano destra e la sentiva scottare come se potesse bruciargli completamente il palmo in pochi secondi. La teneva sospesa in aria, a qualche centimetro dall’orecchio, mentre le sue dita fissavano immobili il rilievo della tastiera fosforescente. Il buio era totale e le uniche deboli emissioni di luce provenivano proprio da quella tastiera e da un orologio analogico che da sempre abitava nella cucina del suo appartamento.
La notte era eccessivamente silenziosa, ma Don non poteva accorgersene, perché il suo respiro era forte e strascicato e riempiva le sue orecchie al punto da renderle inutili a percepire qualunque altro suono.
Devo farlo, pensò. Poi guardò il muro, con le sue crepe ben delineate, e seguì il loro corso finché si scontrarono con il pavimento e s’inabissarono là dove non poteva raggiungerle. Allora spostò la propria attenzione sul quadro che campeggiava proprio di fronte al suo viso, un paesaggio freddo e desolato che ancora non riusciva a capire perché gli piacesse: era un Van Gogh, naturalmente non originale, uno di quelli del suo ultimo periodo prima del suicidio. Probabilmente era questo che tanto lo attirava: la sensazione di un uomo sul baratro della disperazione e della follia, che si aggrappa alla pittura come ad un ultimo stralcio di se stesso da consegnare ai posteri.
Don piegò il collo, impercettibilmente, per osservare il quadro da un’altra angolazione; la sua mano, come in risposta, si abbassò verso il piano di lavoro della cucina, abbandonando pericolosamente la cornetta. Don se ne accorse, la riportò su, ma ormai era fatta, lo capiva. Non avrebbe telefonato.
Sospirò – un lungo pesante e interminabile sospiro – e posò definitivamente la cornetta sulla base del telefono, che produsse un inquietante e definitivo clack. Per un attimo il suonò rimbalzò dal piano di lavoro al suo cervello e Don si chiese quante altre volte avrebbe compiuto quello strano rito, quante altre volte avrebbe passato metà della notte in bianco ad ascoltare il ritmo sordo del telefono che attendeva la composizione del numero, a fissare quello strano e lacerante Van Gogh che ora lo osservava di rimando sorridendo per schernirlo. Gli balenò in testa che magari tutto quello sarebbe durato per sempre; ogni volta più soffocante, ogni volta più doloroso, ma non avrebbe mai telefonato, non avrebbe mai salutato con la voce impastata dal sonno, non si sarebbe mai giustificato per l’ora, non avrebbe mai riattaccato soddisfatto. O amareggiato.
Don chinò il capo tendendosi in avanti finché la sua fronte non incontrò il freddo della tela. Chiuse gli occhi. La notte penetrò sotto la sua pelle nuda, lo scosse, lo risvegliò. Non c’erano motivi per rimanere e la stanchezza cominciava a pesargli sulle ossa e sulle palpebre; così si rimise in piedi, abbandonò la cucina e si diresse in camera da letto per dormire le poche ore che gli rimanevano.
In cucina il Van Gogh rimase ad aspettarlo.
 
~
 
When we were growing up
[Quando stavamo crescendo
I said a lot of things that I didn’t mean,
ho detto tante cose che non pensavo,
I tried to make you tough
cercavo di renderti forte
But instead I left you crying and lonely;
e invece ti ho lasciato solo a piangere;]
 
>1980
 
Era primavera. Una dolce primavera piena di profumi, forse troppo intensi e penetranti, che s’infilavano nelle narici e sotto la maglietta, rimanendo impigliati nei vestiti.
Il parco era illuminato da un sole particolarmente splendente, alto nel cielo e puntuale per il mezzogiorno; alcune nuvole bianche temporeggiavano sulle cime degli alberi, che si scuotevano appena nell’aria. La pace regnava in ogni dove, calmando gli animi e concedendo un po’ di tregua alle forze distruttive della natura.
Charlie camminava un passo dietro di lui, seguendo le sue orme una per una, anche quando per farlo doveva saltare perché ancora aveva le gambe troppo corte. Don lo lasciava fare, con una certa irritazione ma senza che questa si facesse troppo vedere; a volte si girava per assicurarsi che Charlie non si fosse perso in mezzo alla gente e ai palloncini che i bambini tenevano stretti tra le mani: sua madre non l’avrebbe perdonato se avesse lasciato indietro suo fratello. A guardarlo Charlie era così fragile e piccolo, diceva lei, e Don doveva darle ragione: Charlie aveva appena quattro anni e con i suoi riccioli che si snodavano intorno al viso sembrava un angioletto di quelli che vedeva sempre a Natale, esposti nei negozi.
Quando finalmente arrivò a destinazione, Don si sentì meglio. Margaret era accomodata elegantemente su una panchina e, come suo solito, sorrideva. Stava chiacchierando con Alan e gli teneva una mano sul braccio, avvicinandosi di più al suo orecchio perché la sentisse meglio. Alan rideva ed era un’immagine che Don si sarebbe ricordato spesso, perché poche altre volte avrebbe visto suo padre ridere così.
«Don».
Margaret lo salutò affettuosamente e gli accarezzò il viso.
«Charlie?», chiese subito dopo.
Don si voltò e quando lo fece Charlie sbucò da dietro una signora piuttosto robusta, con in mano un palloncino azzurro. Sorrideva, stringendo forte il filo del palloncino tra le mani.
Margaret rise, mentre Alan gli assestava alcuni colpi affettuosi sui riccioli, chiedendogli a chi l’avesse rubato. Charlie scosse la testa e affermò che gliel’aveva regalato una signora. Alan e Margaret si guardarono ridendo.
Don li osservò in silenzio finché fu capace di farlo, poi richiamò l’attenzione su di sé.
«Mamma, degli amici mi aspettano al parco giochi».
Non chiese se gli era permesso andarci, sapeva che gli sarebbe stato concesso.
Margaret annuì piano e sorrise. «Divertiti, eh», disse.
Don non le rispose nemmeno, ma cominciò ad allontanarsi. La sua espressione era singolarmente corrucciata, più quella di un adulto che quella di un bambino di otto anni.
Non appena ebbe fatto qualche passo, sentì la voce di Charlie alle sue spalle.
«Mamma, anch’io voglio andare».
Sperò che sua madre gli dicesse di no, ma era un’assurdità perché Margaret non avrebbe mai detto di no a Charlie. E infatti un attimo dopo sua madre lo richiamò indietro, proprio quando aveva sperato di riuscire a sparire in tempo.
«Don, porta Charlie con te».
Charlie lo fissava con quei suoi occhi scuri, consapevoli, e Don non avrebbe saputo impedirgli nulla, non era forte abbastanza. Assentì di malavoglia e lasciò, ancora una volta, che Charlie gli trotterellasse dietro, pieno di quell’ingenuità tipica dei bambini che li fa guardare in alto e osservare il cielo, mentre camminano, invece di fare attenzione ai propri passi.
Don trovò gli amici al parco giochi. Erano alcuni suoi compagni di scuola: Ellen, una ragazza che gli piaceva, bionda e piena di strane lentiggini, Mike, un ragazzino magro e silenzioso, Logan, alto e muscoloso per i suoi otto anni e Karen, sua sorella gemella. Don li salutò sorridendo e diede il cinque a Logan, che lo sfidò subito ad una manche di pallacanestro nel piccolo campo del parco giochi. Sarebbe stata una sfida uno contro uno, una semplice gara di canestri. Don accettò e lanciò un’occhiata ad Ellen, che abbassò lo sguardo non prima di essere arrossita.
Charlie non disse nulla. Non fece caso al fatto che Don non l’avesse nemmeno presentato, era troppo piccolo anche per accorgersene. Si sedette a bordo campo, quando Don e Logan cominciarono a giocare, e restò a guardarli. Le sue iridi si spostavano a destra e a sinistra, in alto e in basso, seguendo il fratello, l’avversario, la palla. Non disse una parola per tutta la partita.
Quando la vittoria fu definitiva – un risultato schiacciante che portava Don in vantaggio di ben dieci punti – e i ragazzi cominciarono a distogliere l’attenzione, videro Charlie. Era ancora lì seduto, ma questa volta aveva aperto un quaderno e stava scrivendo, lentamente, dei numeri. Don non ci fece caso, ma gli altri lo guardarono bisbigliando tra di loro.
«Chi è lui?», chiese Logan.
Don alzò le spalle. «Mio fratello».
Logan scrutò a lungo Charlie prima di rispondere.
«Mia madre ha detto che gli hanno dato degli insegnanti speciali».
Don annuì. «Continuiamo?» Tese la palla verso l’amico, perché la mettesse in gioco.
Ma Logan era concentrato su Charlie e sembrava parecchio interessato. Charlie non li guardava più, pensava solo ai suoi numeri scritti in colonna, anche se con una calligrafia infantile.
Logan corrugò le sopracciglia. «Ma ha dei problemi?»
«No».
«Sicuro? Che fa su quel quaderno?»
Don gli mise la palla davanti agli occhi, precludendogli la visuale. Per tutta risposta Logan lo scostò con il braccio, bruscamente, e si diresse verso Charlie a bordo campo.
«Ehi». Don suonò più minaccioso di quanto volesse, ma comunque Logan non fece caso a lui, anzi, arrivò fino a Charlie e gli si inginocchiò di fronte.
«Ciao».
Charlie non rispose, continuando a scrivere.
«Che fai?»
Ancora nessuna risposta e Logan cominciò a spazientirsi.
«Ehi, ma ci sei? Che stai facendo?»
Dovette alzare un po’ la voce, ma servì a raggiungere l’obiettivo. Charlie alzò gli occhi e sembrò accorgersi solo in quel momento della domanda.
«Faccio calcoli», rispose.
«Calcoli? Che sei, un secchione?»
Charlie gli restituì lo sguardo senza capire. «Secchione?»
Logan lo guardò e cominciò a ridere. Ellen, che stava osservando la scena, si mosse nervosamente sulla panchina su cui si era seduta prima, per la partita. Lanciò un’occhiata veloce a Don, che non seppe come interpretarla.
«Secchione vuol dire che fai sempre i compiti», spiegò Logan.
«A me piace fare i compiti. Mi piacciono i numeri».
Logan rise più forte e gli strappò il quaderno di mano. Era pieno di numeri che non sapeva decifrare. Alcuni erano calcoli, ma altre sembravano equazioni complesse e incomprensibili.
«Oddio», esclamò Logan, alzandosi e porgendo il quaderno agli altri, «Guardate qua, questo è pazzo».
Mike gli diede un’occhiata ma non disse niente, mentre Karen borbottava sottovoce con Ellen, annuendo e facendo chiaramente capire che la pensava come suo fratello.
«Don, ma l’hai visto?»
Don abbassò lo sguardo, evitando Logan, che gli si avvicinava con la sua risata aperta.
«Tuo fratello è pazzo!», esclamò. Poi prese il quaderno e fece il gesto di volerlo strappare.
«No!»
Charlie si gettò su di lui, anche se gli arrivava appena alla coscia, tentando di recuperare il suo quaderno, ma Logan se lo scrollò di dosso con una spinta, che lo fece cadere a terra. Gli occhi di Charlie si riempirono di lacrime.
«Ehi!»
Don si avventò su Logan prima di poterci anche solo pensare. Gli tirò un pugno in pieno viso.
Per un attimo tutti si bloccarono e la stessa Karen smise di bisbigliare. Fissavano Don e Logan come inebetiti; Don si era fermato, mentre Logan si stava coprendo il viso con una mano. Aveva lasciato cadere a terra il quaderno.
«Ma sei scemo? Tu sei pazzo. Pazzo come tuo fratello».
Logan lo fissò con gli occhi sottili della cattiveria più pura, quella dei bambini, e si girò per andarsene, dopo aver pestato con una scarpa infangata il quaderno di Charlie. Karen saltò giù dalla panchina e lo seguì immediatamente, Mike esitò un momento, ma dopo aver fatto un gesto di saluto a Don, le andò dietro, Ellen aveva gli occhi pieni di lacrime e dopo aver guardato più volte sia Don che Charlie, sparì insieme agli altri.
Charlie era ancora a terra, con le guance tutte bagnate di pianto senza che se ne rendesse conto; raggiunse il suo quaderno e lo guardò sconfitto, come se avesse perso ogni speranza. Ma lui era piccolo e quello era solo un quaderno.
«Don», implorò. Lo fece con voce roca, tentando di richiamare l’attenzione del fratello, che gli dava le spalle e da quando gli altri se ne erano andati, non si era ancora mosso.
Charlie gli strattonò una manica, una, due volte, con insistenza.
Alla fine Don si girò. Aveva uno sguardo spento, vuoto, e i suoi occhi erano lucidi – Charlie se ne accorse perché brillavano sotto i raggi del sole.
Don bisbigliò qualcosa che Charlie non capì, poi lo ripeté un’altra volta e un’altra volta ancora finché non risuonò chiaramente udibile nell’aria.
«Perché sei così?»
Don strinse i pugni, li strinse finché le nocche non diventarono bianche. Quando non riuscì più a farlo, si girò e andò via, lasciando Charlie da solo. Non gli importava di quello che avrebbe detto sua madre, non questa volta.
Anche se aveva sentito le parole di Don, Charlie continuò a non capire cosa significassero.
 
~
 
Hey little brother…
[Ehi, fratellino…]
 
L’orologio a muro dell’ufficio fu attraversato da una lievissima vibrazione, prima che la lancetta dei minuti compiesse uno scatto e andasse a posarsi sul numero sette.
Era sera, era sabato, ma l’ufficio era ancora piuttosto animato: agenti e impiegati dalle più varie mansioni si aggiravano come fantasmi tra le scrivanie, con plichi di fogli in una mano e biro nell’altra. Don li osservava senza fare nulla, con la schiena comodamente appoggiata alla sedia e la testa reclinata all’indietro. I suoi occhi erano appena aperti, ridotti a fessure, come quelli di chi sta per addormentarsi.
L’FBI era un luogo molto accogliente per i pensieri, se si aveva la possibilità di fermarsi un attimo. E Don quella sera stava riflettendo che tutti loro erano fin troppo simili a formiche, indaffarate nella loro tana, che qualcuno guardava dall’alto chiedendosi il perché del loro inutile ed eterno lavoro. Ma in fretta scacciò l’improvvisa sensazione di sgomento. Il suo non era un lavoro inutile: se s’impegnava per salvare vite e per assicurare la tranquillità al suo paese, doveva esserne orgoglioso.
Era tanto assorto che non si accorse nemmeno di Terry che gli si stava avvicinando. La vide solo quando già si era appoggiata alla sua scrivania e lo stava fissando con uno sguardo indagatore.
«Ehi», mormorò.
Don alzò la testa e le fece un cenno, senza dire nulla.
Terry sorrise. Non era da lei lasciar perdere, non quando aveva qualcosa da dire.
«Tutto bene?»
Don fece un respiro profondo e rimase in silenzio per un po’, tanto che Terry credette che non l’avesse sentita. Ma alla fine rispose e lo fece con una voce incerta, insolita in lui.
«Non proprio», ammise.
Terry si sporse in avanti per osservarlo meglio. Nei suoi occhi c’era quella sfumatura particolare, intensa, di una persona che sa cosa fare e sa cosa dire. Per questo Don si era innamorato di lei, in passato, perché poteva essere la sua sicurezza dove a lui veniva meno.
«C’è qualcosa che posso fare?», chiese alla fine.
Non disse di aver capito. Forse l’aveva fatto, ma non lo importunò con le sue teorie e non gli sventagliò in faccia le sue capacità intuitive. Gli tese una mano perché l’afferrasse, se voleva. E basta.
Don scosse la testa. «No, mi dispiace. È qualcosa che riguarda solo me».
Terry sorrise ancora, immersa nei propri indecifrabili pensieri, e si alzò subito per allontanarsi. Don la lasciò andare senza trattenerla, perché sapeva che non avrebbe chiesto di più.
«Grazie», mormorò, anche se lei non poteva più sentirlo.
Poi guardò l’orologio e la data che indicava, proprio in mezzo al quadrante. Per un momento gli venne in mente che era assurdo che l’FBI avesse un orologio analogico in sede, quando possedevano i computer più potenti del paese e un orologio digitale per ciascuno. Erano le sette e un quarto e il tempo scorreva silenzioso, di soppiatto, tentando di scivolare via prima che lui fosse in grado di afferrarlo.
Don rilasciò un lungo sospiro, corrugando la fronte e nascondendo il viso tra le mani. Quante altre volte avrebbe lasciato che le lancette corressero veloci superandolo? Quante altre volte avrebbe aspettato affinché il momento passasse e non avesse più occasione di afferrarlo? Quante altre volte sarebbe successo, prima che si decidesse a distruggere il circolo vizioso in cui lui stesso si era gettato?
Era il giorno perfetto, l’attimo perfetto, il momento perfetto per uscirne. Don si alzò dalla sedia di scatto, afferrò la giacca, corse via sotto lo sguardo distratto dei colleghi che continuavano il loro lavoro. Quando fu all’ingresso, fece un gesto all’agente di guardia e si ritrovò fuori, nel buio, nell’odore dell’asfalto degli pneumatici e dell’inquinamento di Los Angeles. Le luci elettriche della città tremavano sfocate attraverso l’oscurità. Don raggiunse la macchina nel parcheggio e vi balzò sopra senza esitare, accendendo subito il motore. Scivolò via in mezzo alle ombre che lo inseguivano, lente, del tutto mute.
Ci volle un solo attimo e d’improvviso si ritrovò all’incrocio che tutte le sere gli si faceva incontro e che da alcuni mesi lo tormentava terribilmente. Guardò per un secondo la strada che conduceva al suo appartamento, poi i secondi diventarono due, tre, quattro, cinque. Don strinse le mani attorno al volante e lanciò un’occhiata al giornale appoggiato sul sedile del passeggero di fianco a lui, al volto in prima pagina, a quei riccioli scuri. Poi tornò a puntare gli occhi sulla strada del suo appartamento, finché non sentì più le dita e nemmeno le mani.
Alla fine, imboccò la direzione opposta.
 
~
 
When we were little
[Quando eravamo piccoli
I did a lot of things that I regret now,
ho fatto un sacco di cose che ora rimpiango,
I was your hero,
ero il tuo eroe
I always found a way to hurt you somehow;
e trovavo sempre il modo di ferirti;]
 
>1989
 
La primavera era sfumata lentamente in estate, il sole si era fatto più caldo e più insopportabile, e nel frattempo erano passati nove anni.
Don camminava sempre davanti, aprendo la strada, e Charlie gli stava dietro come poteva, seguendo le briciole di pane, quasi invisibili, che il fratello abbandonava dietro di sé. Da quel giorno nel parco giochi, Don non si girava più a controllare che Charlie riuscisse a stargli dietro: andava avanti per la sua strada, imboccava scorciatoie, sentieri tortuosi troppo aspri per un bambino che aveva cinque anni meno di lui, senza pensare a nulla, solo chiedendosi dove quel percorso l’avrebbe portato.
A tredici anni, inaspettatamente, – e Don non se ne era accorto perché aveva perso l’abitudine di seguire i suoi movimenti – Charlie l’aveva raggiunto, appena in tempo, con il fiato rotto e le guance rosse per lo sforzo. Si era tirato su, ansimante, e aveva guardato Don con gli occhi pieni di orgoglio ma il fratello non aveva ricambiato il suo sguardo e si era girato da un’altra parte, evitando ogni contatto. Recidendo un leggero legame che aveva resistito fino a quel momento, che Charlie aveva combattuto per mantenere intatto.
 
Era stato il giorno del diploma. Il giorno in cui entrambi erano saliti sul palco allestito nel grande cortile del liceo, vestiti della toga e del classico copricapo, e avevano sventolato nell’aria il pezzo di carta che consentiva loro di cambiare aria, città, vita. Alan e Margaret li osservavano col cuore pesante per l’emozione e la gola annodata, pieni di gioia perché potevano festeggiare i loro due figli nello stesso momento.
Dopo la cerimonia, Don chiese di poter andare con i compagni ad una festa che aveva organizzato Ellen, la sua vecchia conoscenza, anche lei diplomata quel giorno. Lo chiese appena entrato in casa; durante il tragitto di ritorno, in macchina, mentre i suoi genitori non avevano smesso un secondo di fare complimenti ad entrambi – ma soprattutto a Charlie – Don era stato in silenzio, anche quando Charlie gli aveva chiesto esitante se fosse contento. Non aveva ricevuto alcuna risposta: Don aveva continuato a guardare fuori dal finestrino e Margaret aveva riempito il vuoto con le proprie parole imbarazzate.
Quando Don chiese di poter andare alla festa, però, Charlie sperò di essere invitato. Ovviamente lo era, in via ufficiale, perché faceva parte dei diplomati ed era compagno di classe di Ellen, ma voleva che fosse Don a chiedergli di partecipare.
Margaret concesse al più grande il permesso di andare. Charlie, in risposta, guardò fisso il fratello per un interminabile momento. Quel legame sottilissimo che andava svanendo ondeggiò pericolosamente nell’aria, si tese all’inverosimile, gemette. Don ricambiò il suo sguardo, per la prima volta quel giorno, e ne sopportò il peso finché non si voltò sparendo su per le scale.
«Vado a prepararmi».
Charlie restò nell’ingresso accanto a sua madre, senza dire una parola, con gli occhi lucidi fissi sul punto in cui Don era sparito.
Quel legame sottilissimo che ancora teneva si tese troppo, fremette, e si spezzò.
 
Charlie rimase in casa tutta la sera e tutta la notte, dicendo che non aveva voglia di uscire, era stanco e in particolare era agitato per l’attesa della lettera da parte di Princeton.
Era tutto vero. Ma era soprattutto stanco, stanco da morire di inseguire un fratello che non si sarebbe più girato a guardarlo, non dopo quel giorno.
Charlie si chiese cosa avesse fatto di male, dove avesse sbagliato, se lo chiese tutta la sera e continuò a pensarci anche sotto le coperte, nel cuore della notte, fino a quando non sentì Don aprire la porta di casa – dovevano essere le sei di mattina – e scivolare nella stanza accanto alla sua senza fare rumore. Senza dire nulla. Anche al buio non riuscì a chiudere gli occhi, che lasciò spalancati e ciechi a rincorrere i profili familiari degli oggetti, delle sue cose. Ora che ci rifletteva, Don era sempre stato così, un muro impenetrabile di buio e di silenzio attraverso cui non sarebbe mai stato in grado di guardare.
Charlie si sentì pervadere da una rabbia folle, insensata ma terribilmente viva, e nella sua testa si formò la consapevolezza che forse quella notte sarebbe stato capace di fare davvero del male. Ne ebbe paura, tremò, il nodo che aveva in gola risalì nella sua bocca e Charlie cominciò a piangere, anche se non avrebbe voluto, anche se cercò di impedirselo.
Erano le sette di mattina, il sole cominciava a rischiarare Los Angeles e la sua stessa stanza, ma Charlie piangeva e, sveglio come la sera prima, senza aver dormito un solo minuto, continuava a farsi domande inutili.
Ancora una volta si chiese dove avesse sbagliato, questa volta forte, ad alta voce, tanto da temere che Don l’avesse sentito. Ma si disse che in ogni caso suo fratello non avrebbe risposto, non avrebbe fatto nulla, l’avrebbe semplicemente ignorato come ogni volta, come ogni maledetto giorno della sua vita. E mentre quella domanda ancora gli rimbombava nella testa e non accennava a diminuire di volume, a Charlie ritornò in mente quella giornata di nove anni prima, quel sole caldo e quegli alberi del parco, altissimi, che ondeggiavano impercettibilmente al vento. Tutto riapparve chiaro, illuminato da una luce intensa e quasi accecante, il tempo si riavvolse e cominciò a scorrere all’indietro finché non inquadrò suo fratello, il suo sguardo, le sue parole.
 
Perché sei così?
 
Charlie rivide se stesso, un bambino di appena quattro anni, seduto sul bordo del parco di pallacanestro con gli occhi e il viso zuppi di lacrime e la mano che stringeva la maglia di Don e la tirava una, due, tre volte. E Don che non diceva nulla, non lo guardava, continuava a fissare la schiena degli amici che sparivano lontano, lasciandolo da solo. Con suo fratello.
Nel cuore della notte, a tredici anni, con un diploma in mano e il cuore gonfio come quel giorno in cui era un bambino e aveva quattro anni, Charlie finalmente capì cosa significassero le parole di Don.
 
~
 
Hey little brother…
[Ehi, fratellino…]
 
La macchina si spense con un suono brusco, simile a un nitrito. Dopo non ci fu altro, nessun suono, il silenzio si diffuse ovunque nell’abitacolo, completo e impenetrabile. Don ne ebbe un certo timore reverenziale e non osò spezzarlo nemmeno muovendosi. Soltanto nella sua testa i pensieri continuavano ad accavallarsi rumorosamente, impedendogli di prendere una decisione, di scendere e fare quello che avrebbe dovuto fare molto tempo prima. Per un momento pensò a chi con i pensieri doveva convivere tutto il giorno e si chiese come facesse a sopportare quel vorticare intenso e interminabile di parole e cifre. Lui era più un uomo d’azione e non avrebbe scambiato il proprio lavoro per niente al mondo.
Quando i minuti cominciarono a sommarsi gli uni agli altri e le otto si avvicinarono, i pensieri smorzarono il loro rumore ed iniziarono a borbottare appena, in un sottofondo che risultò quasi piacevole. Il silenzio era ancora spesso e da quel nitrito soffocato, non si era più interrotto.
Don chiuse gli occhi e appoggiò la testa al sedile della sua macchina. Si disse che sarebbe stato semplice, avrebbe fatto quello che doveva fare, sarebbe andato via e dalla mattina dopo tutto avrebbe riacquistato la solita sfumatura di tranquilla normalità: non sarebbe cambiato nulla, sarebbe stato indolore.
Ma mentiva a se stesso, il suo cervello gli urlava di smetterla di dire stupidaggini e il suo cuore batteva un po’ troppo velocemente per essere ignorato.
Non sarebbe stato facile e nemmeno indolore. Avrebbe segnato una svolta, che andasse bene o male, avrebbe comunque cambiato le cose. Forse solo nella mia testa, pensò. E probabilmente sarebbe stato così, perché ormai era tutto uguale da tanti anni, da tanto tempo che nemmeno si ricordava quando quella situazione fosse iniziata. Forse era stato a dieci anni, forse a diciassette; forse molto prima, quando era così piccolo da non poter neanche capire.
Sospirò. Sospirò e si disse che continuava a farlo da troppo tempo, che quella sera aveva sospirato più volte che nella sua intera vita. Esagerava, ma non sbagliava di molto.
Il buio fuori dalla macchina non era ancora completo, ma a poco a poco, superate le otto, le cose avevano cominciato a farsi indistinte, confuse, e il sole a nascondersi: ormai diffondeva una luce tanto debole da risultare ridicola in confronto alla forza delle tenebre.
Ma la notte a Don faceva comodo. Era sempre stato così per lui, anche quando aveva sei anni e voleva confessare a sua madre di aver distrutto il vetro di una finestra giocando a baseball in giardino. Il buio gli dava sicurezza e fiducia, gli faceva pensare che forse il suo volto fosse meno visibile e che allo spuntare del giorno le persone non l’avrebbero riconosciuto. Era un pensiero infantile e piuttosto stupido, ma Don vi si ancorava senza rendersene conto e affrontava le sue paure sempre di notte, anche adesso che aveva trentaquattro anni. Don si era sempre sentito una persona forte, ma come diceva Margaret ad Alan, in realtà era molto più insicuro di quel che pensasse.
Alle otto e mezza il sole era completamente sceso e il buio si era fatto sufficientemente spesso. Don aveva le gambe e la schiena intorpiditi, ma non riusciva a pensarci. Continuava a fissare la casa davanti a sé, a qualche metro di distanza, le luci che all’interno erano state accese e il vociare che ne proveniva. Sembravano allegri, lì dentro, sembravano felici anche senza di lui. Per un momento pensò che forse avrebbe fatto meglio a non entrare, a lasciare le cose com’erano, a rinunciare. Ma non ripeté più l’errore che aveva fatto per giorni davanti alla cornetta del telefono, che lo richiamava con quel suono ritmico e ossessivo alla realtà.
Aprì la portiera all’improvviso, sperando di ingannare in velocità anche il proprio cuore e la propria paura, e uscì dalla macchina. L’aria fredda lo fece rabbrividire, si strinse di più nella sua giacca e si sentì uno stupido per aver tagliato i capelli corti proprio d’inverno.
Prima che potesse fare marcia indietro, afferrò la borsa che aveva sul sedile del passeggero, di fianco al quotidiano, camminò fino alla porta d’ingresso, pregò un dio in cui non credeva più di tanto e suonò il campanello.
Sperò, sperò dal profondo del suo cuore, di fare per una volta la cosa giusta.
 
~
 
Hey little brother,
[Ehi, fratellino,
I was cruel and mean to you…
sono stato crudele e duro con te…]
 
>1980
 
Al di là della finestra il giardino era ricoperto da un sottilissimo manto di neve che andava ormai sciogliendosi e i rami spogli degli alberi gemevano sotto il peso della pioggia, che cadeva incessante ormai da qualche giorno.
All’interno della casa l’atmosfera era simile a quella del Natale nelle famiglie religiose: intima e satura di calore, speranza, buoni propositi. Alan e Margaret erano in cucina, mentre Charlie aveva trascinato una sedia fino alla finestra e vi si era seduto, per guardare fuori. Era felice, perché il giorno del suo quarto compleanno era finalmente arrivato.
I suoi compagni di scuola e il suo insegnante personale erano comodamente sistemati attorno al tavolo della sala da pranzo: i bambini giocavano insieme ai loro genitori, mentre il suo insegnante, il signor Barrymore, chiacchierava con una delle mamme, una splendida donna di appena trent’anni.
Charlie si teneva in disparte, osservando a volte gli invitati, a volte il giardino della casa, spostando l’attenzione dall’interno all’esterno senza perdersi una sola informazione. I movimenti delle persone, degli alberi e degli oggetti catturavano i suoi occhi e disegnavano cifre, nella sua mente, che ancora non sapeva interpretare.
Ad un tratto un bambino attraversò correndo la strada e Charlie lo seguì incuriosito con lo sguardo finché non sparì qualche casa più in là. In quel momento, sua madre spense le luci ed entrò nella sala da pranzo cantando con voce melodiosa gli auguri per il figlio.
Charlie sentì il suo piccolo cuore cominciare a battere più forte, anche quando le luci si riaccesero, tutti si unirono in un applauso e la torta fu appoggiata di fronte a lui perché spegnesse soffiando le candeline. Le mamme e gli altri bambini, Alan, Margaret e il signor Barrymore attendevano la sua reazione, ma Charlie esitò, spostando lo sguardo dalla torta al viso di sua madre. I suoi occhi mostravano uno strano smarrimento e l’emozione di poco prima era come soffocata. Charlie si guardò intorno, sbatté le palpebre, allungò la piccola mano verso la maglia di sua madre.
«Dov’è Don?», chiese.
La sua voce era tanto chiara e la domanda tanto sincera, che per un momento tutti rimasero in silenzio. Poi Margaret gli accarezzò i capelli e gli rivolse il sorriso che a Charlie piaceva e che era l’unica cosa in grado di calmarlo. Così la sua domanda si annebbiò e scomparve. Charlie soffiò sulle candeline e la festa di compleanno si concluse in un applauso fragoroso.
 
>1989
 
Il giorno del suo tredicesimo compleanno, Charlie affrontò la sua prima festa a sorpresa. Ormai i suoi amici si erano ridotti a qualche compagno e a vecchie conoscenze dei suoi genitori, ma Charlie sembrava non curarsene e anzi non faceva altro che rinchiudersi in un isolamento sempre maggiore, concentrandosi più sul suo studio della matematica che su qualunque rapporto umano.
Alan ne aveva parlato con Margaret, ma sua moglie l’aveva liquidato con un mezzo sorriso: sembrava non preoccuparsi più di tanto ed era certa che Charlie se la sarebbe cavata benissimo, quando avesse sentito il desiderio di legarsi a qualcuno.
Del resto Margaret era l’unica che riuscisse a capire veramente Charlie, così come Alan capiva lei ed era fiducioso che avrebbe saputo allevare suo figlio nel migliore dei modi.
La festa a sorpresa colse Charlie impreparato, al contrario della maggior parte delle feste a sorpresa. Quando entrò in casa, con la sua borsa in spalla, di ritorno da scuola, la gente – in tutto una quindicina di persone – gridò un eccitato ‘Sorpresa!’ e corse verso di lui ad abbracciarlo. Charlie reagì subito con una freddezza imbarazzata, ma si sciolse presto, abbandonandosi alla bellezza di poter festeggiare in compagnia il suo tredicesimo compleanno.
Margaret aveva realizzato una magnifica torta coronata dell’equazione preferita dal figlio e Charlie si ritrovò a riderne, per quanto fosse pienamente in accordo con la sua vita. La matematica veniva al primo posto, da così tanto tempo che cominciava a non ricordare più quando avesse lasciato da parte la sua vita per abbracciare i numeri.
Quando la montagna fin troppo alta di regali fu scartata, Charlie si accoccolò su una sedia che gli ricordava la sua infanzia, a pochi passi dalla finestra che dava sul giardino; gli altri erano riuniti per una veloce partita a carte, da cui lui era stato bandito dopo aver vinto per ben quattro volte.
Se ne accorse una volta che gli invitati furono scomparsi al di là della porta d’ingresso e fu calato un surreale silenzio: quella sedia così vicina alla finestra era la stessa su cui era stato appollaiato il giorno del suo quarto compleanno, poco prima che Margaret gli portasse la torta. Erano passati nove anni, lui era cresciuto, ma Charlie si ritrovò a riflettere, amaramente, che non molte cose erano cambiate.
Il pensiero attraversò la sua mente prima che fosse in grado di distruggerlo, proprio quando sua madre entrò nella sala e gli sorrise, esausta ma felice che la festa fosse riuscita.
Charlie rispose al suo sguardo e come sempre, non fu capace di escluderla dalla sua testa, che sembrava troppo semplice da decifrare, per lei. Margaret osservò i suoi occhi scuri affondare nel proprio viso, imploranti come quelli del bambino di quattro anni che aveva consolato con un sorriso nove anni prima. Si sentì impotente, per una volta desiderò di non doverlo consolare, desiderò che Don entrasse in casa, dalla porta di ingresso, salutasse e augurasse buon compleanno a Charlie.
Entrambi pregarono in silenzio, madre e figlio, guardandosi negli occhi; sapevano che sarebbe stata l’ultima volta. Dopo, non avrebbero sperato più.
 
~
 
…But hey little brother,
[…ma ehi, fratellino,
I need to say I love you.
ho bisogno di dirti che ti voglio bene.]
 
L’inverno era svanito e ricomparso tante volte, gli alberi si erano vestiti e spogliati, Los Angeles aveva tremato sotto il freddo delle correnti costiere; e nel frattempo erano passati sedici anni.
Charlie era cresciuto, era diventato amico di Larry Fleinhardt, aveva guadagnato il posto di insegnante alla CalSci, aveva incontrato una splendida studentessa di nome Amita ed era arrivato di corsa al suo ventinovesimo compleanno. Con articoli usciti sulle più prestigiose riviste, la Convergenza di Eppes alle spalle, una lista di premi e riconoscimenti tanto lunga da risultare incredibile. Charlie aveva dimostrato di essere un genio e aveva soddisfatto le aspettative di tutti, da Alan al suo primo insegnante delle elementari.
Ma i suoi amici si erano ridotti ancora, fino a potersi contare sulle dita di una mano. Quella sera, in casa Eppes, Charlie festeggiava il suo compleanno con Alan, Larry, Amita e alcuni colleghi della CalSci: in tutto dieci persone, che chiacchieravano e tentavano di riscaldare l’atmosfera, ma che a Charlie ricordavano solo di più sua madre, quando con quel sorriso sorprendentemente dolce tentava di fargli ritrovare la calma.
Margaret era scomparsa e, questa volta, non ci sarebbe stata nessuna torta e nessuna preghiera. Lui e sua madre si erano scambiati una silenziosa promessa quella sera del 1989: non avrebbero più sofferto, ma neanche avrebbero più sperato. Così era stato e Charlie non si ritrovò seduto di fianco alla finestra, a scrutare nel buio del giardino desiderando che una macchina conosciuta parcheggiasse di fronte al vialetto d’ingresso. Per tutta la sera rimase al centro della discussione, partecipò alle partite di poker e di flipper, rise, mangiò e buttò giù anche qualche bicchiere di vino.
Alan lo sorvegliava da un angolo, fingendosi interessato, pronto a cogliere un qualunque segno di smarrimento negli occhi del figlio.
 
Ma quando la porta si aprì e Don entrò in casa, Charlie sentì una fitta e un calore improvviso al centro del corpo, i suoi occhi si spalancarono, il suo cuore cominciò a battere all’impazzata. Nemmeno Alan, nella più assurda delle sue ipotesi, avrebbe potuto prevederlo.
 
With the heart that’s beating inside of you,
[Col cuore che sta battendo dentro di te,
It’s too good to be true:
è troppo bello per essere vero:
You’re more beautiful than anything I’ve seen.
sei la cosa più bella che abbia mai visto.]
 
Per un momento fu come se il tempo si fosse fermato.
Nessuno disse una parola, a partire da Charlie il chiacchiericcio si spense gradualmente finché ripiombò in un silenzio pieno di domande. Gli invitati, da Larry ad Amita, si scambiavano rapide occhiate senza capire, Alan osservava il maggiore dei suoi figli, irreperibile da un anno, con un nodo in gola; Charlie, dalla sua sedia al centro della stanza, guardava il fratello senza muovere un muscolo, con i battiti alle stelle, i pensieri azzerati e la bocca improvvisamente asciutta.
Don ricambiò gli sguardi, evitando le spiegazioni, restando in piedi in quella posizione imbarazzata. Non sapeva cosa dire. All’improvviso si era formato un vuoto incolore, muto, dentro di lui, che gli impediva di fare qualunque cosa. Non osava spostare gli occhi sul fratello: il solo pensiero di incrociare il suo sguardo lo riempiva di un terrore incontrollabile.
Alla fine, però, cedette al proprio istinto e si voltò verso di lui.
Il panico gli si insinuò sotto pelle.
Charlie lo guardava con i suoi occhi scuri aperti, immobile. Aveva un’espressione che chiunque avrebbe trovato sconcertante, di fronte alla quale chiunque avrebbe tremato.
Ma Don riconobbe quello sguardo, quelle labbra tese in una preghiera dimenticata, quell’inferno appena visibile al di là delle iridi. Il bambino che nel 1980 aveva quattro anni, che tirava la manica della maglia di suo fratello per richiamare la sua attenzione, che era stato lasciato indietro mille volte da quel giorno, ora era lì che lo fissava e si chiedeva perché fosse tornato dopo tanto tempo, perché volesse farlo soffrire ancora.
Don smarrì la determinazione in un istante, sentì l’angoscia afferrarlo alla gola e trascinarlo nel baratro di emozioni che per anni si era proibito di provare. La lingua scattò nervosa sul palato, ma le parole non sarebbero arrivate; erano ferme negli occhi di Charlie, si erano esaurite quel giorno del 1980.
E mentre gli invitati si chiedevano cosa stesse succedendo, Don all’improvviso guardò suo fratello, forse per la prima volta da quando aveva compiuto quattro anni, e si rese conto che nel frattempo era cresciuto, era diventato un uomo. Il cuore cominciò a battere accelerando, un passo alla volta; Don dischiuse le labbra senza accorgersene e pensò che Charlie fosse bellissimo, forse la persona più bella che avesse mai visto. Lo trovò unico, prezioso, si chiese come avesse fatto ad ignorarlo per tutto quel tempo, come avesse fatto ad essere tanto cieco di fronte alla verità. La propria stupidità lo riempì d’angoscia, di incredulità.
La sua gola si riaprì, i pensieri tornarono a fluire prima timidamente, poi aggrovigliandosi ed esplodendo.
 
But the man you’ve grown up
[Ma l’uomo che hai cresciuto (in te)
And you have become
e che sei diventato
Since you were young…
da quando eri piccolo…]
 
«Ciao», mormorò.
 
Charlie non rispose, nessuno rispose.
Alan fu il primo a reagire, si alzò in piedi e raggiunse Don, ancora fermo davanti alla porta d’ingresso aperta. Senza mostrare il minimo segno dell’emozione che lo pervadeva, gli tolse la giacca e andò ad appenderla, non prima di aver presentato il figlio agli altri invitati.
Charlie non disse nulla.
Rimase inchiodato al proprio silenzio; nessuno capì perché con nessuno Charlie aveva parlato di Don, non fino a quel momento.
Il dolore gli bucava il petto, gli lacerava il fisico come se fosse stato materiale, come se potesse guardare dentro la propria pancia e trovarvi le viscere fatte a pezzi.
Ad un certo punto il dolore di vedere Don lì, in quella stanza, che parlava con gli altri come se nulla fosse successo si fece tanto intenso che Charlie non riuscì più a sopportarlo.
Tremò impercettibilmente, mormorò qualcosa e si alzò dirigendosi in cucina. Alan gli lanciò un’occhiata ma lo lasciò andare; Charlie camminò fin troppo velocemente e quando fu nella stanza, si chiuse la porta alle spalle e vi si appoggiò scivolando fino a terra, col cuore in gola e i battiti che gli risuonavano violenti nelle orecchie, assordandolo.
Non aveva più pianto dalla notte del diploma e si costrinse a non farlo nemmeno in quel momento.
Pensò che quando sua madre era morta, Don si era fatto vivo per qualche giorno e poi era schizzato via di nuovo, a nascondersi, a scappare da lui. Charlie non aveva alcun ricordo di quei giorni, trascorsi chiuso nel proprio garage, l’assenza di Don cominciava da quel giorno al parco, nel 1980 e durava in linea continua fino a quel momento, fino al suo ventinovesimo compleanno.
Matematicamente le possibilità che Don si rifacesse vivo erano nulle, le aveva calcolate e ricalcolate così tante volte da conoscere a memoria i risultati. Non poteva credere di essersi sbagliato. Non poteva credere che Don, insieme alla sua felicità, volesse portarsi via anche l’ultima cosa che gli rimaneva: la sua matematica.
 
Don entrò in cucina un’ora dopo, quando riuscì a liberarsi dagli altri invitati curiosi di conoscerlo, di capire fino a che punto fosse simile al fratello.
Trovando la porta chiusa aveva bussato due volte, ma non aveva ricevuto risposta, così si era sentito autorizzato ad entrare.
Aprì la porta quel tanto che bastava a far passare il suo corpo, si intrufolò nella cucina e si stupì di non trovarci nessuno; fece per tornare indietro, ma fu allora che vide Charlie, di fianco alla porta, disteso sul pavimento freddo e profondamente addormentato. Aveva un’espressione curiosa, le sopracciglia contratte, una smorfia di sofferenza evidente.
Don si inginocchiò di fianco a lui e gli appoggiò una mano sui riccioli. Charlie si mosse sotto il suo tocco, sbatté le palpebre. Quando lo riconobbe si tirò su a sedere e scacciò la sua mano con un movimento istintivo, da animale braccato.
Don continuò a guardarlo senza dire nulla, perché non riusciva a trovare nessuna parola che con la propria intensità potesse descrivere quello che provava. Erano tutte lettere messe in fila, senza significato, senza identità. La sua esigenza di condensare in una frase anni di solitudine e l’improvviso lacerante rimorso era destinata a rimanere insoddisfatta.
Charlie, da parte sua, restava in silenzio, seduto a terra. Nella sua testa il dolore aveva lasciato il posto alla rabbia, forte, accecante; il suo respiro si era fatto lento e misurato.
 
«Ti ho portato questo».
Don lo disse esitante, porgendo a Charlie un pacchetto che aveva tenuto in mano fino a quel momento. Era una scatola nera, anonima. Charlie la guardò per un momento, ma non tese nemmeno un dito per prenderla. Si alzò in piedi evitando il suo sguardo e si voltò, gli diede le spalle, afferrò la maniglia della porta per uscire.
Don reagì d’istinto.
«Aspetta».
Gli posò una mano sulla spalla, per trattenerlo, perché sentiva di dovergli ancora mille spiegazioni, mille scuse. Perché voleva guardarlo ancora.
 
Charlie reagì pieno dello stesso istinto.
Si voltò di scatto, prima che Don potesse rendersene conto, e gli si gettò addosso, picchiandolo con pugni che non aveva mai tirato in vita sua, spingendolo indietro, colpendo in modo confusionario, ad occhi chiusi.
Sentì la rabbia pervaderlo, il dolore distruggere le barriere in cui l’aveva rinchiuso per venticinque anni. Ripensò a sua madre, al suo sguardo gentile ma sofferente, alla morte che l’aveva colta senza poter vedere il suo figlio più grande, agli anni che aveva passato chiuso a studiare, a quelli che aveva passato a guardare suo fratello giocare a baseball in giardino, desiderando di essere come lui.
Mandò a segno il primo colpo, ma dopo qualche secondo Don lo immobilizzò, bloccandogli le braccia e spingendolo contro la porta per fermarlo.
 
Don lo guardò negli occhi, con uno sguardo smarrito, spaventato e Charlie sentì di detestarlo, perché non aveva il diritto di guardarlo così, perché invece di picchiarlo avrebbe voluto abbracciarlo, ma lo voleva fare da venticinque anni, da quando lui l’aveva abbandonato a bordo campo, in quel parco giochi nuovo di zecca, con il suo quaderno scarabocchiato e la faccia bagnata di lacrime.
Scoppiò a piangere.
Don lo strinse a sé, senza pensare a nulla, senza riflettere se ne avesse il diritto o meno, con il cuore che batteva ora regolare, lentamente, in modo rassicurante.
Charlie ascoltò quel battito, lo ascoltò a lungo, sforzandosi di non pensare, per una volta, di non analizzare tutto con la propria razionalità, perché non sarebbe servito, perché non c’era razionalità in quel suo ventinovesimo compleanno.
«Ehi fratellino».
Il sussurro di Don lo fece rabbrividire, a contatto con le sue orecchie e i suoi capelli.
«Ti voglio bene».
 
I just want you to know that,
[Voglio solo che tu lo sappia,
Want you to know that.
voglio che tu lo sappia.
I just want you to know that…
Voglio solo che tu lo sappia…]
 
Charlie si abbandonò a quelle parole, completamente, senza condizioni.
Decise di crederci, anche se la sua matematica gli urlava che non c’era la minima possibilità che fosse vero, che non c’era mai stata. Ma Charlie non era un numero, non era un’analisi dettata dalla statistica.
E c’era sempre quella frase che gli tornava in mente, che ogni volta gli permetteva di ritrovare la strada anche quando finiva per perdersi.
 
Strano, forse; improbabile, certo. Ma impossibile, mai.
 
Hey little brother,
[Ehi, fratellino,
I was cruel and mean to you,
sono stato crudele e duro con te,
But hey little brother,
ma ehi, fratellino,
I need to say I love you.
ho bisogno di dirti che ti voglio bene.]
 
 
FINE
 
 
---
 
Note finali:
- Non conosco la data del compleanno di Charlie, ma ho immaginato che fosse d’inverno.
- Nella prima serie, datata 2005, Charlie dice di avere 29 anni, perciò dovrebbe aver avuto 4 anni proprio nel 1980 e tredici nel 1989; inoltre spiega che Margaret, sua madre e madre di Don, è morta da un anno.
 
 
A presto,
Ali :]
   
 
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