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Autore: Jezabel_89    06/08/2011    0 recensioni
Nessuno come lei avrebbe potuto redimermi dalla mia non-vita. Nessuno come lei avrebbe potuto insegnarmi a soffiare via del tutto il castello di carte. Non ne avevo più bisogno. Ero diverso. Ero libero da me stesso, avevo aperto le catene che mi ero messo da solo e lei ne era la chiave.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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Ciao  a tutte!
Questa è la prima storia non slash che pubblico, ma non credo sarà l'ultima. L'ho scritta molti anni fa, in quarto ginnasio, in un periodo in cui riflettevo di cose molto diverse da ora e ripensandoci, mi sono resa conto che il mio modo di pensare era molto più "bello" allora: ero, in un certo senso, talmente libera dai pensieri - che invece ora mi tartassano - da avere tempo per perdermi in discussioni con me stessa su temi che oggi, purtroppo, non affronto più. 
Le brutture del mondo sono troppo da affrontare per una come me, per cui adesso l'inchiostro della mia penna mi permette di andare il più lontano possibile da dove sono, seduta sul cielo, respirando, magari, il mondo.


E' davvero importante per me che chi legga questa storia e ne dovesse restare colpito, me ne faccia sapere il motivo, nel bene e nel male: mi aiuterà a crescere nella penna e nell'anima.

un abbraccio,
Jez



* * *







Un tempo ogni mattina mi svegliavo alle 7:00, alle 7:05 facevo colazione, alle 7:15 entravo nella doccia, alle 7:25 ne uscivo, alle 7:30 mi vestivo e alle 7:40 uscivo di casa per andare al lavoro. Sempre in quest’ordine, senza mai modificare gli orari, né ritardare né anticipare di un secondo. Ogni mattina per dieci anni ho rispettato scrupolosamente una tabella che mi ero prefissato. Non avevo mai fatto tardi al lavoro, mai preso un giorno di vacanza, mai in malattia, mai litigato con nessuno, mai parlato male del capo. Sono sempre stato un lavoratore modello, come prima ero stato uno studente modello. Ero stato, negli anni dell’università, facoltà di lettere, un po’ sovversivo: farneticavo di ribellarsi al sistema, di occupare l’università. 
Con gli anni passò e insieme alla laurea con il massimo dei voti, la ricerca senza sosta di un lavoro e l’impiego in banca gentilmente offertomi da un amico di famiglia, se ne andò anche la mia voglia di strafare e me ne tornai zitto zitto al mio posto. 
Una mattina, però, mi sentivo un po’ strano. Probabilmente era la stanchezza, infatti quella notte avevo dormito molto male, a causa di un temporale. Non sono mai stato uno che faceva molto caso alla natura, ma quella sera ero stato lasciato dalla mia donna e mi sentivo particolarmente malinconico così, quando scoppiò quel temporale così forte e la luce andò via mentre mangiavo la mia cena precotta davanti alla tv come ogni sera, accesi tre candele e andai alla finestra per vedere se la luce mancava solo al mio palazzo oppure anche a quelli vicini. Senonchè fui distratto da un luminosissimo lampo, seguito da un fragoroso tuono. E allora mi accorsi di come una così relativamente piccola e relativamente innocua cosa come un temporale aveva sconvolto la mia serata programmata facendo andare via la luca.
Fu allora che, forse per la prima volta, cominciai a pensare che ogni piccola cosa poteva cambiare la mia vita. Come il temporale aveva fatto andare via la luce, in qualsiasi momento la mia vita sarebbe potuta finire. 
Così quella mattina, una volta salito sulla mia BMW nuova di zecca, non riuscii ad imboccare la trafficatissima strada per arrivare alla banca dove lavoravo, e presi la strada opposta, che mi avrebbe portato nei sobborghi della città. Non so come accadde, forse è stato il temporale, o forse sono stato io, stanco della mia passività nei confronti degli eventi e della vita, che all'improvviso mi sono svegliato. La mia vita non era una brutta vita. Avevo una bella casa in centro, tutte le comodità, una bella macchina, una donna intelligente e alla mano, ma come in un castello di carte, con un soffio le pareti della mia vita stavano mano a mano cedendo. E il peggio era che non me ne accorgevo nemmeno, abituato com'ero ad avere tutto senza sforzi e a pensare che tutto mi era dovuto. Così, quando la prima carta cadde, il giorno in cui la mia donna mi lasciò, fu una fortuna che la luce andò via, in modo da permettermi di ricordare ciò che molte persone come me hanno scordato: che la vita va via come un soffio e io non ne avevo vissuto neanche un secondo. 
Quella mattina fredda e nebbiosa d'inverno vagavo nella periferia della mia città, ascoltando la musica e cantando come un bambino, quando ad un certo punto mi fermai. Come poteva esistere una baraccopoli nella mia città? Durante la campagna elettorale il partito che poi aveva vinto le elezioni aveva promesso case popolari e un lavoro per coloro che non potevano permettersi un posto dove stare o due pasti caldi al giorno e ora che aveva il potere per cambiare le cose, perchè se ne stava con le mani in mano? Ma soprattutto com'era possibile che nessuno se ne fosse accorto? Scesi dalla macchina e proseguii a piedi. Per strada non c’era nessuno, a parte qualche barbone che dormiva su un marciapiede o sotto un portico e dei bambini che giocavano in mezzo alla strada con una palla sgonfia. Non ero l’unico, pensai, a vivere passivamente, a non sapere dov’ero o cosa stavo facendo della mia vita. La gente preferisce, come avevo sempre fatto io, non sapere, o perlomeno far finta di non sapere. 
Le baraccopoli c’erano sempre state, come le prostitute, o i tossicodipendenti, ma nessuno voleva entrare fino in fondo in quella realtà, tantomeno io, e mi sentivo terribilmente in colpa per questo. Continuavo a camminare, facevo passi lenti e respiri profondi, e lasciavo quel mondo entrare dentro di me, prendevo veramente atto della vita che poteva fiorire in una palla di vetro. 
Poco dopo vidi una giovane donna, poco vestita, seduta su un gradino a fissare il vuoto. Aveva lineamenti orientali, lunghi capelli corvini e un corpo minuto con la pelle scura. Sembrava molto triste e faceva molto freddo e il cielo era nuvoloso, ma sopra di lei le nuvole si aprivano e lasciavano che un raggio di sole le si posasse addosso, quasi a volerla riscaldare. Mi incuriosì a tal punto quella ragazzina così sola e così triste che mi andai a sedere accanto a lei. Quando vide che mi avvicinavo il suo viso s’illuminò, non aveva mai molta compagnia, mi disse, e cominciò a parlare. 
Aveva un parlare fitto fitto, sottolineava ogni parola, le aggiungeva enfasi, ma il suono della sua voce era molto dolce, quasi da bambina, e quando parlava si entusiasmava a tal punto che sembrava che le cose che diceva le si materializzassero davanti. Era molto bella con quei suoi lineamenti stranieri e le fattezze acerbe, in contrasto con il suo modo di parlare gesticolando quasi furiosamente, così sicuro, e mentre mi parlava di come era finita al freddo su un gradino notai che i suoi occhi non erano affatto vuoti come avevo pensato quando l’avevo notata, ma erano enormi e vivi, come non ne avevo mai visti, sottolineati da un tratto di kajal colato. Parlammo quasi ininterrottamente fino al pomeriggio, su quel gradino, e quando dovetti tornare a casa le promisi che sarei tornato il giorno dopo. 
Il suo nome era Amina, aveva diciassette anni ed era una prostituta. 
Era nata in Palestina, in una famiglia con cinque figlie, di cui lei era la più piccola. Erano molto poveri e il padre voleva molto bene alle sue figlie, anche se tante figlie femmine erano molto costose, avevano bisogno tutte e cinque di una dote per sposarsi, di soldi per il matrimonio, ed era molto difficile trovare un lavoro a tutte quelle donne, così con l’arrivo delle quinta ed ultima figlia femmina il padre smise di mettere da parte i soldi per i vari matrimoni, per sfamare anche quella piccola ed ultima bocca. 
Anni dopo, quando Amina aveva dodici anni, suo padre morì in guerra e loro persero l’unica persona che guadagnava qualcosa nella loro famiglia. Si improvvisarono sarte e filatrici, ma non riuscivano a mantenersi. Così quando un bel giovanotto straniero, alto, biondo e molto ben vestito, incontrò Amina che tornava dopo aver lavato i panni nel fiume e le propose di partire con lui verso un paese ricco e fiorente, lei accettò e partì con lui con l’invidia delle sue sorelle, troppo vecchie per ricominciare in un altro paese. Aveva tredici anni e invece di trovare un lavoro onesto e vivere con il giovanotto biondo, come lui le aveva promesso, aveva trovato la strada.
Nei giorni che seguirono tornai spesso a trovarla e lei era sempre lì, sul suo gradino, riscaldata dal suo raggio di sole. Non smetteva mai di parlare e lo faceva con una dignità che non avevo mai visto in nessun altro. Accettava la sua posizione sociale, la sua vita, i commenti della gente, ma non lo faceva con rassegnazione, ma con tanta voglia di vivere, di risalire in superficie. A volte provavo a spronarla a ribellarsi, le dicevo che lei poteva, doveva pretendere di più, che se lo meritava, che si stava arrendendo. Quando le dicevo queste cose lei mi guardava con tenerezza, poi sorrideva. Dopo non parlava più per un po’, ma mi guardava intensamente. Oppure diceva che andava bene così e lo diceva con una tale dolcezza che mi chiedevo quale Dio aveva potuto permettere che un simile angelo fosse finito sulla strada. 
Una volta pioveva a dirotto, ci eravamo rifugiati sotto ad un portico, ma il suo raggio di sole continuava a riscaldarla, sembrava che la seguisse e io mi ricordai di un fiore dai petali scarlatti che quando ero bambino avevo raccolto in mezzo alla strada tutto stropicciato, ma forte e dignitoso, che era riuscito a sopravvivere all’asfalto, ma non alle macchine e alle persone. Lei mi fece ricordare quel fiore, e saperlo la fece illuminare dalla gioia. Disse che nessuno l’aveva mai paragonata ad un fiore. 
Più volte le chiesi di venire a vivere con me, che avrei potuto darle una vita migliore, degna di una persona come lei, ma lei si arrabbiò moltissimo. 
–“Non voglio la carità di nessuno”-disse-“ questa è la mia vita, sono arrivata qui da sola e semmai dovessi risalire in superficie lo farò da sola. Se anche tu sei come tutte quelle persone che giudicano senza sapere allora sei libero di salire sulla tua macchina e andartene”-. Non lo feci mai. 
Un giorno, ormai era primavera, la portai in campagna, a fare un pic-nic. Le piaceva l’aria fresca, incontaminata e s’incantava a guardare i fiori, le proposi di raccoglierne alcuni ma lei me lo proibì. 
–“I fiori sono così belli e colorati… sono fatti per essere guardati, ma  se ognuno di noi si mettesse a staccare un fiore, morirebbero tutti e non potremmo più guardarli…”-. 
Ci eravamo seduti sotto una quercia, nel mezzo di un campo di fiori e il tempo era bellissimo, e lei sembrava così felice e io così triste nel vedere quella ragazza stupirsi per così poco. 
Nella mia città, che è un po’ uguale a tante altre città, sempre grigia, spenta, fredda anche in piena estate, vedi bambine piangere in mezzo alla strada, buttarsi per terra in lacrime sconvolte, per una bambola con le labbra al silicone, la vita da vespa, le gambe lunghissime e la testa enorme rispetto al corpicino anoressico. Bambine truccate come donne andare a fare shopping con le madri, dall’estetista. Ovunque pubblicità che sponsorizzano creme di bellezza per ragazze tra tante modelle-bambine scheletriche, bambole con “la passione per la moda”, teste con tanto di capelli per insegnare alle bambine a truccare e a pettinare. In una società del genere tra vent’anni avremo ragazze bellissime, corpi perfetti, estetiste e parrucchiere, ma non ci saranno dottoresse, ricercatrici, avvocatesse. Vivere a stretto contatto con persone che vivono con così poco mi ha insegnato che più si ha più si vuole. E mi chiedo se quelle bambine hanno realmente bisogno di vestiti costosi e bambole anoressiche per avere un’infanzia felice. E se tutti quei bambini che nell’oratorio giocano al wrestling, si picchiano tra di loro, si insultano, saranno dei veri uomini un giorno. 
Ma lei era diversa. Lei non aveva bisogno di nulla e quando si svegliava la mattina, durante quella primavera, e vedeva il sole splendere, le rondini alte nel cielo, era felice di essere viva, così felice che guardarla faceva venire le lacrime agli occhi. 
Questo mio viaggio dentro il ghetto, ma forse dentro me stesso, con la mia guida speciale, durò molto, e tornò l’inverno con la sua pioggia, la sua nebbia il suo gelo, il suo grigiore. Puntuale tornò il raggio di sole, ma lo vidi poche volte quell’inverno. Infatti un giorno andai da Amina, la cercai per tutto il ghetto, ma lei non c’era. 
Ero felice, volevo vederla e ringraziarla per avermi insegnato a vivere e ad apprezzare quello che avevo. Nessuno come lei avrebbe potuto redimermi dalla mia non-vita. Nessuno come lei avrebbe potuto insegnarmi a soffiare via del tutto il castello di carte. Non ne avevo più bisogno. Ero diverso. Ero libero da me stesso, avevo aperto le catene che mi ero messo da solo e lei ne era la chiave.
Ma non la vidi più. 
Sono passati anni da allora, ora ho una famiglia, una moglie, dei figli, ma non ho dimenticato che è stata lei a permettere che tutto ciò accadesse. 
Insegno lettere all’Università e a volte mi chiedo cosa sarebbe successo se quel giorno, che ora mi sembra così lontano, non avessi deviato per il ghetto e fossi, invece, andato in banca come ci si aspettava da uno come me.
   
 
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