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Autore: elrohir    02/04/2006    8 recensioni
"Mi sembrava di rivederlo, Robi. Appoggiato al muretto con le mani in tasca e il Tirreno dietro. Cupo come i suoi romanzi gotici. Quel pomeriggio i suoi occhi sembravano strappati al mare, erano altrettanto liquidi e rabbiosi. Le ragazze che passavano, anche se di fretta, si voltavano a guardarlo, attratte dal suo viso gelido e inespressivo. Lui neanche le vedeva. Io avevo voglia di dargli una spinta e farlo cadere giù. Vedere se il sale dell'acqua riusciva a lavargli via il dolore, disinfettargli la ferita. Avevo voglia di afferrarlo per il colletto del giaccone e fissarlo in quegli occhi freddi, urlargli in faccia, a due centimetri dal naso, di smetterla, farsi furbo, che non poteva permettere che una stronza gli rovinasse la vita. Avevo voglia di prenderlo a sberle fino a farlo piangere, o almeno battere le palpebre, spostare lo sguardo. Reagire."
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L'OMBRA DEI TIGLI

 

L'OMBRA DEI TIGLI

 

Dovete credere che nessun mondo, che niente né nessuno

vale più di una vita o dell'allegria di averla.

È questo che più conta – questa allegria.

Dovete credere che la dignità di cui tanto vi parleranno

non è altro che questa allegria che viene

dal sentirsi vivo e sapere che mai una volta

uno sarà meno vivo o soffrirà o morirà

perché uno solo di voi resista un po’ di più

 alla morte che è di tutti e verrà.

Jorge de Sena

 

È notte, e io sono in riva al mare.

Seduto, sulla sabbia bagnata. Solo. Fumo.

Fisso lo sguardo sull'orizzonte, quella linea indistinguibile, a quest'ora, che separa mare e cielo.

Fumo e penso.

A volte mi dimentico della sigaretta, e la lascio consumare tutta, fino a bruciarmi le dita. Allora la getto via, con un gesto rabbioso, simile a quelli di Robi, e ne accendo un'altra, in fretta. La fiamma si accosta al viso, illuminandolo. Allora riesco a vedere intorno a me, cercare di capire. Fino a che non si spegne. Mi piace, quest'idea. Puoi leggerla come una metafora della vita, se ti va.

Sarà la decima sigaretta che mi faccio fuori, in un'ora e mezzo che sono qui.

Si, lo so, lo so che avevo smesso. Che l'avevo giurato, a te e a Robi. Ma tu adesso non sei qui, e Robi anche se volesse non potrebbe dirmi niente.

Prendine atto, Alberto. Non potete fare più nulla, per impedirmi di ammazzarmi.

Potrei andare a nascondermi in qualche squallido albergo e farmi saltare le cervella, e passerebbero mesi prima che a qualcuno venisse in mente di cercarmi. E non è escluso che prima o poi non lo faccia.

Sul serio, Alberto, non ci riesco più. È troppo pesante da sopportare. Questa attesa mi sta logorando. Mi guardo allo specchio e non mi riconosco.

Sono dimagrito, e gli occhi sono diventati opachi. Sembro un tossico. Uno di quei poveracci che vedi morti su una panchina con una siringa nel braccio. A volte mi gingillo con l'idea di cominciare a farmi. Inizio a capire cosa spinga un ragazzino ad iniettarsi quello schifo nelle vene. È un modo come un altro per provare a cambiarti il sangue. Nell'illusione che basti questo per cambiare anche la tua vita.

Comunque, non ci ho mai pensato davvero seriamente. Sono troppo pigro anche per andare a cercarmi la roba, credo. No, molto meglio spararsi subito un colpo. Più semplice, più pulito. E con lo stesso risultato. Perché ormai non ho paura di ammettere che l'unica cosa che mi interessa è mollare questa vita di merda. Andarmene, senza nemmeno fare ciao con la mano. E anche Robi la pensa come me, dal fondo del pozzo dove è finito. Lo sento. Anche lui non chiede di meglio che la chiave per uscire da questa fetida stanza che chiamano mondo.

A volte lo guardo, così sereno e puro, gli occhi chiusi e le labbra distese, e penso che stanno sbagliando tutto, a cercare di riportarlo qua. Perché sono sicuro che è l'ultima cosa che Robi vuole.

Ma, per ora, questi propositi suicidi restano solo nella mia testa.

Mi sono limitato a ricominciare a fumare. Rabbiosamente, immaginando quel fumo nero e spesso andare ad attaccare i polmoni, ridurli ad un ammasso bucherellato, fragile come carta bruciata, e poi divorarmi tutto da dentro, come spettri malefici. Me li figuro mentre stringono il cuore in una morsa venefica, soffocandolo pian piano. Penso a tutto questo e mi sento pieno di una gioia perversa, malata. L'unica gioia che ho provato da quando Robi ha avuto l'incidente.

Anche adesso che sono qua, seduto sul bagnasciuga, con gli occhi fissi sulle onde che salgono fino a sfiorarmi i piedi per poi ritrarsi, sento quella malefica allegria agitarsi dentro, nervosa. Non si calma mai, non si ferma. Anche quando dormo, si intrufola nei sogni, trasformandoli in incubi sordi e cupi. È una forza primordiale, come quella voglia di vivere che una volta mi spingeva a muovermi in continuazione, per bersi ogni viso, mangiarsi ogni suono, mai stanca, mai cheta. Quella stessa allegria, quella che De Sena aveva descritto così bene, ti ricordi?, proprio lei, il motore della mia vita. Ormai l'ho smarrita. E l'odio che nutro verso la cosa che ha preso il suo posto non fa che alimentarla, dandole ogni giorno la forza di rubare qualche altra cellula del mio corpo.

È per sfuggire a lei, che a volte mi sblocco e vado via. Via dalla mia casa, dalla mia stanza. Dalla mia vita.

Vado in ospedale, raggiungo Robi. Mi siedo accanto al suo letto e sto lì. Passo ore intere a fissare il suo viso pallido, senza dire niente. Penso a te, a lui, a noi. Chiudo gli occhi e cerco di ricordarmi il colore dei vostri. Il tuo nocciola e il suo grigioazzurro.

Piango. Oppure vomito. E dopo sto meglio, come se mi fossi liberato del mostro che mi divora.

Ma appena esco fuori, la città sembra volermi soffocare, rabbiosa, mi copre del suo odio vischioso, come il petrolio delle navi che s'incagliano. E io ricomincio a morire in silenzio, come i gabbiani di Sepùlveda.

Quando il dolore o il disgusto sono troppo forti, prendo la moto e scappo. Lascio che sia l'odore delle strade a guidarmi, così mi ritrovo in un posto che avevo visto con voi. Dove avevo speso qualche spicchio della mia esistenza, gli spicchi più veri, spremuti con i vostri per berli insieme.

Oggi sono venuto qua. Ho viaggiato per ore, sono arrivato al tramonto.

Mi sono seduto sulla scalinata di pietra, il primo gradino, e ho lasciato lo sguardo libero di fissarsi dove voleva. E intanto, ricordavo il giorno che eravamo stati qui.

Il cielo plumbeo, che colorava il mare mosso e freddo della sua stessa sfumatura. L'aria autunnale che ci spettinava i capelli. Le nostre giacche a vento.

Mi sembrava di rivederlo, Robi. Appoggiato al muretto con le mani in tasca e il Tirreno dietro.

Cupo come i suoi romanzi gotici.

Quel pomeriggio i suoi occhi sembravano strappati al mare, erano altrettanto liquidi e rabbiosi. Le ragazze che passavano, anche se di fretta, si voltavano a guardarlo, attratte dal suo viso gelido e inespressivo. Lui neanche le vedeva.

Io avevo voglia di dargli una spinta e farlo cadere giù. Vedere se il sale dell'acqua riusciva a lavargli via il dolore, disinfettargli la ferita. Avevo voglia di afferrarlo per il colletto del giaccone e fissarlo in quegli occhi freddi, urlargli in faccia, a due centimetri dal naso, di smetterla, farsi furbo, che non poteva permettere che una stronza gli rovinasse la vita. Avevo voglia di prenderlo a sberle fino a farlo piangere, o almeno battere le palpebre, spostare lo sguardo. Reagire.

Ma tu eri di fianco a me, silenzioso, a irradiare serenità e guardami con i tuoi occhi caldi, ti ricordi? Sembrava che mi dicessi lasciamogli tempo, facciamolo riprendere. Deve uscirne da solo. Superare la cosa. Noi non possiamo fare niente. Avevi ragione, coglione. Come sempre.

Ma io non lo capivo, era troppo diverso da me, Robi. Non capivo le passioni che si agitavano dietro ai suoi occhi azzurri, vedevo solo la loro immobilità. Io quel giorno avrei urlato, pianto, spaccato quel che mi capitava a tiro. Lui se n'era andato silenzioso come un fantasma, chiuso dietro il suo muro.

Era durato così due settimane, ricordi, prima di sciogliersi in singhiozzi, tra le tue braccia. Per te deve essere stato duro, quel periodo. Trattenere Robi dal cadere in depressione e me dal polverizzare Laura.

A volte mi chiedo cosa sarebbe successo se quel giorno non fosse tornato da lei. Sai, tipo quel film, Sliding Doors. Ecco, se Robi non avesse dimenticato quel cd. Se non fosse tornato da Laura. O se Stefano, per un motivo o per l'altro, non avesse potuto raggiungerla. Se ci fosse finito lui, a fare l'amore con la sua ragazza, invece che restare sulla porta a guardare Laura e Stefano a letto.

Sarebbe cambiato tutto.

Forse, anzi, sicuramente Laura avrebbe mollato Stefano, e Robi non l'avrebbe mai saputo. O magari glielo avrebbe confessato due anni dopo, e lui l'avrebbe perdonata.

Forse adesso non sarebbe su quel cazzo di letto d'ospedale, con gli occhi chiusi e sessantatre flebo infilate nelle vene.

Forse, quella sera di merda, sarebbe stato con lei, invece che sulla moto, a guidare come un coglione su una strada piena di neve, per poi ritrovarsi in un fosso, con la testa spaccata e tutte le costole rotte e l'anima chissà dove.

E io non sarei qui, a fumarmi la quindicesima sigaretta consecutiva, a farmi mangiare vivo da questa merda di mostriciattolo, e guardare il mare nero pensando a te, il terzo stronzo, che ha pensato bene, ad un certo punto, di cominciare anche lui a fare le cazzate. Così da non lasciare più a nessuno il compito di raccogliere i cocci.

Merda, Alberto. Non lo senti, tu, questo odore di marcio, ovunque vai, questa "voglia di piangere forte come una fame", questo vomito per tutto quello che ti sta intorno?

Io sì, e non so fare altro che restare qui, ad aspettare l'alba su una spiaggia bagnata, fumando una sigaretta dietro l'altra, fino a che il sonno non decide di prendermi, come una puntura d'anestesia. E la luce grigia di questo mondo agonizzante non va a sfumarsi in quella rossastra e dolorosa di sogni altrettanto malati.

 

Aprire gli occhi e morire in un fruscio di farfalla

neanche il tempo di una ninna nanna,

l'idiozia della luna, la follia di sognare,

la sterminata noia che prova il mare.

E a questa assurda preghiera di parole, musica, colori, che gli continuiamo a mandare,

 non c'è nessuna risposta, salvo che è colpa nostra

e che ci dovevamo pensare.

Ma che razza di dio c'è nel cielo?

Roberto Vecchioni

 

Camera mia ormai è un santuario. Un tempio pagano. Tutto è nero. Finestre sempre sbarrate, tende tirate. Nessuna luce. Da qualche tempo non la sopporto più. L'unica che resta è quella verde e lampeggiante dello stereo.

Ho gli occhi chiusi, la testa appoggiata al muro.

Ascolto i Clash suonare The guns of Brixton. La canzone più claustrofobica di tutto il disco.

Sono due giorni che ascolto solo quella.

Da quando sono tornato dal mare, per l'esattezza. Mi sono chiuso qui, ho infilato London Calling nel lettore e non mi sono più mosso.

Due giorni.

Sai cosa significa stare due giorni in una stanza? Senza trovare la forza di alzarti nemmeno per andare a mangiare un boccone?

Sono uscito solo stanotte. Erano le tre. Sono sgusciato dentro il bagno come un'ombra. Ho provato a bere. Una sorsata d'acqua, dal rubinetto. Ho sentito che mi si stringeva la gola, ma l'ho mandata giù a forza. Per poi rovesciarmi subito sulla tazza a vomitarla.

Non so cosa sta succedendo. All'inizio non era così.

L'unica nota positiva è che non ho fumato. Solo l'idea mi rivoltava lo stomaco. Sarai soddisfatto, no?

Cristo, Alberto. Mi sembra di averti qui. Di vedere il tuo sguardo di disapprovazione.

Ma che devo fare? Cosa posso fare? Me lo dici tu?

No. Non puoi. Né te, né Robi. E quindi, non rompere il cazzo. Almeno finché non riesci a propormi un'alternativa.

Sai, non sono più andato da Robi. Tanto non cambia niente, che io ci vada o no. Lui resta il solito vegetale sempre. In entrambi i casi.

Non che abbia mai pensato di farlo ritornare. L'ho capito subito, appena l'ho visto coricato lì, che potevo dirgli addio. Ma, lo sai, è impossibile scacciare tutte le illusioni. Qualcuna rimane. Sempre. Nascosta negli angoli più bui del cervello, pronta a scattare sull'attenti, eccitata come una scarica elettrica, al minimo variare di luce sul suo viso latteo, a suggerire un leggero rossore o un tremito.

E tu hai un bel convincerti che sono tutte balle, perché intanto il respiro è già diventato affannoso, il cuore è partito in una corsa sfrenata e negli occhi si è acceso un bagliore devoto.

E tutto per colpa di quella maledetta, piccola vestigia del tuo romanticismo infantile.

Il tempo dove i libri, i film e le canzoni finivano con gioia e allegria, amore e felicità.

Tutte quelle cazzate che ti propinano da piccolo solo per farti soffrire di più. Per ingannarti, illuderti che il mondo è così.

Che vincono sempre i buoni.

Per fotterti meglio, dopo.

Perché nella vita non è così. Nella vita non ci sono i buoni che vincono e i cattivi che perdono. Noi non siamo Topolino e Gambadilegno. Siamo uomini. Uomini stronzi e crudeli. Idioti. Rozzi e insensati. Assurdi. Mostruosi.

E siamo noi a fare le regole. Ce lo cuciamo addosso da soli, sto schifo di mondo.

Dove i ragazzini vengono fucilati per avere detto una parola sbagliata. Dove i bambini vengono dilaniati dalle mine antiuomo. Dove gli uomini si massacrano. Violentano culture, terre, occhi.

Dove a volte non ti lasciano vedere altre possibilità che spararti un colpo in testa, o gettarti giù dal quinto piano, lo sguardo alzato verso il cielo che ti hanno promesso.

Dove puoi morire investito da un tram. O ammazzato da un proiettile in una manifestazione.

Dove a volte stai guidando la tua moto, una sera, la tua moto che guidi da anni, su una qualsiasi cazzo di strada, e cade la neve e tu stai pensando a chissà quale idiozia e poi ti ritrovi a terra, tra le tue ossa rotte, imprigionato dentro alle tue stesse pupille. Talmente lontano dal tuo corpo da non sentire nemmeno più il suo dolore.

Questo è il mondo.

E in un mondo come questo, se un ragazzo di vent'anni finisce in coma, non n'esce più.

E di certo non lo fa sotto lo sguardo palpitante del suo migliore amico.

Punto. E basta.

E adesso vattene, Alberto, perché devo di nuovo vomitare.

 

Poi il resto viene sempre da se

i tuoi "Aiuto" saranno ancora salvati

io mi dico è stato meglio lasciarci

che non esserci mai incontrati.

Fabrizio De Andrè

 

Oggi è venuta Giulia a trovarmi. È lì, appoggiata alla libreria, le mani nei suoi jeans attillati. Gli occhi che cercano i miei, come sempre.

Immagino che siano gli altri, ad averla mandata. Preoccupati perché, guarda un po’, era qualche giorno che non mi facevo vedere.

Ma forse sbaglio a considerarla così. Giulia mi vuole davvero bene, lo so.

E se mamma l'ha chiamata, dimostra di aver capito almeno una cosa, di me.

Perché, a parte voi due, Giù è sempre stata l'unica persona che abbia davvero ascoltato.

Cosa ti sei messo in testa?

Ha sempre quella voce dolce, Giuli, anche quando si prepara a farti una sfuriata. Te la ricordi, Alberto? Quante prediche ci saremo sorbiti, da sta ragazzina? L'ascoltavamo senza fiatare, solo perché era la cugina di Robi. E perché era carina da morire.

Vuoi morire di fame?

La guardo di sottecchi, e mi sembra bella come allora. Con gli stessi riccioli castani che cadono sul viso latteo.

Diventare anoressico?

Mi guarda dritta con i suoi occhi chiari, gli stessi di Robi. Non ci resistevamo, sotto quello sguardo, ti ricordi? Era impossibile, ogni volta ci convinceva a fare le idiozie più colossali. Come travestirci da Calimero per fare contenti i bimbetti dell'asilo. Io te e Robi, con i visi scuriti dal carbone e un guscio di gesso in testa, sopra un palco a pigolare "Perché sono piccolo e nero", tra le ovazioni di fans di cinque anni e le risate dei nostri coetanei, piegati in due e con le lacrime agli occhi.

Ripeto, solo Giù poteva convincerci a fare una cosa simile. Divertendoci, per di più.

Perché non ubriacarti e gettarti giù da un dirupo, allora.

Meglio non dirle che l'idea mi era anche venuta, ma l'avevo scartata perché troppo faticosa.

Così le sorrido, affascinante.

Davvero, ho già così tanti casini che non ho bisogno di ritrovarmi anche con te all'ospedale.

Giulia non lo capisce, qual è il mio problema. Lei Robi lo va a trovare e non piange, non vomita, non urla. Gli parla, come farebbe se fosse sveglio.

Come fa con me.

Bè, sempre meglio di quel che faccio io, no? Parlare con te…la mia ultima cazzata, non ti sembra?

Io non so più dove sbattere la testa. E tu non mi aiuti certo, facendo così il coglione.

Sta fumando. Non sapevo che avesse ricominciato anche lei. Ha gli occhi fissi sulla finestra, la mano che tiene la sigaretta trema. Gli occhi sembrano lucidi, ma il viso è di pietra. Marmo di Carrara.

Che ti è successo?

Lascia perdere, è meglio.

No, dai. Dimmelo.

Spegne la sigaretta, scuote i riccioli.

Marco mi ha lasciato.

Cazzo. Non lo dico, ma lo penso.

Aveva un'altra.

Merda. Ma è una caratteristica di famiglia?

Ride, ironica.

Non credo sia solo una nostra prerogativa.

Le sorrido. Non più per scherzo. Dolce. Come avrei fatto prima.

Le trema il labbro, non mi guarda. Poi crolla.

Si rannicchia a terra, comincia a piangere, singhiozzi, poi lacrime vere. A fiumi. Spero che lavino tutta la tensione che ha accumulato in queste ultime settimane.

Io resto appoggiato al muro, ma con una mano cambio disco. La voce di Strummer si spegne per lasciare spazio a Mark Knopfler che canta Romeo and Juliet.

Lei smette di piangere.

Ma vaffanculo!

Ridacchia quasi, adesso.

Hai visto Alberto? Ci sono riuscito. Per una volta meglio di come avresti fatto tu. Perché a te, Giulietta, è sempre piaciuta un po’ troppo. Vedendola piangere così saresti crollato con lei. A me, invece, insensibile dopo i giorni di reclusione, il suo dolore mi ha solo sfiorato. E reagisco. È la legge della vita. I più sensibili sono deboli. E i deboli soccombono. I duri sono forti. E i forti vincono. Ci hanno sempre insegnato così, ed è inutile cercare alternative: così è. Amen.

Che legge di merda, però…

Comunque, adesso il problema è un altro. Perché la mia Juliet è un po’ preoccupante. Ride un po’ troppo. Tra un po’ diventa isterica.

Giulia….

Lei si raggomitola contro di me. E ricomincia a piangere.

Era da tanto che non la stringevo. Forse da quando stavamo insieme.

Non mi avevi parlato per un mese. Robi ci faceva da intermediario. Se proprio dovevi dirmi qualcosa e non avevi persone da coinvolgere, mi chiamavi "Stronzo".

Bè, in fondo un po’ stronzo lo ero stato, avevi ragione.

Ma cosa potevo fare? Giulia ti moriva dietro e tu facevi finta di non cagarla. Lei dopo un po’ si era rotta ed era venuta da me. E cosa avrei dovuto fare? Mentirle? Dirle che non mi piaceva?

E solo perché tu eri un idiota con processi mentali incomprensibili?

"Non avevamo il diritto di toccarla"…che assurdità, Alberto! Solo tu potevi tirare fuori ste cazzate. "È la cugina di Robi" continuavi, con il naso per aria e gli occhi da giudice divino. Con Robi che scuoteva la testa e diceva che eri sclerato.

A me Giulia piaceva. Non riuscivo a resisterle. Per un tuo principio, poi!

Alla fine, comunque, mi aveva mollato. Per Marco.

Tu avevi deciso che mi avevi tenuto il muso abbastanza. Ti eri presentato da me con un cd nuovo e il sorriso da riconciliazione.

Che coglione.

Comunque, tutto sommato, con Marco c'è stata bene per due anni.

E noi contenti per lei. No?

Solo che adesso è qui, che si annega nella mia maglietta fradicia, e io non so cosa fare.

Proprio adesso che sono più fuori fase di lei e tutti gli altri messi insieme! Adesso che ho la testa che ronza di cazzate assurde come quella di prima sul più forte e il più debole, adesso che l'unica cosa che potrei dire per aiutarla è "Guarda, va a trovare Robi. Vederlo là disteso fa bene, sai? Vomiti un po’ e poi ti senti meglio".

Miseria, proprio adesso doveva farsi lasciare da quello stronzo?

Il vaso della vita, Alberto, è sempre più pieno, e non so quanto potrà contenerne, ancora, di merda, prima di scoppiare.

E intanto Giulia continua a piangere.

 

Non lo sapevi che c'era la morte, quando si è giovani è strano

poter pensare che la nostra sorte venga e ci prenda per mano.

 

Vorrei sapere a che cosa è servito, vivere, amare, soffrire

spendere tutti i tuoi giorni passati se così presto sei dovuta partire.

Voglio però ricordarti com'eri, pensare che ancora vivi,

voglio pensare che ancora mi ascolti e che come allora sorridi.

Francesco Guccini

Robi non è cambiato, in una settimana.

Sempre bianco, sempre immobile, sempre freddo, sempre statuario.

Sempre bello.

Sono seduto vicino a lui.

Mi sembra impossibile che tutta la sua vita dipenda da quel pezzo di plastica. Quello schermo nero con la linea verde.

Che senza quei fili nemmeno respirerebbe. Robi.

Se gli tocchi la guancia, la senti gelata. Davvero. Sembra marmo. Candido, puro, una statua di pietra. I capelli gli cadono lungo il viso, scuri. È bello, lo sai, fragile.

Stringe il cuore, sembra impossibile che sia in quel limbo. Robi.

Io non gli parlo. Tutti mi dicono che dovrei farlo, per aiutarlo, ma non ci riesco.

Mi sembra di essere cretino, e tu non ridere, Alberto. Perché è così. Appena apro bocca sento una valanga che vuole uscire, una lava di parole violente, incazzate. Come ogni volta che vedo Robi immobile e rassegnato. Sento il bisogno di urlargli in faccia quanto è stato coglione quella sera. Di incolparlo di tutto, per scaricarmi la coscienza di una colpa che non ho. Ma che mi pesa lo stesso.

Così, preferisco stare zitto.

Chiudo gli occhi, e penso.

Lascio andare l'immaginazione. Proietto film schizofrenici.

E, invariabilmente, finisco nello stesso scenario.

Neve. Strada bianca e scivolosa. Silenzio tutto intorno, il silenzio irreale delle nevicate.

E una moto che corre.

E allora vediamocelo, sto film schifoso, con la fine già scritta.

Lo conosco a memoria, come quell'altro, lurido e infangato, su quella dannata manifestazione. Li ho visti così tante volte che adesso non ho più neanche la nausea, alla fine. Così, lascio libera la mente. Anche perché, a volte, la forza per trattenerla mi manca proprio.

La moto corre. L'aria è fredda, ghiaccio puro, ti taglia la pelle, il sorriso, il fiato.

La neve continua a cadere, soffice, sul casco. Sulle mani. Sulla strada.

Intorno, la vastità sconfinata dei paesaggi bianchi. Quel nuovo universo che ogni volta ti si apre davanti agli occhi.

Fuori il freddo dell'inverno.

Dentro, il caldo della vita. Una vita che pulsa nelle vene, feroce, gioiosa. Aria che entra gelida ed esce bollente. Pensieri di gioia rabbiosa, colorati, definiti. Ebbrezza. Senso di potenza. Voglia di vivere. Quella voglia di vivere sempre intrappolata nelle iridi di Robi, identica alla mia, identica alla tua. E identica a quella di tutti gli altri.

Sento tutto questo come se ci fossi io, su quella moto. Addirittura il cuore accelera, per adeguarsi al ritmo delle pulsazioni di Robi. Perché conosco Robi, so cosa gli scorreva nel sangue, quella sera. La stessa linfa bollente che lo prendeva quando suonava. Quel miracolo che lo accendeva ogni volta.

E anche Robi la conosceva bene, quella sensazione.

E il seguito sembra assurdo.

"Sull'autostrada cercavi la vita ma ti ha incontrato la morte". Solita storia, né più ne menò.

Solo perché è successo a Robi, non vuol dire che sia diverso.

Un ostacolo non visto, un volo.

L'atterraggio sulla neve. L'urto. Il dolore delle costole fracassate. Della testa spaccata. Il dolore. Istantaneo, breve. Accecante come la neve.

E poi, niente. La lontananza del corpo. Di quello stesso dolore.

La morte. Solo intravista, non si è fermata.

La ragazza di Kurosawa ti ha guardato e se n'è tornata indietro, lasciandoti chiuso nel tuo corpo, a bruciare per il desiderio della sua mano bianca.

E tutto il resto è storia.

Io, qua seduto, lo leggo tra le tue ciglia, quel che è successo dopo.

Quel vuoto incalcolabile, incomprensibile, dove sei sperso. E da cui stai cercando di uscire. Con tutto il mondo che ti tira dalla parte sbagliata.

Ho voglia di baciarlo, Alberto.

Baciarlo e dirgli "Vedrai, passerà anche questo. Ci riuscirai, a mollare tutto. Ci riusciremo" sfiorargli le guance con un sorriso e dirgli "Ti aiuterò".

E invece resto qui, immobile, a fissare il suo volto lunare, mentre il biancore m'inghiotte e il film riparte….

 

Credo che un amore così sia negato ai beati,

perché è la fiamma di un fuoco che tramanda la morte,

perché i beati non sanno le stanze d'affitto,

hanno paura del buio e delle parole,

perché le donne di fiume non sono mai beate.

Claudio Lolli

 

Oggi il cielo è nero. Fuori piove.

La pioggia non le lava, le strade. Le sporca ancora di più.

È acqua contaminata, Alberto.

Come certa gente, che anche se ti sfiora per pulirti ti lascia più lercio di prima.

No, non mi è successo niente, stai tranquillo.

È tutto come ieri e l'altro ieri. E il giorno prima ancora.

L'unica differenza è che oggi piove. E che nella mia testa gira un'idea.

È tutta la notte che sto seduto sul davanzale. Guardo le gocce cadere, penso.

Ti sai preoccupando, vero? Perché lo sai, che quando io rifletto, di solito dopo faccio una cazzata.

E probabilmente sarà così anche sta volta.

Ma non riesco a farne a meno. Quel pensiero continua ad agitarsi, come una lucciola impazzita. E io devo liberarla. Farla scappare. Perché le lucciole sono fragili, delicate. Se gli togli il loro lumino, quella luce gialla che le rende incantevoli, sono brutte e goffe. Come noi.

Sono due giorni che non dormo, per colpa sua. Perché devo afferrarla.

Anche se adesso il sonno sta arrivando.

Presto non resisterò più, gli occhi si chiuderanno e la lucciola si spegnerà, piena di vergogna. E non deve accadere.

Nessuno dovrebbe avere il potere di chiudere un animale in gabbia. E se qualcuno lo fa, si deve trovare il modo di liberarlo.

È l'unica forma di protesta che ci resta, la complicità.

È l'unica forma d'amore che ci sia concessa, la ribellione.

 

Sempre più spesso, nell'espirazione confondendo

i singhiozzi, assisto impietrito alle messe di requie.

Ho preso con gli occhi ad intendermi,

perché si intendano essi con le lacrime.

 

Non solo piangere volevo - come cane ululare quando

di bara tinta di fresco, di nuovo si diffuse odore

e accanto, la tomba inghiottiva l'amico e per piangere

non c'erano forze, né forza c'era per non piangere

Evgenij Evtušenko

 

Basta.

Basta, Alberto.

L'ho fatto.

Sto qui, sulla tua collina. Coricato, l'erba tra i capelli. Gli occhi incollati al cielo.

Respiro. Calmo, sereno. Finalmente.

Gli alberi intorno si muovono con il vento, cantano con lui.

E Robi è morto.

Gli ho staccato il respiratore. Il coso, insomma. L'impianto.

L'ho fatto.

La decisione finale, lo sai, l'ho presa ieri notte. Con lo sguardo che correva tra le gocce.

Perché, se non lo facevo io, il suo migliore amico, chi avrebbe potuto?

Stamattina mi sono alzato presto. Ho mangiato, bevuto. Salutato chi era in casa. Credo che si siano stupiti. Erano settimane che non parlavo più.

Ho chiuso piano la porta alle mie spalle.

Sono entrato in ospedale, percorso quel labirinto asettico. Salutato l'infermiera.

Robi sembrava più puro e immobile del solito. Felice. Come se avesse capito.

L'ho guardato per tanto, immobile, in piedi le braccia lungo i fianchi.

Cercando il coraggio.

Perché, togliere una vita, la vita del tuo migliore amico poi, non è mai facile. Nemmeno se è lui a chiedertelo.

E poi l'ho fatto. Come ti avevo detto.

L'ho baciato sulla fronte. Passato le dita tra i capelli. Sorriso.

E staccato tutto.

Ogni flebo, lentamente. Per non fargli male. Perché volevo che lo capisse, che era libero.

Che non l'avrebbero più torturato con i loro aghi.

Ho tolto i tubi dalla bocca.

Ho sfiorato le labbra, erano morbide e calde come se fosse vivo.

L'ho baciato di nuovo. E quando mi sono alzato aveva le guance bagnate. Per un attimo ho pensato che fosse un segno, ma poi ho capito che erano le mie lacrime. Avevo continuato a piangere per tutto il tempo.

Me le sono asciugate e sono uscito.

Ho salutato di nuovo l'infermiera.

E sono venuto qui.

E adesso sto seduto sull'erba, e guardo sempre il cielo.

E sento di nuovo di amare questo mondo.

Prima sono andato al cimitero, sai?

Davanti alla tua pietra. C'erano ancora tanti fiori, lettere. Io la mia ho deciso di non dartela. Tanto, era inutile. E stupido. Non è certo così che potrai sentirmi.

Ce l'ho ancora in tasca. Nel giubbotto, dove tengo sempre tutto.

Avrei voluto bruciarla, ma non avevo l'accendino. Così resta lì. È più giusto, in fondo.

Sono venuto qua con Robi, il giorno del funerale. All'inizio avevamo deciso di non partecipare, poi ci abbiamo ripensato. Non riuscivamo a starti lontano.

Indossavo lo stesso giubbotto, quel giorno. E anche allora avevo in tasca una lettera che non sono riuscito a darti. Non sai quante ne ho, a casa, di quelle. Un cassetto pieno.

Robi aveva i pugni stretti, e gli occhi assenti. Non piangeva, Robi. Neanche io.

Abbiamo pianto dopo, quando siamo venuti qua. Soli.

Avevamo finto che quello fosse il tuo vero funerale, e l'altro una finzione data in pasto ai curiosi.

Avevamo fatto tutto per bene, la cerimonia, le parole. Lacrime e ricordi. Accuse e promesse.

Le ceneri da spargere le avevamo ricavate da un paio di tue fotografie.

Era strano. Non c'era il sole, quel giorno. Robi era crollato per primo. Stremato, dolorante. Nel cuore. E nel corpo, per le botte dei giorni prima.

Aveva pianto rannicchiato su se stesso. Per ore.

Io ero andato avanti fino in fondo. Con la lucidità che mi viene quando non penso più a niente e vado in automatico. Sai, no, occhi sgranati e labbra allucinate. Pallore mortale per entrambi.

Senza forze né per piangere né per non piangere, come diceva Evtušenko.

E poi avevo ripercorso quella giornata. Con Robi che si stringeva la giacca al petto e mi guardava con tutto il dolore dei suoi occhi grigioazzurri.

E la manifestazione ci aveva ripresi, nel suo flusso di ricordi.

Il sole, il blu del cielo. I colori delle facce e dei discorsi. Gli striscioni. E noi che ballavamo e saltavamo in mezzo agli altri.

Il sole. Che illuminava la gioia. E gli elmetti della polizia.

E poi l'odio. Le cariche. La rabbia. La paura, i pianti. Andiamo via.

Il sole. Che batteva sulle teste. Andiamo via, Alberto. Non ci penso nemmeno. Alberto, è da coglioni, andiamocene, quelli ci massacrano. E gli altri li molliamo qui? Il sole. Cosa vuoi farci, tutti cercano di scappare, non possiamo fare i baby-sitter, ti prego, andiamo. Tu fermo. E il sole. Che ti illuminava, come a darti ragione. Mentre dicevi Io resto qui.

E di nuovo la rabbia, e il sapore del sangue. E poi quella cazzo di pietra nella tua mano.

E allora nemmeno ci pensai, nemmeno mi sembrò strano. Cosa vuoi fare, stare fermo a prenderti le botte? Quando non hai fatto altro che ballare e ridere fino ad allora? Mica siamo Gandhi! E quindi reagiamo, forza. Soltanto che, una pietra, cosa può fare? Eh, Alberto, me lo dici? Cosa può fare contro le pallottole? È la solita storia, certo "Nella realtà è sempre Golia a vincere ma non per questo Davide smetterà di guardarsi intorno, cercando una pietra da scagliare". Sicuro, Cacucci ha ragione. Lo so. Ma tu eri lì, in piedi. Con quel sasso in mano. Così tenero, e irrimediabilmente perdente. Una pietra, Alberto…cosa volevi fare? Quello che volevamo fare tutti. Solo qualcosa per farli smettere. Ma una pietra…cosa speravi?

Non speravi niente, lo so, nemmeno pensavi. Eri solo incazzato che se la prendessero con noi. E avevi ragione.

Solo che gli altri non l'hanno capito. E, in mezzo a tutti quei ragazzi con le pietre in mano, in mezzo a quei ventenni arrabbiati e innocenti, hanno preso te. Saranno stati i tuoi occhi. Così caldi, troppo per quella giornata già bollente. Sarà stata la tua posizione fiera, la posizione di tutti i tiratori di pietre del mondo. O il tuo sorriso, che sembrava sputargli in faccia, a loro e a tutto il potere che gli stava dietro. A tutti quelli che avevano il coltello dalla parte del manico.

Hanno preso te. O forse sarà stato quel fottuto destino, a guidare gli occhi del celerino dritti nei tuoi, e la sua pallottola nella tua pancia, o forse il vento, caldo e secco, frustrante, che ti ha spinto a muoverti in quell'istante preciso. E fatale.

Hanno preso te, Alberto. In pieno stomaco, come un pugno di lava.

E il colpo è stato così forte da far ammutolire tutti. Sia da una parte che dall'altra.

Perché in questo mondo non esistono il bene e il male. Puri. Quella è una favoletta che vogliono farti credere i potenti. Chiaramente, mettendo loro tra i buoni. E te che non ci credi, tra i fottuti terroristi da ammazzare senza battere ciglio.

Ma tu lo sai, Alberto. Che nel mondo esistono solo gli uomini. E quello che ti ha sparato non era biologicamente diverso da te. Aveva anche lui due occhi, una bocca. Un cuore. Magari seppellito sotto qualche chilo di medaglie. Anche lui avrà amato, odiato. Con la tua stessa intensità, l'intensità di tutti. Anche lui avrà fatto l'amore e pianto.

Forse anche i suoi occhi, un giorno, saranno stati caldi come i tuoi. Altrettanto visionari e brucianti. Altrettanto giovani.

E anche lui e i suoi colleghi, in quell'istante, si sono azzittiti.

Mentre io crollavo in ginocchio e Robi si metteva a correre verso di loro, unica figura mobile in un teatrino di morte, prima di venire atterrato da un amico, stretto tra le sue braccia protettive e stanche. E tu morivi. Solo, in mezzo a noi.

Alberto, non ricordo cosa ho pensato, quel giorno. So solo che il sole continuava a scottarmi la pelle, e scottava anche te. E il freddo che ci saliva dentro non bastava per cancellare il bruciore.

In quel momento però ho odiato tutti. Un odio gelido, per quelli che, insieme al celerino, avevano premuto quel grilletto. Tutte le mani sporche e schifose che ti avevano ucciso giorno dopo giorno.

Ho odiato te per non avermi ascoltato, quelli intorno per l'alone di mito che ti stavano già confezionando, loro per averti ammazzato, Robi per non averti convinto. E me, per tutto.

E adesso, continuo ad odiare con la stessa intensità, lo sai. Solo che ormai sono stanco anche dell'odio. Quel disgusto che mi accompagna è dovuto a lui. Al mostro nero.

E così, avevo deciso di darci un taglio netto. Con tutto.

Ho in mano la pistola. Ma mi manca il coraggio, per sparare. Non ci riesco. Lo scopro ora, con terrore.

L'amore per la vita è più forte anche del desiderio di lasciare il mondo.

Adesso non so cosa mi succederà. Per Robi, intendo.

Secondo la legge, l'ho ucciso.

E sono pronto a scontare la pena che mi danno. È meglio che vivere col peso di aver condannato una persona che amavi a quella pseudovita.

E resto qui. Aspetto che vengano a prendermi. Se verranno.

Ho la pistola in grembo.

Però mi sono spostato all'ombra. Mi preparo ad una lunga attesa, e il sole sembra intenzionato a cuocermi del tutto i pensieri.

E io, ai suoi raggi luminosi, ho sempre preferito l'ombra dei tigli.

 

   
 
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