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Autore: Silvar tales    04/08/2011    7 recensioni
Lui si perdeva spesso.
Anche se non lo avrebbe mai ammesso, però, questo suo continuo smarrire la via non gli dispiaceva affatto, perché a volte vagare senza una meta prestabilita gli offriva la possibilità di capitare in luoghi parecchio interessanti che, intestardendosi su un'unica direzione, non avrebbe mai trovato.
Era così che aveva trovato la casa sul direzionale, e il suo bizzarro custode.
[Seconda classificata a parimerito al "Storie Edite Contest" indetto da Mokochan]
Genere: Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Akasuna no Sasori, Sorpresa
Note: AU, Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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La Casa sul Direzionale

Il collezionista di città




Lui si perdeva spesso.
Si perdeva tanto frequentemente da vergognarsi del suo nome di viaggiatore.
Si metteva in marcia, infilando nella malconcia sacca a tracolla pochi viveri di veloce e facile consumo, alcuni vecchi almanacchi che Dio soltanto sapeva quanto potevano essere datati, un taccuino dalla semplice copertina nera munito di pennino e calamaio - probabilmente era l'unico ad usarli nel duemiladodici, dove una penna a sfera costava la metà di una ricarica d'inchiostro - e vari oggettini di scambio di grande valore e pregio che fabbricava lui stesso, e che spesso molti rivenditori accettavano in cambio di denaro o altri articoli.
Tornando sul discorso precedente, lui era un tipo che si perdeva spesso, e con una facilità tale che sembrava facesse di proposito. Questo non perché una mappa, un navigatore portatile o una semplice bussola fossero troppo dispendiosi per le sue finanze, ma perché aveva un pessimo senso dell'orientamento - forse uno dei peggiori in assoluto - ma, nonostante ciò, si ostinava a fare affidamento solo e soltanto su di quello. Anche se non lo avrebbe mai ammesso, però, questo suo continuo smarrire la via non gli dispiaceva affatto, perché a volte vagare senza una meta prestabilita gli offriva la possibilità di capitare in luoghi parecchio interessanti che, intestardendosi su un'unica direzione, non avrebbe mai trovato.
Era così che aveva trovato la casa sul direzionale, e il suo bizzarro custode.
Quell'arroccamento di mattoni, ordinati e dipinti in vecchio stile francese, era situato nel bel mezzo di un incrocio stradale con tanto di semaforo, frequentato ogni giorno da centinaia di vetture inquinanti e rumorose. Eppure, benché si trovasse in un punto - in apparenza - facilmente localizzabile e raggiungibile, non era mai riuscito ad arrivarci volontariamente; neanche se, una volta svoltato l'angolo, provava a tornare sui propri passi: gli sembrava di arrivare nello stesso identico incrocio, ma al posto della casa c'era una stazione di rifornimento, o ancora la caffetteria di un hotel, o ancora un vicolo cieco.
Così si convinceva di essersi perso di nuovo e ricominciava daccapo il suo viaggio, scegliendo come meta la prima città che gli veniva in mente guardando le nuvole, o le stelle, anche se alla fine arrivava sempre da un'altra parte.
Era davvero un mistero.
Forse era l'enigma più irrisolvibile in cui si fosse mai imbattuto.
Ma d'altronde, il mondo era grande e vario, e lui era abituato ad ogni tipo di stranezza.
Anche quella sera, la sera del dieci di luglio precisamente, aveva bivaccato nella vegetazione sufficientemente folta del parco urbano di una cittadina sconosciuta. Questa volta non sapeva davvero in che razza di luogo fosse capitato, neppure in quale nazione dato che si trovava vicino ai confini di Austria, Germania e Svizzera e tutti i cartelli e gli spot pubblicitari erano scritti in tedesco moderno. Dovunque fosse capitato, il posto non gli dispiaceva affatto: la cittadina era pulita e ordinata. Perfino nel parco dove aveva fissato la sua postazione notturna, benché fosse uno squallido spazio verde di periferia, non c'era traccia di sporcizia, particolare che proprio per il suo essere raro, apprezzava.
Aveva legato le estremità di quel tendone di stoffa sintetica che usava come riparo ai tronchi di due poderosi alberi.
L'interno del suo modesto rifugio era scarsamente illuminato da una flebile luce, emessa da una lanterna a petrolio - altro aggeggio d'antiquariato che probabilmente molti ne ignoravano perfino l'esistenza. Un angolo della tenda era reso più confortevole (se di comfort si poteva parlare) da alcuni cuscini variopinti, che a una prima occhiata potevano sembrare belli, se non ci si soffermava sullo strato di polvere incastonato nella trama del tessuto, come se ne facesse parte.
Di quello stravagante arredamento facevano parte anche innumerevoli manufatti, sistemati in scaffali improvvisati, talmente numerosi e vari da risultare impossibili da contare e classificare.
Tra questi vi erano assurdi carillon a molla dal verso stridulo, inesistenti conchiglie unite a formare ornamenti di forma impossibile da indossare, flauti ed altri strumenti a fiato costruiti di legno intarsiato che, invece di fischiare le note della scala musicale, imitavano il verso di sconosciuti animali.
E a proposito di animali, si poteva davvero dire che avesse una passione smisurata per gli animali, per le bestie, per gli esseri muniti di zampe, pinne o ali.
Fermi, immobili.
Pronti a decorare la mensola di un caminetto che mai aveva posseduto.
Pronti a stuzzicare la curiosità di una donna che mai aveva desiderato.
Bestie impagliate.
Si poteva davvero dire che, riguardo a questo genere di cose, lui avesse un gusto sadico e una vena malata, se non addirittura malvagia.
Li collezionava.
Animaletti e bestiole che appartenevano ad ogni luogo in cui era stato; li prendeva come fossero souvenir e li costringeva ad esprimere il loro punto di morte per l'eternità, o quasi.
Per quanto lui si elogiasse come un artista migliore di quello che effettivamente era, la sua qualità - o ossessione - principale era senza dubbio il suo essere conservatore, e non c'era certo modo più efficace per definire in una sola parola tutta la sua personalità.
Parlando in questi termini, il suo aspetto, il suo nome e la sua età, come anche le sue origini, avevano ben poca importanza, anzi, diventavano del tutto irrilevanti.
Comunque, si chiamava Sasori ed era un ragazzo, molto probabilmente non contava nemmeno ventitré compleanni.
Dal nome si sarebbe detto di origini nipponiche, eppure era nato nella coloratissima urbs di Norvegia: Bergen.
A coronare il tutto, i suoi capelli di un improbabile rosso scuro e i suoi occhi castano chiaro, così come anche il suo profilo dai tratti fin troppo fini, non lasciavano indovinare nessuna delle due origini.
Un bimbo nato da una famiglia multietnica, uno strano fenomeno di diversità genetica, una bugia del suo passato? Chi poteva dirlo.
Quello che si poteva affermare con certezza era che Sasori fosse un ragazzo particolare, diverso in modo incredibile dai suoi coetanei e, soprattutto, solo al mondo.
Era per questo che il mondo intero gli apparteneva.
Era per questo che non era cresciuto e vissuto all'interno di una bolla di costumi, tradizioni, mentalità, ed era per questo che sapeva guardare con occhio alieno qualsiasi emisfero visitasse.
Nessun posto gli era familiare, come nessun posto gli era straniero.
Era questa la caratteristica principale che lo distingueva dagli altri viandanti.
Non aveva propriamente una lingua che padroneggiava meglio delle altre. Se proprio avesse dovuto scegliere, avrebbe detto l'inglese che, fortunatamente, nel suo paese natale era importante quasi pari al linguaggio corrente. Dopo l'inglese - che già di per sé toglieva qualsiasi problema di comunicazione - conosceva meglio di tutte il francese, ed era anche la lingua in cui più amava esprimersi. Riteneva infatti che rispecchiasse in modo assoluto la sua personalità, l'essere dolce, sensuale e ingannevole. Illusionista.
Parlava inoltre un po' di tedesco, un pizzico di spagnolo - che di conseguenza l'aveva spinto ad imparare anche il portoghese e l'italiano -, qualche parola in russo e gran parte del vocabolario giapponese.
Questa sua dimestichezza con le lingue, inoltre, gli aveva permesso di stringere parecchi legami con la gente locale, trovando quasi sempre l'individuo che cercava, per poi catturarlo.
Perché non si poteva certo dire che Sasori fosse un ragazzo a cui si poteva stare indifferenti. Aveva davvero un bel visino e dei tratti speciali che sembravano fossero disegnati con un pennello di precisione, per non parlare degli occhi, grandi, acquosi, di un intenso color cioccolata.
La sua particolarità trovava il culmine nella sua predilezione per il sesso maschile.
Specialmente ragazzi di bell'aspetto, e con una punta di femminilità.
Seminava in giro storie d'amore, senza mai però raccoglierne i frutti, naturalmente. Non solo per suo volere o per sua indole, ma anche per la sua natura errante.
A sua stessa insaputa del come potesse accadere, riusciva a fare innamorare e a portare nel suo letto uomini e ragazzi che neppure sapevano il suo nome.
In alcune città si era già guadagnato la fama di rubacuori, ma inutile dire che con ogni amante che stava giocava soltanto, soffiando falsi sentimentalismi per gettare fumo negli occhi.
Fumo che lasciava sempre una traccia dolciastra sulla lingua. Sulla pelle. Tra i capelli.
Sasori scoprì ben presto che l'amore in ogni paese si faceva in modo sempre diverso, di conseguenza aveva imparato tanti modi diversi di farlo.
Conosceva qualsiasi stato d'animo, qualsiasi tonalità di sospiro, qualsiasi punto nascosto, qualsiasi zona erogena e, non si sa come, condizionava a tal modo il suo occasionale compagno da essere capace di portarlo all'orgasmo con un semplice bacio - e con qualche sconcezza mal trattenuta tra le labbra.
Si poteva quasi definire un esperto in materia, anche se non aveva mai sperimentato il godere dell'altro sesso, lo considerava quasi un affronto.
Questo era forse il suo lato più oscuro ma che, in quanto tale, difendeva con fierezza.

Appena finito di sistemare la tenda, si sedette sul piccolo tappeto colorato sistemato ad anticipare l'entrata del riparo, lasciando come di consueto la luce interna accesa. Intorno a sé camminavano avanti e indietro cavalli a dondolo in miniatura, di un color avorio; pezzi di vetro di colori brillanti, che gettavano sul suo viso macchie di luce variopinta; trottole intarsiate di vecchi bottoni e dischetti lucenti che, se veniva premuto il bottone giusto, si aprivano meccanicamente e si trasformavano in carillon.
Questi vari pezzi di oggettistica erano posti tutti intorno a lui, quasi come volesse esporli per venderli. Ma di certo lui non li avrebbe ceduti per pochi spiccioli a turisti eccentrici o bambini viziati che volevano mettere le mani su tutto ciò che vedevano. Questo non perché fosse eccessivamente attaccato al denaro, ma solo perché provava un'immensa gelosia e un orgoglio di retroscena per le sue creazioni.
Sapeva che venderle a un certo tipo di persona avrebbe significato vederle rotte, buttate nella spazzatura o nel dimenticatoio non appena il bambino se ne fosse stufato, non appena gli ipotetici turisti avessero smesso di mostrarlo a parenti e amici come fosse un qualunque ricordo.
Anche se non era prepotente ed egoista a tal punto da farlo intendere apertamente, Sasori in cuor suo avrebbe voluto vedere ognuna delle sue opere esposte nella più prestigiosa delle vetrine, dove in tanti ogni giorno avrebbero potuto stupirsi del suo talento.
Ma non era tanto sognatore e utopico da credere possibile l'avverarsi di ciò. Sapeva bene che ormai era troppo tardi per iniziare a porre i mattoni di un colosso. E sapeva bene, nonostante ciò lo rammaricasse parecchio, di potersi accontentare della sua posizione attuale.
Così, seduto davanti alla sua umile casa, guardava i passanti sorridendo loro con aria di superiorità, con un braccio appoggiato in bilico sul ginocchio alzato.
“Come va ragazzo?”
“Oggi meglio del solito”.
“Sei un artista anche tu?”
“Sì, chiamami artista”.
“Siamo sulla stessa lunghezza d'onda, allora. Leggi il mio libro”.
Gli veniva porto un piccolo fascio di fogli stampati.
Disgustoso.
Sasori voltò la testa e con la stessa fece cenno di no, irritato.
Quel tizio l'aveva avvicinato solo per parlargli di sé.
Odiava quel tipo di gente meschina e falsamente adulatoria.
Parecchi incontri dopo, tutti più o meno insoddisfacenti, decise di spegnere definitivamente le luci e mettersi a dormire.
E nel dormiveglia, venne invaso dal rimorso per aver accettato di dar via uno dei suoi oggettini in cambio di una carta geografica.
L'indomani sarebbe partito al più presto, diretto come ogni volta verso un enorme punto interrogativo di gomma piuma.


*




Non si era mai capacitato del fatto di come lui, sprovvisto di qualsiasi mezzo di trasporto, riuscisse a raggiungere in breve tempo luoghi molto distanti tra loro.
Era una settimana che viaggiava, con l'aiuto di qualche autostop - doveva ammetterlo - che gli avevano regalato anche un bottino proficuo.
Un giovane ragazzo biondo sulla ventina, e un altro dai stupendi occhi verdi, con una dote speciale.
Tralasciando le sue avventure amorose, era una settimana che viaggiava, e aveva oltrepassato due frontiere.
E ora si trovava alle porte di Siviglia.
Storse il naso, in reazione alla vampata di calore che l'accolse, quasi in concomitanza con la sua entrata in città.
Quello che più odiava di quel clima, erano i negozi lungo i viali che se ne approfittavano per creare al loro interno delle vere e proprie ghiacciaie.
Ma non avrebbe mai ceduto a un ricatto del genere. Qualunque cosa, piuttosto che entrare in quei luoghi così frivoli che pullulavano di merce scadente e banale, priva di qualsiasi tocco creativo.
D'altronde, ormai aveva preso l'abitudine di intensificare i suoi viaggi nel periodo estivo, per cui non poteva evitare in nessun modo tentazioni simili.
D'inverno si stancava in fretta, per ovvie ragioni; inoltre, era molto più demotivato.
Non era mai riuscito ad incontrarla, dal momento in cui calavano i primi freddi al momento in cui cadeva l'ultimo fiocco di neve.
Anzi, doveva ammettere che quella strepitosa residenza gli mancava davvero molto.
Ma per il momento, l'unica cosa intelligente da fare era non pensarci, e camminare disinvolto lungo le vie della cittadina; quando una cosa si cerca con tanto ardore e struggimento, non c'è possibilità di trovarla, ma se solo si resta per un po' disinteressati e senza grilli per la testa, ecco che questa riappare, senza preavviso e in un posto che non vi sarete mai immaginati.
Finì di appuntare quest'ennesimo saggio insegnamento di vita sul taccuino, imbevendo con non poca difficoltà la penna d'inchiostro.
Una volta portato a termine l'arduo compito, alzò soddisfatto la testa a rimirare l'imponenza della cattedrale che lo sovrastava.
Era già stato a Siviglia, e ricordava con una certa nitidezza quell'edificio vertiginoso dalle alte torri.
Ricordava anche, con ancor più nitidezza, le orde barbariche di piccioni che tenevano in assedio quella bella città. A quanto pare non si erano sfoltite molto, osservò critico notando la fontana piena di penne, e infestata dei rispettivi proprietari intenti a bagnarsi le ali, e a cercare un poco di frescura.
Poteva tranquillamente dire di odiare quei volatili proliferi e molesti, e che li avrebbe preferiti molto di più immobili e inchiodati a un piedistallo, ad aumentare la sua pregiata collezione.
Scacciando questi inopportuni pensieri, continuò a camminare per le vie strette, cercando l'imboccatura del parco. Fortunatamente, la memoria continuava a non tradirlo.
In un battibaleno si trovò immerso in un discreto refrigerio, all'ombra dei frondosi alberi che popolavano il parco di Siviglia. Si adagiò su una panchina in pietra, scaricando su di essa tutto il peso che si recava appresso; si scrollò di dosso il sudore bagnandosi il collo e le tempie con l'acqua di una fontana, munita della manopola di apertura.
Un bastardino, scodinzolante e felice, aveva avuto la sua stessa idea. Corse ansante fino alla fonte di frescura, e si piombò sotto il getto d'acqua, sfoltendo l'enorme volume di pelo che gli gonfiava il corpo.
Non doveva essere per nulla simpatico portare una pelliccia in estate, pensò Sasori nel mentre che si allontanava dalla fontana per non essere bagnato dalla testa ai piedi.
E, non appena cambiò visuale, ciò che vide provò non poco il suo infinito autocontrollo.
Due di quei pennuti immondi stavano rovistando con il becco dentro la sua tracolla, in cerca probabilmente di cibo, non di statuine intagliate.
Uno riuscì a scappare in tempo, l'altro, aveva firmato la sua condanna a morte.
Si accertò di essere solo, per quel breve tempo che gli serviva.
Sbriciolò un pezzo di pane che aveva recuperato dallo zaino, ormai vecchio e rinsecchito.
L'incauto piccione zampettò fino a quella merendina che gli veniva gentilmente offerta, e iniziò a beccare la mollica.
Per poco ancora, finché Sasori non richiuse le dita attorno al suo corpo piumato, facendo pressione sotto l'allacciatura delle ali.


*




Aveva ceduto.
Aveva acquistato un biglietto del treno di sola andata, scegliendo una destinazione a caso sul display del distributore automatico.
Non appena la macchinetta aveva sputato quel rettangolo di carta, aveva scoperto la sua sorte: Amsterdam, ore dieci, binario tre.
Un insolito gelo gli pervase la spina dorsale, non appena lesse la destinazione; non sapeva esattamente a cosa fosse dovuto. Ma sapeva che aveva qualcosa a che fare con un ragazzo, un ragazzo di cui ricordava a malapena il viso, ma di cui aveva ben fissa l'immagine degli occhi. Due occhi inquietanti, di uno strano colore.
Quelli li ricordava certamente bene; due occhi da gatto, che sembravano brillare anche nel buio. Ma era meglio non farsi perseguitare da questi pensieri.
Intanto, doveva capire come fare a salire sul treno, ma purtroppo nemmeno questa si rivelò un'impresa eccessivamente impegnativa.
Un controllore, vedendolo spaesato, gli chiese di mostrargli il biglietto, e lo indirizzò verso il vagone giusto.
Quella del viaggio fu sicuramente una brutta esperienza, per Sasori.
Intanto, decise che avrebbe preferito mille volte il caldo bollente e naturale di luglio, a quell'orrendo vento gelido del condizionatore; non avrebbe mai immaginato di doversi vestire con una maglia in più.
Inoltre, odiava quella soffocante vicinanza con la gente. Soprattutto con certi vecchi aspri che pretendevano di dormire in tutto quel chiasso, o con certi mocciosi piantagrane che volevano stare vicini al finestrino, anche se questo avesse comportato mobilitare l'intero vagone.
Odiava anche le occhiate che spesso e volentieri gli venivano rivolte, probabilmente a causa delle borse logore che si portava appresso, o dei capelli spettinati che gli campeggiavano in testa.
Cercò con tutto se stesso di ignorare gli sguardi e il chiacchiericcio, e prese ad appuntare sul suo taccuino le cronache del suo primo viaggio in treno.
Naturalmente, anche l'antiquata penna e il calamaio che estrasse dalla tracolla aiutarono a concentrare l'attenzione dei presenti su di sé.
Se solo ci fosse stato un ragazzo, un ragazzo carino, tra tutto quell'ammasso di plebaglia, avrebbe avuto almeno un lato positivo cui aggrapparsi in quel trambusto.

Ogni volta che faceva un passo, era convinto che non sarebbe più riuscito a farne un altro.
E invece, ancora il piede destro si pose davanti a quello sinistro.
Continuava ad andare avanti, come un morto, in mezzo alla coltre di neve e nuvole.
Era immerso nello squallore della periferia di Mosca, eppure si era perso.
Si era perso in quella morsa invernale, che presto l'avrebbe ucciso.
Era una certezza matematica.
Cominciava già a perdere sensibilità sui piedi, bagnati e ghiacciati, riparati solo dal tessuto poroso delle scarpe.
Le mani, protette unicamente da un leggero strato di stoffa, avevano già ceduto.
Si guardò intorno per la centesima volta, e per la centesima volta riabbassò la testa, più spaesato che prima.
E finalmente le sentì.
Le ginocchia che si piegavano, e lo sdraiavano sull'asfalto ricoperto di ghiaccio.
Non seppe quanto tempo rimase lì, sospeso tra la coscienza e l'incoscienza.
Sapeva solo cosa gli diede la forza di rialzarsi.
A pochi metri di distanza, giusto all'altezza della linea degli occhi, un paio di gradini in mattone, coronati da una deliziosa cancellata nera in stile barocco.
Anche se era ricoperta di una patina bianca, la riconobbe.
E subito sentì un piacevole calore familiare fluirgli nello stomaco.
Costrinse il corpo a reagire, a rimetterlo in piedi, facendo leva con le mani che credeva ormai avessero perso ogni sensibilità, e che invece riscoprì dotate di una forza nascosta.
Quello che si trovò davanti fu un ammasso di mattoni rossi, che si ergeva su due piani.
Una costruzione deliziosa e un po' malandata, con finestre piccole e scrostate.
In cima al tetto, svettava un segnavento arrugginito, che faticava a compiere il suo lavoro e si limitava ad emettere uno strano cigolio.
La casa era indipendente su tutti i suoi quattro lati, e su ognuno di questi, erano affissi svariati cartelli bianchi. Su ognuno era inciso il nome di una città, e ognuno indicava la giusta direzione verso la quale un viaggiatore avrebbe dovuto dirigersi, per raggiungerla.
Oslo, sul muro sud, indirizzava il malcapitato vagabondo a sinistra, lungo il viale; Praga, sul muro est, piegava anch'essa a sinistra, e invogliava l'avventuriero a infiltrarsi nelle losche e piccole vie moscovite; Atene, a fianco della precedente, era leggermente volta verso il basso, e aspettava solo il momento in cui un senzatetto un po' tonto avrebbe cominciato a scavare sotto l'asfalto, per vedere se non vi fosse un qualche tunnel che portava fino in Grecia.
E così via, c'era una direzione per ogni città europea, ed erano tutte ben distribuite sulle quattro pareti esterne.
Stette a rimirare la dimora, cercando di rimettere in asse il suo orientamento - ormai sfasato - con l'ago della bussola.
Ora sapeva dove dirigersi: Odessa.
La via per Odessa portava immediatamente fuori città, e seguiva una strada fuori mano, poco frequentata. Serpeggiava un poco tra le abitazioni sudicie, e poi sgusciava fuori dal reticolo urbano, come una felino liberato dalla gabbia.
Ora poteva individuarla con chiarezza.
Ma, per il momento, rifugiarsi in un ambiente caldo e riposarsi aveva la priorità su tutto.
Così, si avviò sui gradini scivolosi, timoroso, come ogni volta che entrava in quel posto.
Spinse il portone verde muschio, com'era sua abitudine fare, senza annunciare il suo arrivo.
Ma questo non si mosse.
Rimase fisso sui cardini, e non si spostò di un millimetro.
Allora provò a bussare, provò a fare affidamento al campanello d'ottone.
Niente da fare.
La porta non si apriva.
Rimaneva congelata, incastrata al muro, ferma e impassibile.
Sembrava volerlo scacciare, con quell'aria minacciosa e assente.
Sembrava volergli dire: queste mura sono disabitate.
Vattene e non curiosare oltre.



Quella era forse l'estate più calda in cui si fosse mai imbattuto.
Quanto invidiava quei passerotti, che si immergevano nel primo specchio d'acqua che trovavano senza che nessuno li scacciasse.
Lui invece non poteva far altro che ansimare, su quell'asfalto bollente, in coda davanti ai semafori o bloccato nella folla che ostruiva i viali.
La sete cominciava a farsi pressante, raschiava sulla gola ed la inaridiva, a tal punto che dovette combattere con tutte le sue forze per non entrare in un bar e comperarsi una bibita ghiacciata. Certo, per qualsiasi altra persona una soluzione del genere sarebbe stata del tutto nella norma, ma per questo ragazzo ostinato che non voleva piegarsi al consumismo della società moderna, no.
Una fontana sarebbe bastata e avanzata, pensò, cercando di rimanere ottimista.
Peccato solo che non avesse la benché minima idea di dove trovarla, e che non potesse girare mezza città nella speranza di imbattersi in una.
E così, cominciando veramente a temere di disidratarsi, cedette anche davanti a questa piccola tentazione, ed entrò nel primo locale che si trovò davanti.
Peccato che proprio in quell'attimo, in cui il suo cervello aveva deciso di assecondare quel tormento, lui stesse girovagando in uno dei quartieri meno raccomandabili della città.
E il luogo in cui si trovò, pesante di fumo e rumoroso di vetri che cozzavano, non prometteva bene.
O forse, prometteva bene per un'attività che, tuttavia, non lo invogliava di certo con quel caldo.
Come non lo invogliavano i numerosi alcolici in fila dietro al bancone.
E invece ordinò un cocktail, e invece cominciò ad esaminare uno ad uno gli avventori, cercando quello che poteva fare al caso suo.
Il caldo doveva proprio giocargli brutti scherzi, al punto che non si accorse di un uomo che gli si era avvicinato alle spalle, nel mentre che lui era intento a guardare da tutt'altra parte.
“Ti sei perso di nuovo, signorino?”
Quelle poche parole ebbero il potere di raggelarlo sul posto, scolpendolo nel ghiaccio.
Conosceva quel tono di voce.
Conosceva quella risata sguaiata che l'aveva seguito.
Si girò di scatto, prendendo l'uomo per i polsi e immobilizzandolo come poteva.
Il bicchiere di alcolico andò in frantumi, nella foga di quei movimenti bruschi, e l'attenzione dei clienti si concentrò di un colpo su loro due.
Li rivedeva.
Quegli occhi viola, quel sorriso strafottente, e quelle notti passate a catturarsi a vicenda nel letto. Rincontrare uno dei suoi amanti fu un'esperienza a dir poco traumatizzante, anche se Hidan era di gran lunga il migliore, fra tutti quelli che avevano avuto la fortuna di intralciargli il cammino.
Dopotutto, lui il sesso lo faceva di mestiere; in cos'altro poteva essere bravo?
“Che cosa vuoi?”
Hidan si portò alle labbra la cannuccia del cocktail che aveva ordinato nuovamente, per sé e per Sasori, con chiare intenzioni provocatorie.
“Lo sai”.
“A parte quello”.
Il giovane non rispose, si limitò a schioccare le labbra, aspettando che fosse l'altro a riprendere il discorso. E il viaggiatore decise, per la terza volta in due giorni, di cedere al ricatto.
Si piegò ulteriormente verso il ragazzo, in modo da parlare piano ed essere sentito solamente dalle sue orecchie. Come fosse un pegno in cambio delle informazioni che voleva, gli offrì una sigaretta, che l'altro accettò di buon grado.
“Parlami della Casa sul direzionale”.
Non gli piacque la luce che guizzò all'interno di quegli occhi violacei, nel momento in cui pronunciò quel nome.
“Si dice che sia un rifugio che appare solo al viaggiatore che si è perso, il quale riesce così a ritrovare la via, orientandosi con i cartelli fissi sui muri” recitò Hidan, come se avesse letto quell'aneddoto in chissà quale libro di fiabe.
“Esatto”.
Lo sapeva fin troppo bene.
“Per questo viene nominata la Casa sul direzionale, o dalle mille direzioni. Ma la cosa più particolare di questo fantomatico rifugio è la sua locazione. Infatti, si dice che non abbia radici, e che si limiti a comparire davanti a chi ha bisogno, indipendentemente dal luogo, dalla città, dallo stato”. Terminò il suo breve racconto con un'aria sconcertata, guardando Sasori come per chiedergli chi fosse il pazzo tra loro due.
“Ma tu credi a queste cazzate?”
“Solo un pochino”, concluse il ragazzo, alzandosi dal tavolo e dirigendosi verso il bancone con il portafogli in mano.
Pagò il conto di entrambi, per escludere a priori qualsiasi possibilità di richiesta di soldi da parte di Hidan. Nemmeno per quello che sarebbe successo di lì a pochi minuti di tempo, ben intesi.

Il ragazzo di Amsterdam aveva un appartamentino in periferia, stretto, buio, polveroso. Ma andava più che bene, considerando gli standard di vita di Sasori.
Ricordava quelle pareti, quel letto con le molle, quelle lenzuola color panna.
Annusandole, gli sembrò quasi che il suo profumo non se ne fosse mai andato da lì.
Non sapeva spiegarsi il motivo, ma l'atmosfera di quel monolocale era sempre impregnata di un non so che di erotico. Il corpo stesso di Hidan, pallido e muscoloso, che scopriva slacciandogli lentamente la camicia, sapeva di afrodisiaco.
Vaniglia e colonia, che si fondevano assieme al sudore.
Persino durante un rapporto sessuale quel ragazzo riusciva a farneticare di strane sette religiose, e santuari miracolosi. Diceva che Sasori avrebbe dovuto far fruttare il suo pellegrinaggio, dirigendosi verso qualche luogo mistico e rivelato invece che vagabondare per l'Europa a sedurre uomini e giovanotti sprovveduti.
Quel fanatico era l'unico da cui si fosse mai fatto sottomettere, e anche se questo poteva sembrare un particolare trascurabile, per Sasori e per il suo orgoglio non lo era.
Non capiva perché si lasciasse sovrastare con tanta facilità, non capiva perché permettesse con tanta noncuranza le sue mani sul suo addome, sui suoi fianchi, sul suo viso.
Continuando così, sarebbe presto annegato in quel mare di coperte consumate.
Si sarebbe dimenticato di ogni precauzione, e avrebbe unicamente seguito l'istinto.
“Hidan...” lo chiamava, sommesso, mentre lo sentiva dentro di lui con una forza che non ricordava.
Batté inavvertitamente la testa contro la spalliera del letto, ma non se ne curò, e continuò quei buffi movimenti per portarsi all'orgasmo.
Il dolore venne solo dopo, quando si rifugiò ansante tra i cuscini.
Un fastidioso pungere dietro la nuca, che si trasformò ben presto in un lieve prurito.
“Io... devo andare”.
“Riposa un po' prima”.
Non sarebbe stato di certo Hidan a tenerlo inchiodato lì, a quel letto. Piuttosto l'avrebbe fatto la cappa soffocante che l'attendeva all'esterno.
Rammentò ancora una volta a se stesso il motivo per cui era costretto a viaggiare con il caldo torrido. Forse perché non voleva temere di trovare un'altra porta chiusa?
Che idiozia.
I cardini congelati da un lungo inverno possono difettare anche col clima mite.


*




Aveva lasciato un altro ricordo a marcire dentro una cartolina.
Ecco cosa rimaneva delle persone che incontrava nella vita: ricordi indistinti e sapori amari.
Uno diverso, per ogni città.
E ritrovarli per poi gettarli nuovamente al vento, faceva ancora più male.
Anche Hidan era ritornato ad essere poco più che un souvenir, ma lui era diverso.
Rivederlo, gli aveva fatto prendere coscienza della trama che lasciava dietro ai suoi viaggi.
Il suo passaggio, in ogni caso, lasciava un segno. Non poteva semplicemente buttarsi le esperienze alle spalle, perché prima o poi la sua vita sarebbe tornata a galla.
Anche se così mobile ed errante.
Londra non era mai stata più malinconica, così gocciolante e nebbiosa.
Ritagliando da quel collage di fattori negativi, tra cui il fango che si era impossessato della sua tenda, un francobollo che dettasse buon tempo, rimaneva la frescura che la pioggia offriva in quell'estate desertica.
Tuttavia, della città sembrava essere rimasto solo lo scheletro, scarna dei tanti turisti che normalmente in quella stagione la frequentavano.
Così girovagava tra i quartieri malandati di periferia, con chili di tristezza sulle spalle.
Era proprio vero che niente riusciva ad accontentarlo, ma era anche vero che ogni situazione si portava dietro le sue conseguenze. Come la sua scelta di vita si portava dietro un inevitabile sradicamento.
Alcune cose erano legate.
Capì più a fondo il concetto quando, seduto al tavolaccio di un pub e stretto al manico di un calice, si guadagnava occhiate che avrebbe volentieri evitato.
Evidentemente la sua bellezza doveva essere notevole, se riusciva a far voglia anche così conciato, con i vestiti logori e i capelli bagnati.
Il suo desiderio più ardente era ignorare quelle battute rivolte chiaramente al suo indirizzo, ma non era abituato a questo genere di situazione.
Sentiva un palloncino gonfiarglisi in gola, e non ne capiva il senso.
Quella sera avrebbe faticato a trovare un riparo per la notte. Non sapeva neppure in quale parte della città si trovasse.
Neanche a dirlo, si era perso, constatò tristemente il ragazzo dando una veloce occhiata alla bussola. Eppure doveva essere abituato a questo tipo di inconvenienti; perché ora non trovava una soluzione?
Si diresse verso il bagno.
Non era da lui scappare a quel modo, eppure ora gli sembrava l'unica strada fattibile.
“Dove vai dolcezza?”
“Credevamo volessi passare da noi...”
Al diavolo.
Fuggì dalle risate fumose della sala, e si rifugiò nel retro del locale, in cerca della toilette.
Aprì una pesante porta di ferro con l'insegna wc, e giunse in un corridoio scarsamente illuminato.
L'interno era cambiato radicalmente, da uno smorto intonaco grigio a un rivestimento in mattoncini rossi. Persino il sapore dell'aria cambiava, e se ne accorgeva man mano che avanzava in quel cunicolo. Un'aria che profumava di vento antico, e non più di fumo.
Ad ogni passo aveva un sapore diverso; di polvere, di sabbia, di smog.
Di tutti i gusti del mondo.
Un brivido gli corse lungo la schiena.
Era un sentore familiare.
Si voltò, di scatto, con un'improvvisa voglia di oltrepassare di nuovo la porta di ferro e controllare che fosse ancora all'interno del locale.
Ma le luci alle sue spalle si erano spente, e la porta non c'era.
Le pupille gli si dilatarono, in cerca di una prova del fatto che non si fosse perso di nuovo.
Ma era tutto vano.
Non si trovava più all'interno del locale e, forse, non si trovava più a Londra.
Ma allora, dov'era?
Non aveva altra scelta che andare avanti, continuando a seguire la luce smorta di quel corridoio.
Si stupì di se stesso, sentendo il proprio fiatone coprire il rumore dei passi.
Davanti a sé, il muro finiva in una nicchia piccola e bianca, e al suo interno, due occhi gialli di civetta lo fissavano.
Un animale immobile e arcigno, quanto inquietante e bello, che sembrava quasi messo a guardia di qualche cosa d'importante.
L'impagliatura era realizzata con tanta maestria che pareva muoversi, e dava l'impressione che da un momento all'altro la civetta avesse cominciato ad esibirsi nei suoi versi acuti.
Il ragazzo sfiorò le penne del rapace, e le sentì morbide e lisce, come se rivestissero un corpo caldo e vivo.
I fieri occhi di vetro lo fissavano con una strana nitidezza, come se volessero rammentargli qualcosa...
Profili secchi di alberi che spiccavano contro il grigiore malsano del cielo; un'aria profumata di fiori di campo ed erba secca.
Ricordava vivamente, lui che aguzzava gli occhi nel buio, cercando la fonte di quel verso inumano.
Una sorta di grido sommesso, che si ripeteva instancabile, vibrando tra le foglie dei gelsi.
La più nobile delle creature della notte, lo fissava con occhi gialli.
Sì, quella era una sua creazione.
Aveva catturato quel fiero animale tre anni prima, in un parco di Monaco. Lo ricordava con nitidezza ora.
Osservò meglio la nicchia, e l'istinto gli guidò la mano a far pressione su di essa.
Appoggiò il palmo su quel grezzo intonaco bianco, e lo sentì fresco sotto le dita.
Spinse, e il pannello ruotò come una porta sui propri cardini.
E la stanza circolare in cui si trovò, allagata di luci soffuse e zeppa di mille particolari, gli risultò del tutto familiare, a tal punto da strappargli un sorriso.
“Allora non hai perso le cattive abitudini. Ancora non hai imparato a bussare, Sasori?”
Un ragazzo, impiccato su una scala da biblioteca, stava sistemando uno degli innumerevoli scaffali che tappezzavano le pareti della stanza. La luce polverosa, gialla e arancione, filtrava attraverso gli spessi vetri colorati delle finestre. Quest'ultime tuttavia non si potevano aprire, perché bloccate dalle varie mensole inchiodate all'impolverata carta da parati.
Inoltre era impossibile scorgere anche solo un abbozzo dell'ambiente esterno, guardando in quei cristalli così spessi e opachi.
I vari oggetti che affollavano la stanza provenivano da tutti i luoghi del mondo, anche se la maggior parte rientrava nei confini dell'Europa. Ogni città aveva il suo scaffale, in cui si potevano trovare foto cartonate, souvenir di splendida fattura, ma anche fiori ed erbe essiccate, e...
“Cosa mi hai portato, stavolta?”
Il viaggiatore estrasse dalla tracolla l'animale, catturato nel parco della cittadina spagnola.
“Sei passato per Amsterdam?”
“Proprio così”, rispose Sasori mentre appoggiava il piccione sul tavolino in stile arabo, riservato alla bella Seville.
“Si capisce dall'accento che hai provato a perfezionare”.
Non poteva dire semplicemente lo so, perché ti ho visto?
Era facile mentire se si rimaneva girati di spalle, constatò il ragazzo, guardando circospetto i lunghi capelli biondi e secchi del custode, ancora intento a spolverare il pianale delle fondamenta di Vienna.
Erano tutte lì, racchiuse in quella corona di calce, piastrelle e vetro.
Tutte le città del continente europeo.
Una vera e propria collezione, di chi si era prefissato il pazzo compito di avere in venti metri quadri il mondo intero.
Passava minuziosamente la pezza imbevuta d'alcol su ogni soprammobile - e dovevano essercene centinaia - , pulendo anche il più piccolo particolare.
Raccoglieva le ombre di polvere nello straccio, ridando vivacità ai colori.
“Come sempre tratti bene gli ospiti, Deidara” infierì Sasori, a mo' di ripicca.
“Non ti sembra che sia già stato cortese, a raccoglierti qua, come un gatto?”
Il viaggiatore sorrise, cingendo un poco la vita dell'altro.
Che privilegio aveva.
Deidara scese dalla scala, degnandolo finalmente dei suoi fieri occhi blu.
Lo guardò con aria di sufficienza, ma nello stesso tempo con profondità.
“C'è caldo fuori?”
Alzò una mano, lentamente, sul suo viso, toccandogli i ciuffi rossi.
“Come?”
Le labbra di Deidara sapevano di sale, o di salsedine.
Si slanciò verso di lui e approfondì il bacio con la lingua, afferrandogli i capelli sulla nuca.
No, sapevano di quarzo, o di panna montata?
“C'è caldo fuori?”
Sasori scosse appena la testa, spaesato.
“Sei accaldato...” sentì le sue dita sul suo collo sondargli la pelle bollente e leggermente umida.
E proprio in quel momento gli venne in mente la domanda che per tanto aveva stuzzicato la sua curiosità.
“Esatto, fa un caldo dannato. Proprio quello che ci si dovrebbe aspettare da questa stagione”.
Non aspettò da parte sua un segno che stesse ascoltando, capriccioso com'era non l'avrebbe mai lasciato intendere. Era già molto se avvertiva il senso di ciò che gli veniva detto, e che alla fine del discorso non dicesse con aria scherzosa: scusa, che cosa?
“Non ti trovo mai, in inverno... perché? La tua porta resta chiusa, non si apre”.
Lui rimase pensieroso per un attimo, ritirando l'aria giocosa di prima.
Qualcosa sembrava turbarlo, come se un'ombra gli stesse appannando la mente.
“La neve congela i cardini. La maniglia non ne vuole sapere di aprirsi, e io rimango bloccato qui dentro, come in un letargo”.
A quelle parole, le immagini di quella fredda serata russa gli tornarono davanti agli occhi, come proiettate in quell'aria densa di pulviscolo.
Vide più attentamente le varie foto affisse, le varie località, tutte brillanti di sole o grigie di pioggia, e afose, calde e soffocanti.
Non una pozzanghera ghiacciata, non un fiore intirizzito, non un grammo di neve.
I suoi viaggi avevano avuto un panorama tutto estivo, così come anche la raccolta di Deidara.
E l'inverno, come passava?
Dormiente, nebuloso, morto.
Non riusciva a ricordare la sua vita invernale.
Era un buco nella sua memoria, un baratro incolmabile.
Forse cadeva addormentato anche lui in una sorta di torpore, di sonno pre-assideramento, di oblio indolore, accovacciato come un micio sullo zerbino della Casa dalle mille direzioni, perso come ogni volta nel mondo e in se stesso.

Una furba espressione puerile, ecco cos'aveva in faccia Deidara.
Se ne rese conto, per la centesima volta forse, quando alzò gli occhi verso il suo viso.
Ma i suoi blu fuggirono subito da quel contatto visivo, si ritrassero come spaventati dalla vicinanza, e si abbassarono.
Si abbassarono fino all'altezza della vita di Sasori.
Le sue ginocchia toccarono lievemente terra, e le sue dita accorsero a slacciargli cerniera e cintura.
Quelle pareti circolari, che per tanto avevano tenuto nascoste le loro carezze, ora sembravano a Sasori ancor più strette ed erotiche.
E dava la colpa al caldo, al caldo delle ultime giornate di luglio.
Ma non aveva mai creduto che la lingua, la bocca, le labbra di quel ragazzo, potessero essere più calde dell'asfalto ardente delle città, che a volte quasi pareva liquefarsi in un miraggio.
Come erano caldi i suoi glutei, la sua erezione, le sue cosce.
Bloccò Deidara sotto di lui, gentilmente, con calma soffusa, mettendo fine all'amplesso orale.
Ma lui, come un gatto - o una tigre - , lo rialzò in piedi e lo spinse contro il muro, con grazia.
Sembrava tutto un gioco, o una stupida ed estenuante danza.
Il viaggiatore lasciò che l'altro lo penetrasse, cercando in tutti i modi di facilitargli i movimenti.
La difficoltà più grande per lui era non danneggiare, spinto dal corpo di Deidara, nessuno dei soprammobili in vetro che si trovava davanti.
Il custode non perse tempo a sussurrargli all'orecchio, in greco, alcune frasi non propriamente caste.
Non a caso quella era una delle poche lingue che Sasori non conosceva, ma capì lo stesso l'intenzione dell'altro.
Ovvero quella di farlo diventare ancora più bagnato di quanto già non fosse.
E così consumarono la loro piccola estate, piena di fusa e tenerezze, quasi ritornassero bambini, concedendoselo solo per un po'.
E dopo una volta, lo fecero ancora, e ancora un'altra, in un modo o nell'altro.
Spogliandosi mano a mano, godendo ognuno del corpo dell'altro.
Erano passate ore, ed era sera quando Sasori era entrato nella Casa.
Eppure, la luce che filtrava attraverso i vetri colorati, rimaneva quella dorata del tramonto, o del pomeriggio tardo. Come se anche lì, in quel minuscolo emisfero girovago, dominasse un estate sempre viva, priva delle stelle e delle oscurità invernali.
Come se al di fuori, splendesse un eterno sole artico.
Deidara girovagava per la stanza, nudo, con un ghigno da psicopatico stampato sulla bocca.
Prendeva un'ampollina ripiena di sabbia color mattone, e la portava davanti agli occhi dell'altro ragazzo.
“Questa, hai mai visto questa?”
Sasori alzò le spalle.
“Polvere?”
Puntualmente, si guadagnò un'occhiataccia per la sua superficialità.
Scoprì poi che quella contenuta all'interno della boccettina era sabbia della Turchia, che se veniva lanciata in aria, rimaneva sospesa per un po', come cenere.
E poi ricadeva fluttuante, disperdendosi sul pavimento e prendendo il colore delle cose con cui veniva a contatto.
A suo tempo, gli sarebbe piaciuto continuare a far l'amore con Deidara finché non avrebbe scoperto tutte le meraviglie di quel bazar multietnico.
Ma, per ogni viaggiatore, giunge sempre il momento di partire. Sì, doveva aver appuntato anche questo, sul suo taccuino.


*




Uscì dall'entrata principale, scendendo quei gradini in cotto che finivano sulle strade di una nuova città. L'ennesimo ammasso urbano, uguale a molti altri.
Un intricato groviglio di smog e opere d'arte.
Non riconosceva i profili delle case, né la lingua che sentiva sfuggevole nel chiacchiericcio.
Ma poi, si voltò verso l'arroccamento di mattoni alle sue spalle, e notò un cartello tra i tanti.
Un elegante punto interrogativo d'inchiostro, che puntava fiero il nord.
Dritto davanti a sé.
Deidara l'avrebbe rimproverato fino alla morte, ma d'altronde la colpa era sua, se affiggeva cartelli così insensati.
O forse, il senso era tutto lì.
In quella linea uncinata, con una piccola ombra al seguito.
Sorrise, sistemandosi la tracolla malconcia sulla spalla destra.

Per un attimo, per un solo attimo, aveva temuto di essersi perso.







2° Classificata a pari merito al Storie Edite Contest indetto da Mokochan

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Grammatica e stile:
14,5/15
Originalità: 5/5
IC: 14,5/15
Giudizio personale: 10/10
Totale: 44/45

Giudizio scritto: Hai un lessico molto buono e uno stile assai piacevole, che invoglia il lettore a proseguire con maggiore interesse la lettura. Che cattura e intriga, riga dopo riga. L’unica nota dolente, dal mio punto di vista, riguarda la punteggiatura: ci sono virgole che per lo più non servono e che a volte bloccano la lettura. Ti consiglierei di rileggere la storia, per il resto è tutto okay^^
Ho trovato la tua storia molto originale, sia nel modo in cui è trattata, sia nel modo in cui ci presenta Sasori - che mi pare intrigante in questa storia, davvero affascinante! Posso dire che mi ha tolto il fiato? E’ vero che questa è una AU, tuttavia è così somigliante al Sasori del manga che, davvero, sono rimasta senza parole! Così pensieroso, così apatico, quasi. Tra l’altro, assieme a Deidara, Sasori è uno dei miei personaggi preferiti dell’Akatsuki. Solitamente i membri dell’Akatsuki vengono trattati da deficienti - diciamo pure che li fanno talmente OOC che ormai evito di aprire le storie in cui ci sono loro ^^ non voglio vedermeli rovinati. In ogni caso, davvero, ho trovato il tuo Sasori IC, così come Hidan e Deidara. Ed è originale, la tua one-shot, perché è sempre un po’ fuori dalla realtà. E’ così sadica, intrigante e cupa. Una di quelle storie che raramente mi passano davanti alla faccia.
Ne vorrei leggere altre mille così, credimi. Altre mille.
Che altro dire? E’ meravigliosa. Toglie il fiato ed è qualcosa di insolito e vibrante, una storia che meriterebbe ben più attenzione di quella che le è stata dedicata - almeno da quel poco che ho visto su EFP. Quindi ti faccio i complimenti e spero di poter leggere ancora qualcosa di tuo, magari in un prossimo contest^^ Chi lo sa!




   
 
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