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Autore: screaming_underneath    07/08/2011    4 recensioni
[Missing moment della fanfiction "Moonglow"]
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Bill Brown non ha la minima idea del passato della sua famiglia.
Genere: Introspettivo, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Billy Black, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Precedente alla saga
- Questa storia fa parte della serie 'The New Twilight Saga '
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Dedicato interamente ad Aniasolary, perché è meravigliosa,

e devo ringraziarla per tutti questi mesi insieme,

oltre per il suo amore per questo mio personaggio.

<3 Grazie tesoro <3

Tua sorellina virtuale

*-* Vi *-*




Neglect



Gennaio 1986

Il giovane uomo cammina per strada lentamente, stretto nel giubbotto. Fa freddo, quel freddo pungente di metà Gennaio che ti penetra fin dentro le ossa, ghiacciandoti l'anima.

Si ferma di botto, davanti alla grande struttura, roso dal dubbio. Non vuole entrare, o forse sì. Non riesce a decidersi.

Con amarezza, si rende conto che sono le sei di una buia mattina invernale, e che invece di essere rannicchiato nel suo letto, assieme a sua moglie, si trova a duecento chilometri di distanza da casa, nel bel mezzo di una bufera di neve.

Un'ambulanza lo riporta alla realtà, strappandolo dall'ipnosi delle grandi lettere rosse tracciate sulle porte scorrevoli davanti a sé.

Seattle Mercy Hospital”

Prendendo un respiro profondo, come un nuotatore olimpionico prima di una gara, l'uomo si dirige verso le porte, che si aprono con un un fruscio confortante, portando una ventata di aria calda.

Una infermiera, sorridente e carina nella sua divisa ordinata, si fa avanti, sistemandosi la cuffietta. Profuma di buono, di fiori, forse, un profumo particolare e confortante tra quelli tipici degli ospedali, che gli hanno sempre fatto paura.

«Desidera?» chiede la donna, con un sorriso solare ed autentico, nonostante gli occhi stanchi di chi ha fatto il turno di notte. L'uomo glielo spiega, un poco imbarazzato dalla vastità di quel luogo, da quell'odore associato alla morte, alla malattia, e l'infermiera, con dolce sicurezza, lo invia verso gli ascensori, grandi bocche di metallo che si aprono con cigolii poco rassicuranti.

Camera 110. Non si sbaglia, è la prima del corridoio alla sua destra. In bocca al lupo e... congratulazioni, signore!

La voce della gentile inserviente rimbomba ancora nelle sue orecchie, quando varca la porta della piccola camera, con indosso un sorriso troppo tirato per essere vero.

Fa caldo, adesso, e con un movimento agile l'uomo si toglie la giacca, ripiegandola con cura, per guadagnare ancora qualche secondo prima di dover guardare lei in faccia.

«Puoi posarla dove vuoi, non devi tenerla in mano solo per avere una scusa per andartene prima del previsto»

La voce di lei lo fa sussultare. Alza la testa, con sospiro dolorante. «Beth, ti prego... non farla più difficile di quanto non sia» mormora l'uomo, posando la giacca con mal garbo sulla sedia vicina.

Lei è seduta sul lettino bianco dell'ospedale, una vecchia camicia di flanella avvolta intorno al corpo, che nonostante il parto e la gravidanza è snello e bello e sensuale come sempre. Non può fare a meno di ammirarla. Quando infine incrocia i suoi occhi, i suoi meravigliosi occhi nocciola, vi vede dentro una luce tutta nuova, bellissima e rilucente, ma anche dolore.

Abbandono.

E allora capisce. Capisce che nonostante tutto la ama, e che è stato da vigliacchi andarsene a quel modo, anche se sa che quella non può essere la sua vita. Le si avvicina, inspirando quel suo odore di caramelle e menta, che annulla tutto il resto. Le sue labbra, come sempre, trovano quelle della donna che ama ormai da cinque anni, l'unica donna che non può avere.

Passano i secondi, preziosi, unici. Poi, il pianto.

L'uomo ritorna alla realtà, con inaspettato dolore, strappato da quel momento meraviglioso.

«Si è svegliata. Va a vederla, su. Aspettavamo tutte e due.» mormora Beth, con gli occhi lucidi e brillanti di gioia per quel bacio. L'uomo ritorna in posizione eretta, dirigendosi lentamente verso la piccola culla a sbarre di ferro che doveva aver visto almeno un migliaio di neonati diversi.

Una manina, come per salutarlo, si leva dalla culla, accompagnata da un gorgheggio soddisfatto. La bimba lo guarda, curiosa. Ha un ciuffo di capelli neri, lucidi. Gli stessi del giovane uomo. Gli occhioni, dello stesso preciso identico colore di quelli di Beth, sono liquidi e un poco velati, come tutti i bimbi appena nati.

E' bellissima.

L'uomo allunga un dito fino alla piccola manina intrappolata in una tutina rosa troppo grande, con una fragola disegnata sul davanti, e la piccola lo afferra, con decisione.

Nello stesso istante, come una scossa, arriva il ricordo.


Pochi mesi prima, una stessa stanza d'ospedale, Forks. Sua moglie Sarah che sorride, soddisfatta e stanca, mentre lui culla un piccolo fagottino di coperte urlante, del tutto identico a quello che sua moglie stringe al petto. E' felice, una felicità piena, quasi irreale tanto essa è forte.

«Ti amo, Sarah» mormora, senza però crederci davvero. Ama le sue figlie, questo sì, però. Quei due piccoli corpicini, così fragili e morbidi, così necessari di protezione... se ne è innamorato subito. Rachel e Rebecca, i suoi raggi di sole.

E' caldo, Agosto, e la stanza è piena di calore e colori. E' una bella giornata, serena, senza una nuvola. Sembra che anche il famigerato maltempo perenne sopra lo Stato di Washington sia preso una giornata di riposo, per festeggiare il lieto evento.

Un'infermiera arriva, tutta sorridente, molto simile nei gesti e nel comportamento a quella che, cinque mesi dopo, incontrerà a duecento chilometri da lì, in un'altra stanza d'ospedale.

«Una chiamata, signore. Sembra urgente... da sua zia Marge» aggiunge la signorina, senza che abbia il men che minimo dubbio. L'uomo alza la testa di scatto, sorpreso. Posa con cura e fretta la bimba appena nata nella sua culla, cercando di non svegliarla. In effetti, la piccola, con un gorgheggio, torna a dormire, i pugnetti stretti stretti vicini alla guancia.

«Zia... zia Marge? Cosa è successo?» domanda, senza capire, turbato. Sua moglie lo guarda, preoccupata.

«Non so. Sembrava urgente. Al bancone» si liquida l'infermiera, con un'alzata di spalle, uscendo dalla stanza. Lui torna a guardare la moglie, con aria un po' smarrita. Non sa cosa fare... perchè proprio in quella giornata?

«Vai, amore. Noi non scappiamo, vero, Rachel? Zia Marge è vecchia, magari è davvero un'urgenza. Vai, veloce!» lo incita Sarah, premurosa. Non sa, non capisce.

L'uomo esce dalla stanza cercando di non correre, mentre un misto tra paura, ansia e rabbia lo travolge dentro. Erano d'accordo.

Avrebbe chiamato lui, come sempre.

Trova il bancone dopo qualche difficoltà, troppo agitato per fare caso alla direzione da prendere. La stessa infermiera gli fa un cenno, tendendogli la cornetta del telefono nero e lucido. Si precipita a stringerla, mentre la donna se ne va, per lasciargli un poco di privacy.

«P-pronto» mormora, con il fiatone. Sa bene che non esiste nessuna zia Marge, così come sa bene che l'unica persona che si nasconde dietro quel nome è colei che ama, e che da quasi cinque anni è la causa per la quale l'uomo ha così tante commissioni di lavoro che lo tengono fuori casa.

Sa anche che non dovrebbe essere lei a chiamare, ma lui. E' pericoloso, anche se hanno preso tutte le precauzioni possibili.

«Pronto, Beth?» riprova, dopo alcuni secondi di assoluto silenzio. Dall'altra parte, un respiro grosso, affrettato. Cosa diavolo sta succedendo?

«Sono incinta»


L'uomo ritorna alla realtà quando la bimba scoppia in un pianto affannoso, segno che inequivocabile che è arrivato il momento della poppata. Con sicurezza, solleva la piccola dalla culla, in un gesto ormai istintivo e familiare, un gesto che compie da quasi sei mesi con le sue figlie, a Forks, lontano da lì. Una mano sotto la piccola testa, l'altra a sorreggerle il sederino.

Se la stringe al petto, delicatamente, girandosi per porgerla alla madre. Beth lo guarda, piena di amore, tendendo le mani per prendere la bimba. Così facendo, le loro dita si incontrano, sfiorandosi appena.

E quel contatto è dolce, pieno di rimpianto per come tutta quella storia è terminata.

L'uomo si perde ancora negli occhi dolci e bellissimi della donna che ha di fronte, così giovane rispetto a lui da essere quasi imbarazzante.


«Bentornato, Billy»





14 Febbraio 2003

«E' bellissimo, Betty»

Elizabeth Greenwood, diciotto anni, sorride felice. E' stanca, il parto è stato sfiancante, ma almeno aveva sua madre con sé. Adesso poi che John è lì con lei, con loro, tutto è ancora più meravigliosamente perfetto.

Il bimbo si agita nel sonno, tra le braccia del padre, anche lui sorridente e sfibrato. Si è fatto dodici ore di viaggio solo per venire a stringere suo figlio, interrompendo quel viaggio di lavoro su cui tanto facevano affidamento. Sono giovani, con pochi soldi e tante spese da sostenere.

E William Benedict, il loro primogenito, per il momento dovrà vivere con la madre e il padre a casa della nonna, in attesa che anche Betty si trovi un lavoro, e possano permettersi una casetta tutta loro.

«Lo so. Lo so. John? Promettimi che non te ne andrai mai, che non ci lascerai. Bill ha bisogno di te... e anche io. Tanto bisogno» mormora la ragazza, aggrappandosi alla manica del giovane. John Brown sorride, baciandole la fronte.

«Certo. Non vi lascerò. Ti amo, Betty. Mi spiace che tuo padre non possa o non voglia vedere la magnifica donna che sei diventata. Sarebbe orgoglioso di te, ne sono sicuro» sussurra, distendendosi accanto a lei, sul lettino d'ospedale, il piccolo Bill che dorme tranquillo tra di loro.

John si perde nei suoi pensieri, indirizzandoli verso la casa, i conti da far tornare e quel lavoro che tanto voleva, sfumato via dalle sue mani dodici ore prima. Chiude gli occhi, stanco, abbracciato alla donna che ama. Non la lascerà mai. Come potrebbe essere altrimenti?





Febbraio, stesso giorno, anno diverso

Billy Black si trascina lentamente con la carrozzella fino alla cassetta delle lettere. E' una giornata bella, senza una nuvola in cielo, fredda e pura, di quelle che capitano una volta ogni cento. Per qualche strano motivo, mentre si allunga per pescare le lettere recapitate fresche fresche dalla postina, la sua mente lo riporta ad una giornata di tanti anni prima, quando aveva stretto per la prima volta volta tra le braccia le sue primogenite.

Bolletta... bolletta... cartolina di Rebecca... lettera.

Si blocca, fissando quella calligrafia tanto conosciuta quanto temuta ed odiata, vergata su quella busta bianca che riluce ai raggi del sole. Ogni volta che riceve quelle lettere, è come se un pezzo di sé muoia, perdendosi in quei ricordi del suo passato dolorosi che non può cancellare in nessun modo.

Non ne ho il diritto.

Allunga le orecchie, per capire dove si trovi Jacob, uscito poco prima imbacuccato nella vecchia giacca a vento assieme a Quil ed Embry, per fare una battaglia di palle di neve. La voce del suo ragazzo rimbomba forte, in un punto imprecisato dietro la casa, probabilmente nel boschetto di loro proprietà.

E' solo, proprio come sperava.

Perfetto.

Spinge la carrozzella fino alla porta di casa, cercando di evitare i punti della passerella per disabili dove il ghiaccio non si è ancora arreso al caldo improvviso del sole invernale. Con un sforzo, riesce ad arrivare in cima.

Apre la busta con dita tremanti, senza riuscire ad aspettare di essere dentro casa. Deve leggere subito. Come un cerotto, uno strappo e via.

Una foto quasi gli sfugge dalle mani, scivolando a sorpresa. La prende al volo, con due dita, portandosela vicino agli occhi, per vederla meglio.

Un bimbo, sui due anni, sorride felice. Ha gli occhi nocciola della madre e della nonna, quegli occhi nocciola che lui stesso ha tanto amato, e i capelli neri. Neri come i suoi, come quelli di Jacob. Se lo guarda bene, può notare davvero la somiglianza con suo figlio alla sua età.

La guarda per un po', le mani che tremano. Dietro, con grafia svolazzante, vi è una scritta: William Benedict Brown, nato il 14-02-03.

Due anni prima.

Il mio nipotino.

Rimette la foto nella busta, ancora scosso dai tremiti, mentre vecchi ricordi lo squarciano dentro, brucianti ferite riaperte.

La lettera non è molto lunga, ma riconosce subito la grafia di sua figlia Elizabeth.

La legge tutto d'un fiato, senza riuscire veramente a capire tutte le parole, intrise del dolore profondo di una ragazza che non ha mai conosciuto, mai rivisto dopo quella notte di Gennaio.

Bill. Piccolo. Stesso nome. Incidente. John, morto. Niente soldi.

Aiuto, papà, ti prego.

Solo le uniche parole che riesce a percepire, a comprendere veramente, fastidiosamente dolorose come una bruciatura all'altezza del petto.


Billy Black, adesso con mano ferma, ripone con cura la lettera nella busta bianca, posandosela in grembo.

Si dirige verso il salotto, con calma. Adesso la voce di Jacob è più vicina, nel cortile posteriore. Sente il riso tonante di Quil rimbombare prepotente, assieme agli improperi inventati di tre quindicenni.

Il fuoco scoppietta, allegro, quando Billy si avvicina.

Con un gesto unico, fluido e perfetto, getta la lettera nel fuoco, assieme alla foto, che si accartoccia scricchiolando.

Poi si gira, per non dover sopportare lo sguardo del nipotino orfano, così terribilmente uguale alla donna cui, diciotto anni prima, aveva spezzato il cuore, in nome della donna cui era sposato.




Nella mia famiglia non siamo molto fortunati in fatto di padri. Mia nonna ha avuto mia mamma da una scappatella con un uomo molto più grande che non hai mai più rivisto dopo la mia nascita, e mia madre è cresciuta da sola. Mio padre non lo ricordo neppure. E' morto in un incidente d’auto quando avevo due anni...

William Brown_Cap.8 Moonglow

   
 
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