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Autore: Black Ice    07/08/2011    5 recensioni
Sospirai, "Da piccolo volevo fare lo scienziato.", le confidai.
Heaven emise un suono buffo, "Sai, Matthew, anche io da piccola volevo fare la scienziata."
Sorrisi contro il cielo, perchè avrei proprio voluto sapere a che età lei si definiva piccola.
Sorrisi, perchè era un'altra cosa che ci univa.
Genere: Generale, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Matthew Bellamy, Nuovo personaggio
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Heaven and Bliss

La luce pallida del sole del tardo pomeriggio era nel suo apice, e c'era ancora del tempo prima che le mamme richiamassero i propri bambini per ritornare a casa, intimandoli, quando non venivano ascoltate, che li avrebbero lasciati lì in balia della notte.
Se si spostava lo sguardo, di tanto in tanto, per tutta l'ampiezza del parco, schivando abilmente quei pochi ma alti alberi, si potevano incontrare ancora famiglie accucciate per terra su una tovaglia colorata, intente a chiacchierare e ridere, felici di quella giornata trascorsa all'aria aperta, e i bambini poco distanti che giocavano con un pallone, o semplicemente si rincorrevano.
Poi, se si sorpassava una piccola collinetta, ci si imbatteva in un ragazzo sdraiato a pancia in sù sull'erba, con le mani dietro la testa che se ne stava beato ad assaporare l'aria fresca di quel tiepido pomeriggio, grazie al cielo, senza pioggia.

Matthew Bellamy ha 16 anni, e in quel preciso momento non sta pensando a nulla, se non che avrebbe dovuto portare dei fogli e qualche matita: avrebbe potuto scrivere così tanto su quella sensazione di pace che aveva finalmente trovato chiudendo gli occhi e sentendo unicamente l'erba soffice sotto al suo corpo e quegli insetti che si sentiva addosso nonostante gli indumenti.
Sfuggì un sorriso storto da quella labbra sottili. Probabilmente stava pensando a come, quasi un'ora prima, avesse tentennato indeciso se portare o no il cellulare, il Walkman o addirittura la sua chitarra acustica, rischiando di perdersi quella sensazione così appagante di libertà.
Strano ma vero, quella specie di collina dietro alla quale si era rintanato Matthew faceva da ottimo scudo contro il normale chiacchiericcio delle persone.
Era un posto perfetto, in sostanza.
Forse.

 
Sospirai con il sorriso sulle labbra, contento che quel venticello fresco avesse deciso proprio in quel momento di placarsi così che mi rendesse più piacevole il tempo che mi era rimasto da trascorrere su quel manto erboso tanto accogliente.
Ma non ci volle molto prima che le mie labbra abbandonassero quel sorriso e si dedicassero ad un'espressione più sorpresa e irritata.
Sentii qualcosa di leggero sbattere contro le mie gambe, frusciare sull'erba accanto a me e fermarsi a nemmeno un metro dai miei piedi.
Aprii una palpebra, guardando svogliatamente in basso, a cosa mi aveva purtroppo fatto ritornare in me: uno stupido pallone a righe colorate.
Richiusi la palpebra dopo qualche secondo a fissare la palla. Probabilmente qualche stupido bambino nei dintorni lo aveva calciato con troppa forza.
Questo voleva dire che, a momenti, sarebbe sbucato da non so dove il suddetto bambino, voglioso di riprendersi il gioco e continuare a usarlo.
Sospirai, questa volta con amarezza: sperando almeno che non mi desse fastidio come la maggior parte dei mocciosi in tenera età, che andasse a riprendersi il gioco silenzioso e veloce come una lepre e che mi lasciasse in pace.

"Signore, mi è caduto il pallone."

Sospirai. Alla fine il bambino era arrivato. Sollevai lo sguardo verso il bambino, o meglio, la bambina che stava dietro di me. Sospirai ancora, mi sollevai sui gomiti e mi girai meglio a guardarla. Avrà avuto sui dieci anni, a giudicare dall'altezza.
Indossava un vestitino color cielo, come i suoi grandi occhi, i capelli biondi che le ricadevano sulle spalle e oltre le davano un'aria quasi da apparizione, aveva le labbra strette in una smorfia che non saprei dire in altra parola se non disappunto, e le braccia nude lungo i fianchi.
E se ne stava immobile, non facendo un passo per recuperare l'oggetto che era venuta a recuperare.
Solo, continuava a guardarmi, quella mocciosa.
Non sopporto i bambini in generale, troppo scassacoglioni per me, ma soprattutto quelli che fissano la gente.

"Signore, può prendermi il mio pallone?"

Mi chiese, ancora, capendo che non mi sarei mosso di un millimetro se non mi avesse chiesto esplicitamente quello che voleva. Non che mi fiondai a recuperarle il gioco, ma mi ritrovai a guardarla con la testa inclinata, curioso: c'era qualcosa, nella sua voce di bambina, che sembrava gridare al mondo l'unicità di quell'esserino.

"Signore, per favore, non posso giocare senza il pallone."

Ripetè ancora, questa volta con un tono più seccato, mettendosi le mani sui fianchi.
Guardai prima lei, poi il pallone.

"Bambina, è a due metri da te. Non sei capace di prendere quella palla da sola?"

Non volevo essere scortese, soltanto ero curioso dal modo di fare, parlare, rapportarsi col mondo, di quella bambina. Non so, sesto senso presumo.
La bimba fece una smorfia schifata e incrociò le braccia al petto.

"Non mi chiamo Bambina."

Sorrisi, "Se la metti così, nemmeno io mi chiamo Signore: sono ben lontano dall'essere Dio."

La bambina mi guardò sospettosa, quasi squadrandomi. Allora mi voltai completamente verso di lei e mi misi a gambe incrociate sull'erba.

"Mh.", commentò la bambina facendo un'alzata di spalle, "Prima del mio arrivo sembravi in pace con il mondo. Per quello che ho visto e che sto appurando, potresti benissimo essere Gesù."

Mi trattenni dal ridere, perchè sarebbe risultato molto scortese anche davanti ad un bambino, soprattutto se si trattava di lei: aveva una scintilla di intelligenza negli occhi per niente comune a tutti i bambini della sua età e.. mi piaceva.

"Gesù è biondo con gli occhi azzurri, bam.. Devo continuare a chiamarti bambina?"

Fece spallucce, "E' comunque molto meglio del mio nome. Sospetto che i miei genitori in quei nove mesi per decidere il mio futuro non abbiano fatto altro che ubriacarsi sparando i nomi più assurdi di questa terra."

Detto questo, sorrise, quasi facendo illuminare l'aria circostante alle sue labbra. Si guardò un attimo alle spalle, le alzò e poi si sedette con grazia di fronte a me sull'erba, lisciando più volte il vestitino sulle gambe.

"Brandy Megan Heaven Bell.", disse guardandomi ferma.

Anche questa volta mi trattenni dal ridere, mordendomi con forza il labbro inferiore: era un'agglomerato delle parole più idiote che si potessero usare anche come nomi presenti sulla faccia della terra: ce ne voleva di coraggio e di crudeltà per dare ad una bambina così bella un nome tanto osceno.

"Come hanno potuto chiamarti così?", esclamai stupito, abbandonando per il momento il lato scherzoso della cosa.

Alzò le spalle, un po' più rilassata, "Me lo chiedo spesso anche io. L'unica risposta che ho trovato è che avessero bevuto vagonate di alcolici accompagnate da iniezioni di non voglio sapere quali sostanze. Impongo di farmi chiamare Megan, di solito, che è l'unico che si salva fra tutti."

Annuii un po' spaesato, e feci scorrere lo sguardo su quell'erba verde, che sembrava tanto in sintonia con Megan.
Megan.

"Quanti anni hai?", le chiesi.

"Quanti me ne dai?"

Di fronte al suo sorriso malizioso, scartai la precedente supposizione che ne potesse avere massimo una decina. Nonostante l'altezza e basandomi più sull'intelligenza avrei detto sui dodici anni, anche se non ne ero molto sicuro.
Alla fine tentai.

"Dodici?"

La ragazzina rise improvvisamente nel sentirmi dire così; una risata meravigliosa, tra l'altro, di quelle contagiose che ti fanno venir voglia di rotolarti tra l'erba e di vederne il lato bello anche se piena zeppa di letame.
Abbozzai un sorriso, trattenendomi dal fare di più, e mi passai una mano fra i capelli.

Quando si fù calmata replicò: "Fra tutti quelli che ho incontrato, e che mi hanno provato a dare un'età alla prima occhiata, tu sei quello che più si è avvicinato.", e poi sporgendosi verso di me con fare indagatore riprese: "Credi stia nel fatto che prima assomigliavi a Gesù? Sei riuscito a carpirmi più segreti che neanche il peggior interrogatorio, o ancora peggio, un appuntamento dallo psicologo riuscirebbero a fare? Mi hai condotta qui trascinando con la forza del pensiero quel pallone accanto a te affinchè saresti riuscito a sfamarti della mia carne? Quindi non saresti affatto Gesù, ma bensì un extraterrestre venuto sulla terra per conquistare il pianeta.."

Andò avanti così per un po' di minuti, sparando supposizioni assurde una dietro l'altra, contraddicendosi da sola nel vano tentativo di sgarbugliare quell'intricato gomitolo che non stava nè in cielo nè in terra. Ma quanta dannata immaginazione aveva quella ragazzina?
Dopo aver espresso i suoi pareri paranormali sul perchè non le avessi ancora rivelato la mia identità decisi di fermarla, dicendole appunto il mio nome.

"Matthew Bellamy. E ti faccio notare che non mi hai ancora risposto."

"Mh.", fece, quasi con tono deluso, "Non ti facevo uno da 'Matthew'."

La guardai, alzando un sopracciglio: "No? E da come, invece?", le domandai poggiando il gomito sul ginocchio e la mano a sorreggermi il mento.

Alzò le spalle, prima di sporgersi verso di me con aria curiosa, quasi stesse cercando di imprimersi nella mente i tratti del mio viso.

"Mh. Non so. Sicuramente qualcosa di più ricercato, meno comune di Matthew. Clifford, per esempio. Gabriel, Curtis. Sono nomi che ti si addicono molto più di Matthew, di sicuro."

Sorrisi scettico, "Mi stai dicendo che sono, in un qualche oscuro modo, unico?"

"E' molto egocentrico, messo così."

Alzai le spalle, "Ma è quello che comunque volevi dire. E sto ancora aspettando di sentire di quanti anni ho sbagliato la tua età."

"Tre.. Quasi."

Non poteva avere quindici anni, quella mocciosa. Era più credibile che sotto terra vivesse una sorta di serpente marino che si cibava delle sostanze nocive che scendevano da sopra, piuttosto che quella bambina avesse quindici anni.

"Non puoi averne quindici."

Finse di pensarci sù, "No, lo credo anche io. E' impossibile. Ne ho quasi dieci, purtroppo."

Se il quindici era impossibile, il dieci era incredibile, per dir poco. Per un attimo mi venne in mente che forse tutto l'intero discorso era una presa per il culo, ma così come mi era venuto in mente, quel pensiero scomparve.

"Sei una bambina strana, Megan. Posso chiamarti Heaven?"

Alzò le spalle, "E' quello che preferisco fra tutti i miei nomi, ma temo non mi si addica."

"Mh, io penso di si, invece. Da un senso di leggerezza e libertà, come te."

Mi guardò di sbieco, sorridendo, facendo un'espressione adorabile, "Anche tu sei un tipo strano, Matthew. E mi chiedo perchè non ci siamo conosciuti prima, e perchè, come tutti, non mi lasci perdere. In fondo sono una stupida bambina, io."

"Non sei stupida, e non sei una bambina. L'hai detto anche tu."

"Ma non ho detto che non sono stupida.", mi fece notare lei, portando le palme delle mani a posarsi sull'erba soffice, sporgendosi indietro.

"Beh, quello lo posso affermare con sicurezza io."

Le sorrisi, sereno, e lei fece altrettanto.

Rimanemmo qualche minuto in silenzio, dopo i quali ci ritrovammo entrambi sdraiati sull'erba a guardare il cielo, ad ammirare quanto bella fosse quella luce arancione che avvolgeva tutto. Non l'avevo mai vista così intensa, così di un arancione luminoso, la luce del tardo pomeriggio, e quello era proprio un giorno perfetto per vederla per la prima volta.
Poi, nell'aria, vibrarono le note del mio nome.

"Matthew?", mi richiamò Heaven.

"Dimmi."

"Cosa farai da grande?"

Il futuro. Che cosa magnifica, imponente e oscura che era; ed era bello così. Un giorno ci dipingevo sù un tocco di colore nuovo, un altro ne cancellavo un puntino nero, altri rifacevo completamente la tela. Ma era bello così, per il momento.

Abbozzai un sorriso per quella domanda così diretta che non si addiceva per nulla a due persone che si erano conosciute da neanche mezz'ora; beh, per due persone qualsiasi, forse, ma non per noi due: avevamo raggiunto una sorta di complicità, una sorta di intesa sorretta da un filo invisibile che ci univa in quei pochi minuti che avevamo dedicato a conoscerci. Senza un secondo fine, senza rappresentare veramente qualcosa nella vita dell'altro, solo, l'attrazione tra due uomini così simili, ma allo stesso tempo diversi.

Sospirai, "Da piccolo volevo fare lo scienziato.", le confidai.

Heaven emise un suono buffo, "Sai, Matthew, anche io da piccola volevo fare la scienziata."

Sorrisi contro il cielo, perchè avrei proprio voluto sapere a che età lei si definiva piccola.
Sorrisi, perchè era un'altra cosa che ci univa.

"Abbiamo molte cose in comune, Heaven.", le dissi col sorriso sulle labbra, chiudendo gli occhi facendo così sparire la luce arancione.

La sentii ridere fievolmente, da qualche parte davanti a me: "Ed è un bene?"

"Per me di sicuro. Per te, non so se conviene aver qualcosa di simile a me."

"Se lo dici tu. Ma non mi hai ancora risposto."

Sorrisi nuovamente: poco prima l'avevo detta anche io quella frase.

"Ora l'idea dello scienziato non mi attira più. Voglio essere un musicista, scrivere, comporre, e suonare musica.", riaprii gli occhi, gesticolando con le mani mentre le rispondevo.

"E' una cosa bella, la musica."

Annuii, "Bellissima."

"E ce la farai?"

A sopportarne il peso, a ridarle tutto ciò che lei mi ha sempre dato, a renderle omaggio, ad innalzarla come un Dio, a capire realmente quanto bella sia, a riuscire ad amarla in tutte le sue sfumature? No, non ce l'avrei mai fatta. Ma potevo provare.

"Lo spero con tutto il cuore.", risposi.

"Già. Lo spero anche io, Matthew."

Riaprii gli occhi e sorrisi a quella luce soffusa che andava sempre più oscurandosi, lontana millenni dall'intensa luce arancione di poco prima.
Saranno state ormai le sei di sera, e a momenti sarei dovuto andare a casa.
Feci una smorfia, non volevo già salutare quella bambina.

"Matthew?", mi richiamò ancora, con quella voce pulita.

"Si?", mi alzai sui gomiti per guardarla in faccia, perchè con la coda dell'occhio avevo visto che si era tirata sù. Ora stava seduta a gambe incrociate, davanti a me.

"Ora mi puoi ridare il pallone?"

Scoppiai a ridere, contro ogni logica, e guardando alla mia sinistra vidi la sfera colorata colpevole di quel piacevole incontro.
La presi e gliela porsi, mentre lei si mordeva il labbro inferiore con fare dispiaciuto.

"Devo andare, ora."

"Oh.", riuscii soltanto a dire, ma mi ripresi: "Verrai ancora domani?"

"Si, forse. Tu aspettami, però.", mi rispose con un sorriso inclinando leggermente la testa di lato e alzandosi in piedi. La imitai, e mi accorsi che la superavo abbondantemente in altezza.

"Okay, Heaven.", le sorrisi e mi sporsi per baciarle la fronte: un gesto venuto naturale.

E nel momento stesso in cui dissi il suo nome, mi accorsi di quanto le somigliava: sembrava di sentire il suono limpido dei campanellini, mentre si pronunciava. Sembrava magico, libero. Felice, anche. A pensarci bene, ogni cosa in lei, risplendeva e risuonava di felicità come i campanellini per il nome. Faceva stare bene, in pace con il mondo.
Avrei tanto voluto essere come lei, impossessarmi dell'intelligenza, della gioia, di quella bambina.
Avrei voluto avere quell'animo così puro, che non riusciva, non poteva fare del male, perchè quella bambina era l'incarnazione del sole, del cielo limpido, del mare calmo e dell'erba fresca: era l'incarnazione di tutto ciò che di bello esisteva sulla terra.
Era così facile amarla.

La fissai mentre si allontanava da me salutandomi con la mano, diventando, col passare dei minuti, un puntino azzurro sull'erba.
In quel momento, pensai a quanto doveva essere bello il paradiso.

~

Nei giorni seguenti, Matthew andò al parco ogni volta che poteva, non importava che fosse mattina, pomeriggio o sera. Lui ci andava, e sempre nello stesso punto.
Ma non la rivide. Non rivide più Heaven, nè il suo vestitino azzurro.
Forse perchè lei si era dimenticata di dirgli che si stava per trasferire, e il giorno in cui si erano incontrati era il suo ultimo giorno lì.
Ma lui ogni giorno si portava qualche foglio, una matita, e delle volte accompagnava il tutto anche con la sua chitarra: si sedeva per terra, scarabocchiava parole sui fogli, pensava, chiudeva gli occhi o guardava il cielo, si rimetteva a scrivere, e alla fine prendeva in grembo la chitarra e suonava qualche accordo.

Avrebbe tanto voluto dire a Heaven che stava scrivendo una canzone per lei.
Avrebbe tanto volute dirle, che stava scrivendo Bliss.

 
 

---

Heey :3 No, non ho idea di come mi sia venuta in mente questa one-shot. Forse il libro che stavo leggendo. O forse, semplicemente, la voglia di scrivere.
Beh, in ogni caso, eccola qui!
Bom, la finisco precisando che questo fatto non è realmente accaduto, Matthew non mi appartiene, non mi pagano e balle varie, ma che l'adorabile bambina è frutto della mia immaginazione.
Un enorme grazie a chi vorrà recensire, scrivendo cosa ne pensa o a chi ha semplicemente letto :D
Cheers!

See you soon, Black Ice

  
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