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Autore: Yume_no_Namida    04/08/2011    13 recensioni
"Perché, fin dal primo momento in cui aveva incontrato gli occhi della Yamanaka, aveva ardentemente desiderato di strapparglieli dalle orbite, di sentirla urlare e chiedere perdono.
Quegli occhi erano vetro.
E il vetro la feriva e la affascinava, riportando a galla vecchi ricordi che ormai credeva definitivamente sopiti all’interno della sua mente.
Li avrebbe distrutti, senza pietà né rimorsi.
Non avrebbe permesso più a nessuno di scorticarle il corpo... e l’anima."

[Karin/Ino] [Shoujo ai]
[I classificata all'Infanzie Rubate Contest, indetto da Hiko e Namine22 sul forum di EFP]
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai | Personaggi: Ino Yamanaka, Karin, Suigetsu
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Contesto generale/vago
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Nickname: Yume_no_Namida ( su EFP e sul forum )
Titolo: Red, for freedom.
Fandom: Naruto
Rating: Arancione
Genere: AU, Shoujo ai, One-shot, Angst, Drammatico, Non per stomaci delicati.
Parola scelta: Vetro
Note dell’autore:  [Alla fine]


InfanzieRubate Contest
     Banner realizzato da Hiko







Red, for freedom.





Il rosso è un colore che ti dona.
Soprattutto se striscia sul tuo corpo.



- Cazzo, Hebi! Mi stai ascoltando?
La voce di Suigetsu giunge nitida alle sue orecchie.
E’ squillante. La irrita da morire.
- No, coglione - risponde piccata - non ti ascolto mai. Non vedo perché dovrei cambiare abitudini proprio ora...
- Perché - ribatte lui, sornione - se dovesse solo minimamente accorgersene, la Yamanaka ti distruggerà.
Oh merda.
- Cazzo c’entra la Yamanaka, Hozuki? Accorgersi di cosa???
Dissimula, dissimula, dissimula!
Breve pausa di silenzio, carica di tensione.
I capelli di Karin sembrano vibrare nell’aria, quasi attraversati da scosse elettriche.
- Del fatto che vieni ogni volta che la vedi. O quasi.
Ecco. Adesso era veramente nella merda.
Smascherata. E per di più, da un idiota del calibro di Hozuki.
- Una parola, Suigetsu, soltanto una. E puoi dire addio ai gioielli di famiglia.
Lo sente deglutire, intimorito, conscio del fatto che la sua amica non esiterebbe un istante a mettere in pratica l’atto appena annunciato.
- Va bene - aggiunge lui, volgendo lo sguardo da un’altra parte - non dirò nulla. Però...
Però?
- Fa’ attenzione. Quella se ne sbatte dei sentimenti.
AHAHAHAHAH!
Ride Karin, ride di gusto.
Ride perché ha compreso che il tizio che le sta davanti è più imbecille di quanto si aspettasse.
O forse tiene davvero a lei, anche se non lo dimostra, ma questo non è in alcun modo un problema che la possa riguardare.
- Ti, ahahah, ti... ti ringrazio, Suigetsu.
Le risate cessano, di botto.
- Ti ringrazio tanto, ma me la saprò cavare.
- Umpf! Come vuoi.
Karin osserva l’amico voltarle le spalle, irritato, e allontanarsi lentamente dai parcheggi, luogo di ritrovo per tutti gli spostati della zona, loro due inclusi.
Povero Suigetsu. La sua ingenuità le faceva quasi pena.
Sentimenti? E chi aveva mai parlato di sentimenti?
Di quelle schifosissime smancerie non le importava nulla. Voleva solo libido. E rabbia. E odio.
Perché, fin dal primo momento in cui aveva incontrato gli occhi della Yamanaka, aveva ardentemente desiderato di strapparglieli dalle orbite, di sentirla urlare e chiedere perdono.
Quegli occhi erano vetro.
E il vetro la feriva e la affascinava, riportando a galla vecchi ricordi che ormai credeva definitivamente sopiti all’interno della sua mente.
Li avrebbe distrutti, senza pietà né rimorsi.
Non avrebbe permesso più a nessuno di scorticarle il corpo... e l’anima.
- Scusa, hai da accendere?
Karin s’interrompe nel bel mezzo dei propri pensieri, scombussolata e con un groppo in gola. No, non piangerà. Lei non piange mai.
Ha già la risposta pronta, gode nel sentire farsi spazio tra le sue labbra le dolcissime parole “Che cazzo vuoi?” e pregusta l’espressione di smarrimento che avrà modo di cogliere sul volto del malcapitato di turno.
Inspira a lungo, inglobando quanta più aria le sia possibile. Ruota con discrezione la testa alla sua sinistra e...
Crack.
Una scheggia le trapassa il petto.
E’ lei. E’ Ino Yamanaka.
Panico.
- Oh, ma tu sei Hebi, quella della classe accanto! Ti ho vista spesso da queste parti...
Non sai quanto spesso io abbia visto te.
- Sei sola?
Fino a poco fa ero in compagnia di un idiota dai capelli azzurri che, a quanto pare, se n’è andato al momento sbagliato. O più opportuno.
- Sì.
- Bene! Io e le mie amiche avevamo in programma una notte in discoteca. Solo donne, alcool e sregolatezze! Ti andrebbe di unirti a noi?
Sì! No! Non posso farlo, io...
- Sì!
- Perfetto! Andiamo, allora.
Questione di attimi, uno strattone alla maglia.
- Mmmh... che c’è? - brontola la Yamanaka.
- La tua sigaretta - scandisce, quasi con arroganza, Karin.
- Oh... grazie! L’avevo dimenticata!
Non ringraziarmi, non farlo.
Entro poche ore ce ne pentiremo entrambe.


***


- Mamma, papà quando torna?
- Presto.
- E se non torna più?
- Tornerà, se farai la brava. Stai ferma e tutto andrà bene.
- Mi sento tanto stanca. Cosa sono queste cose che ho sulla pelle?(*)
- Tagli.
- E fanno male?
- Un po’, credo. Hai pianto e urlato. Poi sei svenuta.
- Però c’eri tu al mio fianco, sono contenta. Cosa... cosa esce dalle ferite?
- Sangue.
- E’ un bene?
- Sì, farà tornare papà. Adesso dormi.
- Buonanotte.

 

Andare in quella discoteca non era stata una mossa saggia.
Ino aveva bevuto fino a perdere la cognizione dello spazio e del tempo e adesso si muoveva in cerchio e agitava le mani come una dannata, strusciandosi contro chiunque le capitasse a tiro. Due delle sue amiche si erano ritirate ai piani alti, per portare a termine il lavoro iniziato dabbasso. La terza era stata spinta ad ubriacarsi per la prima volta dalle altre due, ma, come era prevedibile, non aveva retto la situazione. Vomito, svenimento e trasporto a casa da parte del cavalier servente, un giovane dai capelli biondi e gli occhi azzurri che la preoccupazione sembrava quasi divorare vivo. E pensare che, fino a qualche minuto prima, non l’aveva degnata neanche di uno sguardo, saltellando da una parte all’altra della pista in preda alla più irritante euforia!(**)
Karin stava seduta in un angolo, su una scomoda poltrona rosso ruggine, a lanciare in giro occhiate sprezzanti e ad assistere, apparentemente indifferente, allo spettacolo della ragazza, della donna amata e odiata al tempo stesso che, mezza nuda, si dimenava furiosamente in cerca di attenzioni, che non tardavano ad arrivare.
Era imbarazzata, e disgustata nel contempo.
Poi anche emozionata, e combattuta, ed eccitata.
Non aveva mai desiderato qualcosa così tanto in vita sua.
Basta, doveva scappare! O non sarebbe stata più in grado di controllarsi.
Fece per bere l’ultimo sorso di gin tonic rimasto nel suo bicchiere e provò ad allontanarsi. Ma mai pensare che i propri piani vadano a buon fine, se nei paraggi c’è Ino Yamanaka.
- D-dove,  hic! Dddove vai, K-Karin?
- A casa, Yamanaka. Mi sono rotta le palle.
Non starmi così vicina, maledizione! Non farmi sentire il tuo alito sulla pelle...
- N-non ti stai divert-hic!-endo?
- No, affatto.
Molto più di quanto immagini, ma solo a patto di stare così, noi due sole. E gli altri fuori.
- A-allora, hic! D-dovremmo trovare un p-posto più appartato. So io cccome divert-irci, hic!
- CHE CAZZO STAI BLATERANDO?
Cuore fermati, o esplodi!
- Che s-sono lesbica, m-mi piaci e, hic! Voglio fare l’amore con te!
Neanche il tempo di pensare che la lingua di Ino era già intrecciata alla sua. Era bello, dannatamente bello! Ma tutto quel vetro...
- Andiamo - ansimò Karin - andiamo a casa mia. E’ nelle vicinanze.
Udì a malapena la risata cristallina della Yamanaka espandersi nello spazio circostante, come pioggia primaverile e rinfrescante. Forse, se vi avesse prestato un po’ più di attenzione, tutto quello che doveva succedere non sarebbe successo. E il dolore sarebbe per sempre stato un compagno d’infanzia, null’altro.
Non ridere, perché dietro ogni risata si nasconde un fiume di lacrime.
Presto capirai.


***



- Mamma, smettila, smettila! Papà è morto, non tornerà!
- Cosa ne sai tu di tuo padre, eh? Che cos’è quest’assurdità che è morto?
- Ma mamma, m-mi ci ha portato la nonna! Al cimitero io ho visto... ho visto la lapide! E’ di tre anni dopo la mia nascita...
- Taci! Ahahahah, la lapide! La lapide! Ahahahahah!  Sei una sciocca, credi a qualunque cosa ti venga detta! E adesso spogliati: senza il tuo sangue, papà non tornerà.
- N-no!
- Come?
- NO! Stai male, devi farti curare!
- Tu farai quello che ti dico io, senza discutere! Da brava, lasciami lavorare.
- Lasciami, sigh, mi... mi  fai male! T-ti prego, posa il vetro. N-non, sigh! Non tagliarmi mamma! MAMMA!
- Shhhh. Ti sta proprio bene il rosso, ti sta proprio bene! Lo diceva anche tuo padre...




- AAAAAAARGH!
Karin urlò.
Di nuovo, dannazione, era successo di nuovo! Quegli occhi di vetro... ogni volta la stessa storia. Vi annegava, si perdeva nel passato, inorridiva, urlava! Urlava come quelle volte e nessuno le prestava soccorso. Era sola.
- K-Karin, tutto, hic! bene?
No, stavolta non era sola. C’era qualcuno di là. C’era lei nell’altra stanza. Lei, ubriaca fradicia e che le aveva appena ficcato la lingua in gola. Lei che era un’incosciente e stava per rendersene conto.
- Sono caduta e ho sbattuto contro la vasca, Yamanaka. Nulla di grave.
- Si-sicura che, hic! sia tutto a-a-aaa posto?
- Ho detto: Nulla. Di. Grave.
- Ok-key.
Una vera fortuna che la Yamanaka fosse così ubriaca.
Una vera sfortuna che l’Hebi fosse così cieca.
Si sfilò la maglietta, Karin, lasciando scoperte le braccia, le spalle, il collo, la schiena, il ventre. Avrebbe avuto una pelle bianchissima, se non fosse stato per tutte quelle cicatrici che la ricoprivano quasi per intero, come grumi di colore rappresi sulla tela di un pittore troppo stanco per portare a termine la sua opera. Troppo adirato, per far scivolare lentamente il pennello sulle fibre.
Si faceva schifo.
Si faceva schifo per non essere riuscita a dimenticare.
Per aver aggiunto qualche nuova ferita alla sua collezione, di tanto in tanto.
Sollevò la mano destra dal lavandino cui stava appoggiata, senza tanti indugi.
E, con uno scatto fulmineo, colpì il vetro delle finestra lì accanto e lo mandò in frantumi.
Non un rumore dal resto della casa, forse la Yamanaka dormiva di già, proprio come previsto.
Quando giunse nella sua camera, lo sguardo folle e i vetri in mano, la trovò sdraiata sul suo letto, sotto le lenzuola, addosso soltanto l’intimo e i capelli sciolti.
Respirava sommessamente, beata, tra le braccia di Morfeo.
Pensò che era più bella di quanto ricordasse e, per un istante, ebbe l’impulso di sdraiarsi accanto a lei, e abbracciarla, e svegliarsi col suo profumo fin dentro l’anima, la mattina.
No, non era possibile. Doveva porre fine a quella storia. Doveva porre fine a tutto...
- Finalmente, regoleremo i conti, mamma.
Finalmente, potremo dirci addio.


***



- Quando è morta tua mamma, Karin?
- Suigetsu, non ho voglia di parlarne. Lasciami in pace.
- Scusa, racchia, era solo una domanda!
- E la mia era una risposta: levati dalle palle!
- Vaffanculo, Hebi!
- ... Comunque, è stato quando avevo undici anni. Aveva tentato di ferirmi, di nuovo. Non l’ho sopportato. L’ho spinta giù dalle scale, con un calcio. Quando sono scesa a controllare non respirava più.
-...
- Ahahah, che c’è, ti ho impressionato? Adesso, al solo guardarmi te la fai sotto?
- ... No. Ad essere sincero, non mi piace giudicare. Penso solo che tu abbia dovuto soffrire parecchio per arrivare a questo, ecco.
- Già...





Aveva ragione. Quell’Hozuki aveva sempre ragione. Pur essendo un grandissimo coglione.
Chissà, avremmo potuto perfino andare d’accordo, se solo l’avessi capito in tempo.
Karin guardava il corpo di Ino, esanime, tra le sue braccia: le labbra contratte in una smorfia di terrore, quegli occhi vitrei che fissavano il vuoto, assenti.
Si era svegliata di soprassalto dopo i primi tagli, aveva gridato. Ma Karin le aveva tappato la bocca, indifferente, nascosta chissà dove in mezzo alla sofferenza e all’odio.
E alla vendetta.
Davanti a lei non c’era il corpo perfetto di una donna; c’era il corpo martoriato di una bambina di undici anni, i capelli rosso fuoco e le mani tremanti, incapace di credere al gesto appena compiuto, desiderosa di un’infanzia più serena, di un futuro ignaro di tutto.
Non le sentiva nemmeno, le suppliche, mentre il vetro affondava nella carne di colei che aveva bramato, con colpi sempre più secchi e precisi. Non percepiva le lacrime scorrerle calde ai lati del viso, né le unghie dell’altra farsi strada tra la sua cute, in un estremo tentativo di difesa.
Un’abbondante dose di narcotico e, in meno di venti minuti, la sua vittima aveva smesso di scalciare.
Euforia, soddisfazione.
Non sapeva quale sentimento prevalesse, mentre la energie vitali abbandonavano il corpo della Yamanaka, a poco a poco.
Aveva vinto. Aveva sconfitto quegli occhi traditori, in grado di riportarla a un terribile passato volontariamente rimosso, aveva sconfitto sua madre e la sua malattia mentale, aveva sconfitto le sue angosce di bambina!
...
Qualche minuto dopo aveva ripreso pieno possesso delle sue facoltà e aveva premuto il cadavere di Ino forte contro il suo petto, scoppiando in un pianto dirotto.
Era diventata la brutta copia di colei che l’aveva generata.
Da quel momento in poi non sarebbe stato più lo sguardo di Ino a restituirla al dolore, perché ci avrebbero pensato le sue stesse mani. Ogniqualvolta le avesse guardate, le avrebbe trovate peccatrici, lorde di sangue.
E non sarebbe mai più riuscita a sfuggire ai fantasmi dell’agonia, perché aveva finito per prenderne le sembianze.
Devo finirla. Devo finire.
Non le ci volle molto per notare i riflessi inquietanti della luna sulle sue cicatrici. Giusto il tempo di afferrare i piccoli frammenti di finestra insanguinati sparsi sulle lenzuola, sul pavimento, dappertutto.
Un colpo. Due. Venti.
Tanti quanti gliene consentì la foga scemante.
Tanti, abbastanza da morirne.
Qualcosa di caldo e appiccicoso prese a colarle sulle braccia, tra le dita, fin dentro i pantaloni.
Si scrutò, indagatrice, solo per un istante.
E sorrise.
Debolmente, come se non volesse.
Ma, per la prima volta dopo un’innumerevole quantità di anni, sorrise veramente.

Avevi ragione, mamma, il rosso mi sta d’incanto.
Ma solo se ha il sapore della liberazione.




THE END



Note:
(*): Karin non sente dolore perché narcotizzata.
(**): Non potevo resistere alla tentazione di inserire un accenno NaruHina! Forgive me!




NdA
Beh, che dire... mi aspettavo che la storia andasse bene [ non sto qui a raccontarvi balle ], ma non così bene. Per venti minuti buoni ho pensato si trattasse di uno scherzo, poi ho pensato che avesse partecipato al contest una mia omonima, poi ho cominciato a realizzare. Credo. Non sono tanto lucida, dopo un viaggio di due settimane a Londra, senza mai un attimo di riposo, conclusosi soltanto ieri. Ringrazio le due giudici per aver indetto il concorso, per il loro impegno e per le attenzioni che ci hanno dedicato. E le altre partecipanti, perché mi daranno la possibilita di passare qualche pomeriggio in compagnia delle loro -sicuramente valide e piacevoli- storie! :')
Sono molto felice del risultato ottenuto e spero che lo stesso possa valere per chi leggerà, nonostante le pecche che, senza dubbio, saranno presenti all'interno del racconto, dovute al fatto che non sono neanche il quarto del quarto di una scrittrice.
Detto questo, vi lascio, e colgo l'occasione per ringraziare Hiko del banner: è stupendo! *^*
Grazie di cuore a chiunque avrà l'ardire di addentrasi negli oscuri abissi di questa mente malata attraverso la lettura di ciò che ella ha osato partorire... read you soon, I hope! :)
Yume
  
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