L'OMBRA DEI TIGLI
Dovete credere che nessun
mondo, che niente né nessuno
vale più di una vita o
dell'allegria di averla.
È questo che più conta –
questa allegria.
Dovete credere che la
dignità di cui tanto vi parleranno
non è altro che questa allegria che viene
dal sentirsi vivo e sapere che mai una volta
uno sarà meno vivo o soffrirà o morirà
perché uno solo di voi resista un po’ di più
alla morte
che è di tutti e verrà.
Jorge de Sena
È notte, e io sono in riva al mare.
Seduto, sulla sabbia bagnata. Solo. Fumo.
Fisso lo sguardo sull'orizzonte, quella linea indistinguibile, a quest'ora, che separa mare e cielo.
Fumo e penso.
A volte mi dimentico della sigaretta, e la lascio consumare tutta,
fino a bruciarmi le dita. Allora la getto via, con un gesto rabbioso, simile a
quelli di Robi, e ne accendo un'altra, in fretta. La fiamma si accosta al viso,
illuminandolo. Allora riesco a vedere intorno a me, cercare di capire. Fino a
che non si spegne. Mi piace, quest'idea. Puoi leggerla come una metafora della
vita, se ti va.
Sarà la decima sigaretta che mi faccio fuori, in un'ora e mezzo che
sono qui.
Si, lo so, lo so che avevo smesso. Che l'avevo giurato, a te e a Robi. Ma tu adesso non sei qui, e Robi anche se volesse non potrebbe dirmi niente.
Prendine atto, Alberto. Non potete fare più nulla, per impedirmi di
ammazzarmi.
Potrei andare a nascondermi in qualche squallido albergo e farmi
saltare le cervella, e passerebbero mesi prima che a qualcuno venisse in mente
di cercarmi. E non è escluso che prima o poi non lo faccia.
Sul serio, Alberto, non ci riesco più. È troppo pesante da sopportare.
Questa attesa mi sta logorando. Mi guardo allo specchio e non mi riconosco.
Sono dimagrito, e gli occhi sono diventati opachi. Sembro un tossico.
Uno di quei poveracci che vedi morti su una panchina con una siringa nel
braccio. A volte mi gingillo con l'idea di cominciare a farmi. Inizio a capire
cosa spinga un ragazzino ad iniettarsi quello schifo nelle vene. È un modo come
un altro per provare a cambiarti il sangue. Nell'illusione che basti questo per
cambiare anche la tua vita.
Comunque, non ci ho mai pensato davvero seriamente. Sono troppo pigro
anche per andare a cercarmi la roba, credo. No, molto meglio spararsi subito un
colpo. Più semplice, più pulito. E con lo stesso risultato. Perché ormai non ho
paura di ammettere che l'unica cosa che mi interessa è mollare questa vita di
merda. Andarmene, senza nemmeno fare ciao con la mano. E anche Robi la pensa
come me, dal fondo del pozzo dove è finito. Lo sento. Anche lui non chiede di
meglio che la chiave per uscire da questa fetida stanza che chiamano mondo.
A volte lo guardo, così sereno e puro, gli occhi chiusi e le labbra
distese, e penso che stanno sbagliando tutto, a cercare di riportarlo qua.
Perché sono sicuro che è l'ultima cosa che Robi vuole.
Ma, per ora, questi propositi suicidi restano solo nella mia testa.
Mi sono limitato a ricominciare a fumare. Rabbiosamente, immaginando
quel fumo nero e spesso andare ad attaccare i polmoni, ridurli ad un ammasso
bucherellato, fragile come carta bruciata, e poi divorarmi tutto da dentro,
come spettri malefici. Me li figuro mentre stringono il cuore in una morsa
venefica, soffocandolo pian piano. Penso a tutto questo e mi sento pieno di una
gioia perversa, malata. L'unica gioia che ho provato da quando Robi ha avuto
l'incidente.
Anche adesso che sono qua, seduto sul bagnasciuga, con gli occhi fissi
sulle onde che salgono fino a sfiorarmi i piedi per poi ritrarsi, sento quella
malefica allegria agitarsi dentro, nervosa. Non si calma mai, non si ferma.
Anche quando dormo, si intrufola nei sogni, trasformandoli in incubi sordi e
cupi. È una forza primordiale, come quella voglia di vivere che una volta mi
spingeva a muovermi in continuazione, per bersi ogni viso, mangiarsi ogni
suono, mai stanca, mai cheta. Quella stessa allegria, quella che De Sena aveva
descritto così bene, ti ricordi?, proprio lei, il motore della mia vita. Ormai
l'ho smarrita. E l'odio che nutro verso la cosa che ha preso il suo
posto non fa che alimentarla, dandole ogni giorno la forza di rubare qualche
altra cellula del mio corpo.
È per sfuggire a lei, che a volte mi sblocco e vado via. Via dalla mia
casa, dalla mia stanza. Dalla mia vita.
Vado in ospedale, raggiungo Robi. Mi siedo accanto al suo letto e sto
lì. Passo ore intere a fissare il suo viso pallido, senza dire niente. Penso a
te, a lui, a noi. Chiudo gli occhi e cerco di ricordarmi il colore dei vostri.
Il tuo nocciola e il suo grigioazzurro.
Piango. Oppure vomito. E dopo sto meglio, come se mi fossi liberato
del mostro che mi divora.
Ma appena esco fuori, la città sembra volermi soffocare, rabbiosa, mi
copre del suo odio vischioso, come il petrolio delle navi che s'incagliano. E
io ricomincio a morire in silenzio, come i gabbiani di Sepùlveda.
Quando il dolore o il disgusto sono troppo forti, prendo la moto e
scappo. Lascio che sia l'odore delle strade a guidarmi, così mi ritrovo in un
posto che avevo visto con voi. Dove avevo speso qualche spicchio della mia esistenza,
gli spicchi più veri, spremuti con i vostri per berli insieme.
Oggi sono venuto qua. Ho viaggiato per ore, sono arrivato al tramonto.
Mi sono seduto sulla scalinata di pietra, il primo gradino, e ho
lasciato lo sguardo libero di fissarsi dove voleva. E intanto, ricordavo il
giorno che eravamo stati qui.
Il cielo plumbeo, che colorava il mare mosso e freddo della sua stessa
sfumatura. L'aria autunnale che ci spettinava i capelli. Le nostre giacche a
vento.
Mi sembrava di rivederlo, Robi. Appoggiato al muretto con le mani in
tasca e il Tirreno dietro.
Cupo come i suoi romanzi gotici.
Quel pomeriggio i suoi occhi sembravano strappati al mare, erano
altrettanto liquidi e rabbiosi. Le ragazze che passavano, anche se di fretta,
si voltavano a guardarlo, attratte dal suo viso gelido e inespressivo. Lui
neanche le vedeva.
Io avevo voglia di dargli una spinta e farlo cadere giù. Vedere se il
sale dell'acqua riusciva a lavargli via il dolore, disinfettargli la ferita.
Avevo voglia di afferrarlo per il colletto del giaccone e fissarlo in quegli
occhi freddi, urlargli in faccia, a due centimetri dal naso, di smetterla,
farsi furbo, che non poteva permettere che una stronza gli rovinasse la vita.
Avevo voglia di prenderlo a sberle fino a farlo piangere, o almeno battere le
palpebre, spostare lo sguardo. Reagire.
Ma tu eri di fianco a me, silenzioso, a irradiare serenità e guardami
con i tuoi occhi caldi, ti ricordi? Sembrava che mi dicessi lasciamogli tempo,
facciamolo riprendere. Deve uscirne da solo. Superare la cosa. Noi non possiamo
fare niente. Avevi ragione, coglione. Come sempre.
Ma io non lo capivo, era troppo diverso da me, Robi. Non capivo le
passioni che si agitavano dietro ai suoi occhi azzurri, vedevo solo la loro
immobilità. Io quel giorno avrei urlato, pianto, spaccato quel che mi capitava
a tiro. Lui se n'era andato silenzioso come un fantasma, chiuso dietro il suo
muro.
Era durato così due settimane, ricordi, prima di sciogliersi in
singhiozzi, tra le tue braccia. Per te deve essere stato duro, quel periodo.
Trattenere Robi dal cadere in depressione e me dal polverizzare Laura.
A volte mi chiedo cosa sarebbe successo se quel giorno non fosse
tornato da lei. Sai, tipo quel film, Sliding Doors. Ecco, se Robi non avesse
dimenticato quel cd. Se non fosse tornato da Laura. O se Stefano, per un motivo
o per l'altro, non avesse potuto raggiungerla. Se ci fosse finito lui, a fare
l'amore con la sua ragazza, invece che restare sulla porta a guardare Laura e
Stefano a letto.
Sarebbe cambiato tutto.
Forse, anzi, sicuramente Laura avrebbe mollato Stefano, e Robi non
l'avrebbe mai saputo. O magari glielo avrebbe confessato due anni dopo, e lui
l'avrebbe perdonata.
Forse adesso non sarebbe su quel cazzo di letto d'ospedale, con gli
occhi chiusi e sessantatre flebo infilate nelle vene.
Forse, quella sera di merda, sarebbe stato con lei, invece che sulla
moto, a guidare come un coglione su una strada piena di neve, per poi
ritrovarsi in un fosso, con la testa spaccata e tutte le costole rotte e
l'anima chissà dove.
E io non sarei qui, a fumarmi la quindicesima sigaretta consecutiva, a farmi mangiare vivo da questa merda di mostriciattolo, e guardare il mare nero pensando a te, il terzo stronzo, che ha pensato bene, ad un certo punto, di cominciare anche lui a fare le cazzate. Così da non lasciare più a nessuno il compito di raccogliere i cocci.
Merda, Alberto. Non lo senti, tu, questo odore di marcio, ovunque vai,
questa "voglia di piangere forte come una fame", questo vomito per
tutto quello che ti sta intorno?
Io sì, e non so fare altro che restare qui, ad aspettare l'alba su una
spiaggia bagnata, fumando una sigaretta dietro l'altra, fino a che il sonno non
decide di prendermi, come una puntura d'anestesia. E la luce grigia di questo
mondo agonizzante non va a sfumarsi in quella rossastra e dolorosa di sogni
altrettanto malati.
Aprire gli occhi e morire in
un fruscio di farfalla
neanche il tempo di una ninna nanna,
l'idiozia della luna, la follia di sognare,
la sterminata noia che prova il mare.
E a questa assurda preghiera di parole, musica,
colori, che gli continuiamo a mandare,
non c'è
nessuna risposta, salvo che è colpa nostra
e che ci dovevamo pensare.
Ma che razza di dio c'è nel cielo?
Roberto Vecchioni
Camera mia ormai è un santuario. Un tempio pagano. Tutto è nero. Finestre sempre sbarrate, tende tirate. Nessuna luce. Da qualche tempo non la sopporto più. L'unica che resta è quella verde e lampeggiante dello stereo.
Ho gli occhi chiusi, la testa appoggiata al muro.
Ascolto i Clash suonare The guns of Brixton. La canzone più
claustrofobica di tutto il disco.
Sono due giorni che ascolto solo quella.
Da quando sono tornato dal mare, per l'esattezza. Mi sono chiuso qui,
ho infilato London Calling nel lettore e non mi sono più mosso.
Due giorni.
Sai cosa significa stare due giorni in una stanza? Senza trovare la
forza di alzarti nemmeno per andare a mangiare un boccone?
Sono uscito solo stanotte. Erano le tre. Sono sgusciato dentro il bagno come un'ombra. Ho provato a bere. Una sorsata d'acqua, dal rubinetto. Ho sentito che mi si stringeva la gola, ma l'ho mandata giù a forza. Per poi rovesciarmi subito sulla tazza a vomitarla.
Non so cosa sta succedendo. All'inizio non era così.
L'unica nota positiva è che non ho fumato. Solo l'idea mi rivoltava lo
stomaco. Sarai soddisfatto, no?
Cristo, Alberto. Mi sembra di averti qui. Di vedere il tuo sguardo di
disapprovazione.
Ma che devo fare? Cosa posso fare? Me lo dici tu?
No. Non puoi. Né te, né Robi. E quindi, non rompere il cazzo. Almeno
finché non riesci a propormi un'alternativa.
Sai, non sono più andato da Robi. Tanto non cambia niente, che io ci
vada o no. Lui resta il solito vegetale sempre. In entrambi i casi.
Non che abbia mai pensato di farlo ritornare. L'ho capito subito,
appena l'ho visto coricato lì, che potevo dirgli addio. Ma, lo sai, è
impossibile scacciare tutte le illusioni. Qualcuna rimane. Sempre. Nascosta
negli angoli più bui del cervello, pronta a scattare sull'attenti, eccitata
come una scarica elettrica, al minimo variare di luce sul suo viso latteo, a
suggerire un leggero rossore o un tremito.
E tu hai un bel convincerti che sono tutte balle, perché intanto il
respiro è già diventato affannoso, il cuore è partito in una corsa sfrenata e
negli occhi si è acceso un bagliore devoto.
E tutto per colpa di quella maledetta, piccola vestigia del tuo
romanticismo infantile.
Il tempo dove i libri, i film e le canzoni finivano con gioia e
allegria, amore e felicità.
Tutte quelle cazzate che ti propinano da piccolo solo per farti
soffrire di più. Per ingannarti, illuderti che il mondo è così.
Che vincono sempre i buoni.
Per fotterti meglio, dopo.
Perché nella vita non è così. Nella vita non ci sono i buoni che
vincono e i cattivi che perdono. Noi non siamo Topolino e Gambadilegno. Siamo
uomini. Uomini stronzi e crudeli. Idioti. Rozzi e insensati. Assurdi.
Mostruosi.
E siamo noi a fare le regole. Ce lo cuciamo addosso da soli, sto
schifo di mondo.
Dove i ragazzini vengono fucilati per avere detto una parola
sbagliata. Dove i bambini vengono dilaniati dalle mine antiuomo. Dove gli
uomini si massacrano. Violentano culture, terre, occhi.
Dove a volte non ti lasciano vedere altre possibilità che spararti un
colpo in testa, o gettarti giù dal quinto piano, lo sguardo alzato verso il
cielo che ti hanno promesso.
Dove puoi morire investito da un tram. O ammazzato da un proiettile in
una manifestazione.
Dove a volte stai guidando la tua moto, una sera, la tua moto che
guidi da anni, su una qualsiasi cazzo di strada, e cade la neve e tu stai
pensando a chissà quale idiozia e poi ti ritrovi a terra, tra le tue ossa
rotte, imprigionato dentro alle tue stesse pupille. Talmente lontano dal tuo
corpo da non sentire nemmeno più il suo dolore.
Questo è il mondo.
E in un mondo come questo, se un ragazzo di vent'anni finisce in coma,
non n'esce più.
E di certo non lo fa sotto lo sguardo palpitante del suo migliore amico.
Punto. E basta.
E adesso vattene, Alberto, perché devo di nuovo vomitare.
Poi il resto viene sempre da
se
i tuoi "Aiuto" saranno ancora salvati
io mi dico è stato meglio lasciarci
che non esserci mai incontrati.
Fabrizio De Andrè
Oggi è venuta Giulia a trovarmi. È lì, appoggiata alla libreria, le
mani nei suoi jeans attillati. Gli occhi che cercano i miei, come sempre.
Immagino che siano gli altri, ad averla mandata. Preoccupati perché,
guarda un po’, era qualche giorno che non mi facevo vedere.
Ma forse sbaglio a considerarla così. Giulia mi vuole davvero bene, lo
so.
E se mamma l'ha chiamata, dimostra di aver capito almeno una cosa, di
me.
Perché, a parte voi due, Giù è sempre stata l'unica persona che abbia
davvero ascoltato.
Cosa ti sei messo in testa?
Ha sempre quella voce dolce, Giuli, anche quando si prepara a farti
una sfuriata. Te la ricordi, Alberto? Quante prediche ci saremo sorbiti, da sta
ragazzina? L'ascoltavamo senza fiatare, solo perché era la cugina di Robi. E
perché era carina da morire.
Vuoi morire di fame?
La guardo di sottecchi, e mi sembra bella come allora. Con gli stessi riccioli castani che cadono sul viso latteo.
Diventare anoressico?
Mi guarda dritta con i suoi occhi chiari, gli stessi di Robi. Non ci
resistevamo, sotto quello sguardo, ti ricordi? Era impossibile, ogni volta ci
convinceva a fare le idiozie più colossali. Come travestirci da Calimero per
fare contenti i bimbetti dell'asilo. Io te e Robi, con i visi scuriti dal
carbone e un guscio di gesso in testa, sopra un palco a pigolare "Perché
sono piccolo e nero", tra le ovazioni di fans di cinque anni e le risate
dei nostri coetanei, piegati in due e con le lacrime agli occhi.
Ripeto, solo Giù poteva convincerci a fare una cosa simile.
Divertendoci, per di più.
Perché non ubriacarti e gettarti giù da un dirupo, allora.
Meglio non dirle che l'idea mi era anche venuta, ma l'avevo scartata
perché troppo faticosa.
Così le sorrido, affascinante.
Davvero, ho già così tanti casini che non ho bisogno di ritrovarmi
anche con te all'ospedale.
Giulia non lo capisce, qual è il mio problema. Lei Robi lo va a
trovare e non piange, non vomita, non urla. Gli parla, come farebbe se fosse
sveglio.
Come fa con me.
Bè, sempre meglio di quel che faccio io, no? Parlare con te…la mia
ultima cazzata, non ti sembra?
Io non so più dove sbattere la testa. E tu non mi aiuti certo, facendo
così il coglione.
Sta fumando. Non sapevo che avesse ricominciato anche lei. Ha gli
occhi fissi sulla finestra, la mano che tiene la sigaretta trema. Gli occhi
sembrano lucidi, ma il viso è di pietra. Marmo di Carrara.
Che ti è successo?
Lascia perdere, è meglio.
No, dai. Dimmelo.
Spegne la sigaretta, scuote i riccioli.
Marco mi ha lasciato.
Cazzo. Non lo dico, ma lo penso.
Aveva un'altra.
Merda. Ma è una caratteristica di famiglia?
Ride, ironica.
Non credo sia solo una nostra prerogativa.
Le sorrido. Non più per scherzo. Dolce. Come avrei fatto prima.
Le trema il labbro, non mi guarda. Poi crolla.
Si rannicchia a terra, comincia a piangere, singhiozzi, poi lacrime
vere. A fiumi. Spero che lavino tutta la tensione che ha accumulato in queste
ultime settimane.
Io resto appoggiato al muro, ma con una mano cambio disco. La voce di
Strummer si spegne per lasciare spazio a Mark Knopfler che canta Romeo and
Juliet.
Lei smette di piangere.
Ma vaffanculo!
Ridacchia quasi, adesso.
Hai visto Alberto? Ci sono riuscito. Per una volta meglio di come
avresti fatto tu. Perché a te, Giulietta, è sempre piaciuta un po’ troppo.
Vedendola piangere così saresti crollato con lei. A me, invece, insensibile
dopo i giorni di reclusione, il suo dolore mi ha solo sfiorato. E reagisco. È
la legge della vita. I più sensibili sono deboli. E i deboli soccombono. I duri
sono forti. E i forti vincono. Ci hanno sempre insegnato così, ed è inutile
cercare alternative: così è. Amen.
Che legge di merda, però…
Comunque, adesso il problema è un altro. Perché la mia Juliet è un po’
preoccupante. Ride un po’ troppo. Tra un po’ diventa isterica.
Giulia….
Lei si raggomitola contro di me. E ricomincia a piangere.
Era da tanto che non la stringevo. Forse da quando stavamo insieme.
Non mi avevi parlato per un mese. Robi ci faceva da intermediario. Se
proprio dovevi dirmi qualcosa e non avevi persone da coinvolgere, mi chiamavi
"Stronzo".
Bè, in fondo un po’ stronzo lo ero stato, avevi ragione.
Ma cosa potevo fare? Giulia ti moriva dietro e tu facevi finta di non
cagarla. Lei dopo un po’ si era rotta ed era venuta da me. E cosa avrei dovuto
fare? Mentirle? Dirle che non mi piaceva?
E solo perché tu eri un idiota con processi mentali incomprensibili?
"Non avevamo il diritto di toccarla"…che assurdità, Alberto!
Solo tu potevi tirare fuori ste cazzate. "È la cugina di Robi"
continuavi, con il naso per aria e gli occhi da giudice divino. Con Robi che
scuoteva la testa e diceva che eri sclerato.
A me Giulia piaceva. Non riuscivo a resisterle. Per un tuo principio,
poi!
Alla fine, comunque, mi aveva mollato. Per Marco.
Tu avevi deciso che mi avevi tenuto il muso abbastanza. Ti eri
presentato da me con un cd nuovo e il sorriso da riconciliazione.
Che coglione.
Comunque, tutto sommato, con Marco c'è stata bene per due anni.
E noi contenti per lei. No?
Solo che adesso è qui, che si annega nella mia maglietta fradicia, e
io non so cosa fare.
Proprio adesso che sono più fuori fase di lei e tutti gli altri messi
insieme! Adesso che ho la testa che ronza di cazzate assurde come quella di
prima sul più forte e il più debole, adesso che l'unica cosa che potrei dire
per aiutarla è "Guarda, va a trovare Robi. Vederlo là disteso fa bene,
sai? Vomiti un po’ e poi ti senti meglio".
Miseria, proprio adesso doveva farsi lasciare da quello stronzo?
Il vaso della vita, Alberto, è sempre più pieno, e non so quanto potrà
contenerne, ancora, di merda, prima di scoppiare.
E intanto Giulia continua a piangere.
Non lo sapevi che c'era la
morte, quando si è giovani è strano
poter pensare che la nostra sorte venga e ci prenda
per mano.
Vorrei sapere a che cosa è servito, vivere, amare,
soffrire
spendere tutti i tuoi giorni passati se così presto
sei dovuta partire.
Voglio però ricordarti com'eri, pensare che ancora
vivi,
voglio pensare che ancora mi ascolti e che come
allora sorridi.
Francesco Guccini
Robi non è cambiato, in una settimana.
Sempre bianco, sempre immobile, sempre freddo, sempre statuario.
Sempre bello.
Sono seduto vicino a lui.
Mi sembra impossibile che tutta la sua vita dipenda da quel pezzo di plastica. Quello schermo nero con la linea verde.
Che senza quei fili nemmeno respirerebbe. Robi.
Se gli tocchi la guancia, la senti gelata. Davvero. Sembra marmo.
Candido, puro, una statua di pietra. I capelli gli cadono lungo il viso, scuri.
È bello, lo sai, fragile.
Stringe il cuore, sembra impossibile che sia in quel limbo. Robi.
Io non gli parlo. Tutti mi dicono che dovrei farlo, per aiutarlo, ma
non ci riesco.
Mi sembra di essere cretino, e tu non ridere, Alberto. Perché è così.
Appena apro bocca sento una valanga che vuole uscire, una lava di parole
violente, incazzate. Come ogni volta che vedo Robi immobile e rassegnato. Sento
il bisogno di urlargli in faccia quanto è stato coglione quella sera. Di
incolparlo di tutto, per scaricarmi la coscienza di una colpa che non ho. Ma
che mi pesa lo stesso.
Così, preferisco stare zitto.
Chiudo gli occhi, e penso.
Lascio andare l'immaginazione. Proietto film schizofrenici.
E, invariabilmente, finisco nello stesso scenario.
Neve. Strada bianca e scivolosa. Silenzio tutto intorno, il silenzio
irreale delle nevicate.
E una moto che corre.
E allora vediamocelo, sto film schifoso, con la fine già scritta.
Lo conosco a memoria, come quell'altro, lurido e infangato, su quella
dannata manifestazione. Li ho visti così tante volte che adesso non ho più
neanche la nausea, alla fine. Così, lascio libera la mente. Anche perché, a
volte, la forza per trattenerla mi manca proprio.
La moto corre. L'aria è fredda, ghiaccio puro, ti taglia la pelle, il
sorriso, il fiato.
La neve continua a cadere, soffice, sul casco. Sulle mani. Sulla
strada.
Intorno, la vastità sconfinata dei paesaggi bianchi. Quel nuovo
universo che ogni volta ti si apre davanti agli occhi.
Fuori il freddo dell'inverno.
Dentro, il caldo della vita. Una vita che pulsa nelle vene, feroce,
gioiosa. Aria che entra gelida ed esce bollente. Pensieri di gioia rabbiosa,
colorati, definiti. Ebbrezza. Senso di potenza. Voglia di vivere. Quella voglia
di vivere sempre intrappolata nelle iridi di Robi, identica alla mia, identica
alla tua. E identica a quella di tutti gli altri.
Sento tutto questo come se ci fossi io, su quella moto. Addirittura il
cuore accelera, per adeguarsi al ritmo delle pulsazioni di Robi. Perché conosco
Robi, so cosa gli scorreva nel sangue, quella sera. La stessa linfa bollente
che lo prendeva quando suonava. Quel miracolo che lo accendeva ogni volta.
E anche Robi la conosceva bene, quella sensazione.
E il seguito sembra assurdo.
"Sull'autostrada cercavi la vita ma ti ha incontrato la
morte". Solita storia, né più ne menò.
Solo perché è successo a Robi, non vuol dire che sia diverso.
Un ostacolo non visto, un volo.
L'atterraggio sulla neve. L'urto. Il dolore delle costole fracassate.
Della testa spaccata. Il dolore. Istantaneo, breve. Accecante come la neve.
E poi, niente. La lontananza del corpo. Di quello stesso dolore.
La morte. Solo intravista, non si è fermata.
La ragazza di Kurosawa ti ha guardato e se n'è tornata indietro,
lasciandoti chiuso nel tuo corpo, a bruciare per il desiderio della sua mano
bianca.
E tutto il resto è storia.
Io, qua seduto, lo leggo tra le tue ciglia, quel che è successo dopo.
Quel vuoto incalcolabile, incomprensibile, dove sei sperso. E da cui
stai cercando di uscire. Con tutto il mondo che ti tira dalla parte sbagliata.
Ho voglia di baciarlo, Alberto.
Baciarlo e dirgli "Vedrai, passerà anche questo. Ci riuscirai, a
mollare tutto. Ci riusciremo" sfiorargli le guance con un sorriso e dirgli
"Ti aiuterò".
E invece resto qui, immobile, a fissare il suo volto lunare, mentre il
biancore m'inghiotte e il film riparte….
Credo che un amore così sia negato ai beati,
perché è la fiamma di un fuoco che tramanda la
morte,
perché i beati non sanno le stanze d'affitto,
hanno paura del buio e delle parole,
perché le donne di fiume non sono mai beate.
Claudio Lolli
Oggi il cielo è nero. Fuori piove.
La pioggia non le lava, le strade. Le sporca ancora di più.
È acqua contaminata, Alberto.
Come certa gente, che anche se ti sfiora per pulirti ti lascia più
lercio di prima.
No, non mi è successo niente, stai tranquillo.
È tutto come ieri e l'altro ieri. E il giorno prima ancora.
L'unica differenza è che oggi piove. E che nella mia testa gira
un'idea.
È tutta la notte che sto seduto sul davanzale. Guardo le gocce cadere,
penso.
Ti sai preoccupando, vero? Perché lo sai, che quando io rifletto, di
solito dopo faccio una cazzata.
E probabilmente sarà così anche sta volta.
Ma non riesco a farne a meno. Quel pensiero continua ad agitarsi, come
una lucciola impazzita. E io devo liberarla. Farla scappare. Perché le lucciole
sono fragili, delicate. Se gli togli il loro lumino, quella luce gialla che le
rende incantevoli, sono brutte e goffe. Come noi.
Sono due giorni che non dormo, per colpa sua. Perché devo afferrarla.
Anche se adesso il sonno sta arrivando.
Presto non resisterò più, gli occhi si chiuderanno e la lucciola si
spegnerà, piena di vergogna. E non deve accadere.
Nessuno dovrebbe avere il potere di chiudere un animale in gabbia. E
se qualcuno lo fa, si deve trovare il modo di liberarlo.
È l'unica forma di protesta che ci resta, la complicità.
È l'unica forma d'amore che ci sia concessa, la ribellione.
Sempre più spesso, nell'espirazione confondendo
i singhiozzi, assisto impietrito alle messe di
requie.
Ho preso con gli occhi ad intendermi,
perché si intendano essi con le lacrime.
Non solo piangere volevo - come cane ululare quando
di bara tinta di fresco, di nuovo si diffuse odore
e accanto, la tomba inghiottiva l'amico e per
piangere
non c'erano forze, né forza c'era per non piangere
Evgenij Evtušenko
Basta.
Basta, Alberto.
L'ho fatto.
Sto qui, sulla tua collina. Coricato, l'erba tra i capelli. Gli occhi
incollati al cielo.
Respiro. Calmo, sereno. Finalmente.
Gli alberi intorno si muovono con il vento, cantano con lui.
E Robi è morto.
Gli ho staccato il respiratore. Il coso, insomma. L'impianto.
L'ho fatto.
La decisione finale, lo sai, l'ho presa ieri notte. Con lo sguardo che
correva tra le gocce.
Perché, se non lo facevo io, il suo migliore amico, chi avrebbe
potuto?
Stamattina mi sono alzato presto. Ho mangiato, bevuto. Salutato chi
era in casa. Credo che si siano stupiti. Erano settimane che non parlavo più.
Ho chiuso piano la porta alle mie spalle.
Sono entrato in ospedale, percorso quel labirinto asettico. Salutato
l'infermiera.
Robi sembrava più puro e immobile del solito. Felice. Come se avesse
capito.
L'ho guardato per tanto, immobile, in piedi le braccia lungo i
fianchi.
Cercando il coraggio.
Perché, togliere una vita, la vita del tuo migliore amico poi, non è
mai facile. Nemmeno se è lui a chiedertelo.
E poi l'ho fatto. Come ti avevo detto.
L'ho baciato sulla fronte. Passato le dita tra i capelli. Sorriso.
E staccato tutto.
Ogni flebo, lentamente. Per non fargli male. Perché volevo che lo
capisse, che era libero.
Che non l'avrebbero più torturato con i loro aghi.
Ho tolto i tubi dalla bocca.
Ho sfiorato le labbra, erano morbide e calde come se fosse vivo.
L'ho baciato di nuovo. E quando mi sono alzato aveva le guance
bagnate. Per un attimo ho pensato che fosse un segno, ma poi ho capito che
erano le mie lacrime. Avevo continuato a piangere per tutto il tempo.
Me le sono asciugate e sono uscito.
Ho salutato di nuovo l'infermiera.
E sono venuto qui.
E adesso sto seduto sull'erba, e guardo sempre il cielo.
E sento di nuovo di amare questo mondo.
Prima sono andato al cimitero, sai?
Davanti alla tua pietra. C'erano ancora tanti fiori, lettere. Io la
mia ho deciso di non dartela. Tanto, era inutile. E stupido. Non è certo così
che potrai sentirmi.
Ce l'ho ancora in tasca. Nel giubbotto, dove tengo sempre tutto.
Avrei voluto bruciarla, ma non avevo l'accendino. Così resta lì. È più
giusto, in fondo.
Sono venuto qua con Robi, il giorno del funerale. All'inizio avevamo
deciso di non partecipare, poi ci abbiamo ripensato. Non riuscivamo a starti
lontano.
Indossavo lo stesso giubbotto, quel giorno. E anche allora avevo in
tasca una lettera che non sono riuscito a darti. Non sai quante ne ho, a casa,
di quelle. Un cassetto pieno.
Robi aveva i pugni stretti, e gli occhi assenti. Non piangeva, Robi.
Neanche io.
Abbiamo pianto dopo, quando siamo venuti qua. Soli.
Avevamo finto che quello fosse il tuo vero funerale, e l'altro una
finzione data in pasto ai curiosi.
Avevamo fatto tutto per bene, la cerimonia, le parole. Lacrime e
ricordi. Accuse e promesse.
Le ceneri da spargere le avevamo ricavate da un paio di tue fotografie.
Era strano. Non c'era il sole, quel giorno. Robi era crollato per
primo. Stremato, dolorante. Nel cuore. E nel corpo, per le botte dei giorni
prima.
Aveva pianto rannicchiato su se stesso. Per ore.
Io ero andato avanti fino in fondo. Con la lucidità che mi viene
quando non penso più a niente e vado in automatico. Sai, no, occhi sgranati e
labbra allucinate. Pallore mortale per entrambi.
Senza forze né per piangere né per non piangere, come diceva Evtušenko.
E poi avevo ripercorso quella giornata. Con Robi che si stringeva la
giacca al petto e mi guardava con tutto il dolore dei suoi occhi grigioazzurri.
E la manifestazione ci aveva ripresi, nel suo flusso di ricordi.
Il sole, il blu del cielo. I colori delle facce e dei discorsi. Gli
striscioni. E noi che ballavamo e saltavamo in mezzo agli altri.
Il sole. Che illuminava la gioia. E gli elmetti della polizia.
E poi l'odio. Le cariche. La rabbia. La paura, i pianti. Andiamo via.
Il sole. Che batteva sulle teste. Andiamo via, Alberto. Non ci penso nemmeno.
Alberto, è da coglioni, andiamocene, quelli ci massacrano. E gli altri li
molliamo qui? Il sole. Cosa vuoi farci, tutti cercano di scappare, non possiamo
fare i baby-sitter, ti prego, andiamo. Tu fermo. E il sole. Che ti illuminava,
come a darti ragione. Mentre dicevi Io resto qui.
E di nuovo la rabbia, e il sapore del sangue. E poi quella cazzo di
pietra nella tua mano.
E allora nemmeno ci pensai, nemmeno mi sembrò strano. Cosa vuoi fare,
stare fermo a prenderti le botte? Quando non hai fatto altro che ballare e
ridere fino ad allora? Mica siamo Gandhi! E quindi reagiamo, forza. Soltanto
che, una pietra, cosa può fare? Eh, Alberto, me lo dici? Cosa può fare contro
le pallottole? È la solita storia, certo "Nella realtà è sempre Golia a
vincere ma non per questo Davide smetterà di guardarsi intorno, cercando una
pietra da scagliare". Sicuro, Cacucci ha ragione. Lo so. Ma tu eri lì, in
piedi. Con quel sasso in mano. Così tenero, e irrimediabilmente perdente. Una
pietra, Alberto…cosa volevi fare? Quello che volevamo fare tutti. Solo qualcosa
per farli smettere. Ma una pietra…cosa speravi?
Non speravi niente, lo so, nemmeno pensavi. Eri solo incazzato che se
la prendessero con noi. E avevi ragione.
Solo che gli altri non l'hanno capito. E, in mezzo a tutti quei
ragazzi con le pietre in mano, in mezzo a quei ventenni arrabbiati e innocenti,
hanno preso te. Saranno stati i tuoi occhi. Così caldi, troppo per quella
giornata già bollente. Sarà stata la tua posizione fiera, la posizione di tutti
i tiratori di pietre del mondo. O il tuo sorriso, che sembrava sputargli in
faccia, a loro e a tutto il potere che gli stava dietro. A tutti quelli che
avevano il coltello dalla parte del manico.
Hanno preso te. O forse sarà stato quel fottuto destino, a guidare gli
occhi del celerino dritti nei tuoi, e la sua pallottola nella tua pancia, o
forse il vento, caldo e secco, frustrante, che ti ha spinto a muoverti in
quell'istante preciso. E fatale.
Hanno preso te, Alberto. In pieno stomaco, come un pugno di lava.
E il colpo è stato così forte da far ammutolire tutti. Sia da una
parte che dall'altra.
Perché in questo mondo non esistono il bene e il male. Puri. Quella è
una favoletta che vogliono farti credere i potenti. Chiaramente, mettendo loro
tra i buoni. E te che non ci credi, tra i fottuti terroristi da ammazzare senza
battere ciglio.
Ma tu lo sai, Alberto. Che nel mondo esistono solo gli uomini. E
quello che ti ha sparato non era biologicamente diverso da te. Aveva anche lui
due occhi, una bocca. Un cuore. Magari seppellito sotto qualche chilo di
medaglie. Anche lui avrà amato, odiato. Con la tua stessa intensità,
l'intensità di tutti. Anche lui avrà fatto l'amore e pianto.
Forse anche i suoi occhi, un giorno, saranno stati caldi come i tuoi.
Altrettanto visionari e brucianti. Altrettanto giovani.
E anche lui e i suoi colleghi, in quell'istante, si sono azzittiti.
Mentre io crollavo in ginocchio e Robi si metteva a correre verso di
loro, unica figura mobile in un teatrino di morte, prima di venire atterrato da
un amico, stretto tra le sue braccia protettive e stanche. E tu morivi. Solo,
in mezzo a noi.
Alberto, non ricordo cosa ho pensato, quel giorno. So solo che il sole
continuava a scottarmi la pelle, e scottava anche te. E il freddo che ci saliva
dentro non bastava per cancellare il bruciore.
In quel momento però ho odiato tutti. Un odio gelido, per quelli che,
insieme al celerino, avevano premuto quel grilletto. Tutte le mani sporche e
schifose che ti avevano ucciso giorno dopo giorno.
Ho odiato te per non avermi ascoltato, quelli intorno per l'alone di
mito che ti stavano già confezionando, loro per averti ammazzato, Robi per non
averti convinto. E me, per tutto.
E adesso, continuo ad odiare con la stessa intensità, lo sai. Solo che
ormai sono stanco anche dell'odio. Quel disgusto che mi accompagna è dovuto a
lui. Al mostro nero.
E così, avevo deciso di darci un taglio netto. Con tutto.
Ho in mano la pistola. Ma mi manca il coraggio, per sparare. Non ci
riesco. Lo scopro ora, con terrore.
L'amore per la vita è più forte anche del desiderio di lasciare il
mondo.
Adesso non so cosa mi succederà. Per Robi, intendo.
Secondo la legge, l'ho ucciso.
E sono pronto a scontare la pena che mi danno. È meglio che vivere col
peso di aver condannato una persona che amavi a quella pseudovita.
E resto qui. Aspetto che vengano a prendermi. Se verranno.
Ho la pistola in grembo.
Però mi sono spostato all'ombra. Mi preparo ad una lunga attesa, e il
sole sembra intenzionato a cuocermi del tutto i pensieri.
E io, ai suoi raggi luminosi, ho sempre preferito l'ombra dei tigli.